“L'abuso di potere” lo
scriveva il 6 di novembre dell’anno 2010 Andrea Manzella, fine
costituzionalista, sul quotidiano la Repubblica: Basta leggere la Costituzione al
semplicissimo art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche
hanno il dovere di adempierle con onore". Quando, in epoche non sospette,
i giuristi l'hanno interpretato, hanno scritto che "onore" è parola
che riassume le regole di buon costume politico e sociale, le tradizioni di
comune rispetto per le religioni, gli orientamenti sessuali, il colore della
pelle degli "altri". Sono valori che ritroviamo oggi nella Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea. Violarli significa perciò fare atto
non solo anti-italiano ma anche anti-europeo. Oggigiorno improvvisati
turiferari salmodiano affinché sia garantita “agibilità politica” non
più ad un reo – mai confesso – ma ad un condannato in via definitiva. E l’onore
prescritto dalla Carta? Un appendicolo non richiesto, non necessario. Chi è oggigiorno
disposto a sostenere che l’”onore” richiesto dalla Carta non si
sia sciolto come neve al sole nella tregenda politica del bel paese durante la
quale streghe e stregoni si sono agitati per irridere quasi a quell’”onore”
richiesto per svolgere le “funzioni pubbliche”? Scriveva il
fine studioso: La mancanza del "senso dell'onore" - si scrisse ben prima del
1994 - significa la rottura di "norme di etica politica che non sono
disponibili: nel senso che non possono essere lasciate al libero apprezzamento dei
soggetti politici". Perché appartengono alla dignità non del singolo, che
vi rinuncia, ma della Repubblica che ne è, temporaneamente, rappresentata. E si
scrisse ancora che l'offesa all'"onore" repubblicano si verifica
anche per "ipotesi che riguardano la sfera privata" di chi svolge in
"affidamento" (come dice la Costituzione: cioè non in
"proprietà") funzioni pubbliche. Siamo a rievocare la storia
disdicevole e che ha disatteso l’”onore” richiesto dalla Carta, la
storia di un tempo non ancora remoto ma che sta tutta in quel “doveravatetutti”
che è esercizio di memoria, di responsabilità e di autocoscienza. Andrea
Manzella: (…). …le responsabilità del premier possono essere sanzionate in altro
modo. Dalle viscere della nostra esperienza costituzionale può venir fuori un
altro rimedio per ristabilire il decoro nazionale. Un rimedio che, senza
ricorrere a sentenze di giudici, inibisca, per censura personale all'attuale
premier, la prosecuzione delle sue pubbliche funzioni. È la conventio ad
excludendum, una "convenzione" politica di esclusione. (…). …sarebbe
il riadattamento di quello strumento che per decenni impedì ai comunisti di
partecipare al governo, pur prendendo una marea di voti. Il suo fondamento
costituzionale era nella concezione di democrazia delle libertà che è propria
della nostra Legge fondamentale. Il legame ideologico e organizzativo con
l'impero sovietico negava, di per sé, che questa concezione potesse essere la
stessa. Così il Pci - nonostante il suo decisivo contributo alla approvazione e
alla attuazione della Costituzione repubblicana e alla tenuta degli equilibri
profondi del Paese - era escluso dai governi. Un rifiuto che non si affidò,
come altrove, a clausole di sbarramento elettorale né a decisioni di tribunali
costituzionali. Ma fu un accordo di natura politica, di fatto. Anche l'attuale
premier ha avuto (e probabilmente conserva) una marea di voti. Anche lui vanta
qualche merito politico nel suo passato. Ma oggi la incompatibilità alla
presidenza del consiglio deriva semplicemente dalla abituale trasgressione del
dovere costituzionale d'"onore" nei suoi compiti pubblici.
Trasgressioni che provocano, a catena, sperpero di tempi politici, arresto di
efficacia e di credibilità nell'azione di governo. Un discorso del fine
costituzionalista di tre anni appena addietro, ma dal quale appare evidente
come le lancette della politica del bel paese non si siano mosse da allora di
un tocco che sia. Immobili, in un mondo in vorticoso cambiamento. E che vadano
al diavolo i problemi sociali ed economici del paese! C’è dell’altro su cui
battagliare! La confusione tra libertà e libertinaggio; la contemporanea
rivendicazione di una propria privacy e l'offesa alla "privacy" degli
altri (specie dei minori) con deteriori "stili di vita" propagandati
come esemplari per l'intera Nazione; la palese ansia di complicità e di
connivenze populiste nel banalizzare e normalizzare strappi comportamentali che
nella stragrande parte di mondo non sono né banali né normali. Tutto questo non
è in contrasto con una morale tipizzata o religiosa: è in contrasto con il
laico modo di intendere le pubbliche funzioni nella Costituzione e nell'intera
Unione europea. Non è una condanna moralistica o di costume. Ma una
constatazione oggettiva. Come un macchinista ubriaco non può condurre un treno,
così un premier sregolato non può guidare una Nazione. Nell'un caso e
nell'altro non sono le condizioni personali che preoccupano, ma le loro
ricadute sul diritto della collettività al buon governo della cosa pubblica.
Per questo, un accordo politico di tutti, o della maggior parte di tutti,
troverebbe il suo fondamento costituzionale nella regola che impone un
"onorevole" esercizio delle funzioni della Repubblica. Sarebbe una
sfiducia "personale": ricostruttiva della soglia di decenza della
politica, prima ancora che un accordo su comuni principi di azione pubblica
nell'emergenza. Sarebbe, per singolare contrappasso, una intesa ad personam,
per la prima volta conclusa contro di lui. Ma nel pubblico e non nel privato
interesse. Quali furono le reazioni a cotanto ragionare? E la politica,
ha avuto l’interesse a dibattere argomentazioni di così grande spessore? “Doveravatetutti”
al tempo in cui Andrea Manzella chiamava all’attenzione, alla responsabilità al
rispetto delle norme di etica pubblica non barattabili neppure in nome di una
governabilità scolorita – oggigiorno - e per la quale si invocherebbe la fine
più prossima? Quella mancanza d’”onore”, nella sfera privata come
nella conduzione della vita pubblica, è “cosa” vecchia, ha connotato l’esistenza
e l’azione politica di una parte che, seppur supportata da un copioso suffragio
di voti, non detiene però il potere di scardinare l’assetto fondamentale del
vivere collettivo. È da impedire un’azione così scellerata oggi, come sarebbe
stato necessario fare allora. “Doveravatetutti”? Scriveva, quasi come
in sintonia con Andrea Manzella, il professor Maurizio Viroli – “Repubblicani alle vongole” – su “il Fatto
Quotidiano” del primo di settembre dell’anno 2012: Sostengo ormai da molti anni che
la causa principale dei mali politici e sociali dell’Italia è la carenza di
spirito repubblicano. (…). Spirito repubblicano vuol dire in primo luogo
devozione intransigente al governo della legge, vale a dire al principio che
tutti, governanti e rappresentanti inclusi, devono essere sottoposti alle
medesime leggi (…). Lo spirito repubblicano si distingue poi per il modo di
giudicare le azioni dei politici secondo il criterio che Machiavelli, il più
influente scrittore politico repubblicano moderno, ha sintetizzato con queste
parole: “Le repubbliche bene ordinate costituiscono premii e pene a’ loro
cittadini, né compensono mai l’uno con l’altro” (Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, I. 24). Voleva dire che quando un cittadino opera bene (ovvero
serve il bene comune) merita plauso e onori, ma se poi il medesimo cittadino
agisce male merita biasimo e sanzioni, e che le buone opere non cancellano la
responsabilità per quelle cattive. (…). Mescolare meriti e demeriti al fine di
attenuare la riprovazione per i secondi è tipico della peggior mentalità
italiana, non certo dello spirito repubblicano. Proprio dello spirito
repubblicano, infine (…) è il netto rifiuto dei privilegi e dei favori che i
potenti dispensano ai loro amici e ai loro clienti. Li considera, a ragione,
aperte ingiustizie e causa di corruzione. (…). Chi conosce lo spirito e il
pensiero politico repubblicani sa che l’istituzione non si identifica con
l’individuo che, per un periodo limitato, la rappresenta e chi critica un
determinato atto del Capo dello Stato non è per questo un nemico della
Presidenza della Repubblica che io considero istituzione benefica e
fondamentale per la salvaguardia della libertà e dell’unità nazionale. Chi
vuole il bene della Repubblica deve fare uno sforzo per recuperare il
significato vero dello spirito repubblicano, non le versioni edulcorate o
sbagliate che circolano presso la pubblica opinione, e pretenderne sempre il
rispetto e soprattutto dalle più alte cariche dello Stato. A chi
affidare l’”onore” della Repubblica sancito nella Carta? Il delirante
dibattito di questi giorni, con stuoli agguerriti di salmodianti e di
infaticabili turiferari, è la annunciata morte dello spirito della Carta e la affermazione
sottaciuta che le “funzioni pubbliche”, nel bel paese, possano essere svolte,
d’ora innanzi e per sempre, anche senza l’“onore” richiesto. A chi l’onere di
un rinnovato “abuso di potere”?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 28 agosto 2013
domenica 25 agosto 2013
Cronachebarbare. 19 Nel paese della “quasità”.
Si domanda Chiara Saraceno
nell’editoriale di oggi sul quotidiano la Repubblica – “La democrazia sotto ricatto” -: Perché in Italia, (…), è
possibile che il Paese rimanga appeso ad un ricatto chiaramente irricevibile?
Al di là delle questioni giuridiche (…), proprio le ragioni avanzate da
Berlusconi e i suoi per chiedere, di fatto, l’impunità – l’importanza della sua
figura politica – rendono se possibile più odioso e insopportabile il reato di
frode fiscale, più inaccettabile che possa sedere in Parlamento chi se ne è
macchiato, ed è stato per questo condannato in via definitiva. Perché? Il
perché? È il trionfo della cosiddetta “quasità” – termine tanto caro a
Francesco Merlo - del bel paese. I cittadini del quale si trovano ad essere al
contempo depositari dei destini della democrazia ma in una condizione di
“servitù”. Quasi cittadini, quasi servi. È il paradosso di un paese e di una
società del mondo Occidentale. Scrive ancora Chiara Saraceno: Berlusconi
ha, certo, enormi responsabilità in questa situazione. Ma non è da solo. Il suo
partito e i suoi mezzi di comunicazione gli danno manforte – che si tratti di
falchi o di colombe non importa. Sarebbe facile sostenere che sono tutti al
soldo di Berlusconi e senza di lui non esisterebbero. In parte, per molti o
pochi, è probabilmente vero. È disarmante vedere una intera classe politica e
giornalistica occupata a costruire una narrativa pubblica in cui Berlusconi,
nonostante il suo denaro, i suoi avvocati/parlamentari, le innumerevoli leggi
ad personam, è una vittima della giustizia ed un eroe della libertà, senza la
cui presenza in Parlamento il partito non avrebbe futuro. Non sembrano
accorgersi che in questa narrativa emerge un partito inesistente, una classe politica
che in più di un ventennio non è riuscita davvero ad autonomizzarsi dal proprio
leader. Al punto che, alle brutte, non disdegnerebbe una successione dinastica.
E qui il timore della “quasità” che ha conquistato e
divorato il bel paese affiora nella scrittura della sociologa: Eppure,
faccio fatica a pensare che siano tutti semplicemente dei servitori imbelli e
impauriti. C’è un irridente cinismo, un’operazione sistematica di
delegittimazione dei capisaldi della democrazia – a partire dalla divisione dei
poteri – in direzione di qualche cosa che assomigli ad un populismo
plebiscitario. (…). “Quasità” dalla quale non esce immune nessuna delle
forze politiche che operano nel bel paese. Sostiene quindi Chiara Saraceno: Il
ricatto, (…), ha trovato sponda anche nel timore del Pd di andare alle elezioni
e nella tenace difesa della stabilità a tutti i costi. Incapace (o forse
neppure tanto voglioso) di modificare il Porcellum, timoroso di un nuovo
tsunami elettorale dopo le prove di questi mesi, bloccato su un esasperante
dibattito interno, indebolito da comportamenti non sempre lineari nei confronti
di propri rappresentanti sotto processo, il Pd è direttamente responsabile
della propria ricattabilità – da parte del Pdl, ma anche rispetto alla ferma ed
esplicita moral suasion di Napolitano in nome della stabilità. (…). Comunque
vada a finire, questa vicenda ha consegnato ai cittadini l’immagine non solo di
un governo debolissimo, ma di una classe politica disponibile ad ogni
compromesso per salvare se stessa. Dove i potenti sono più uguali degli altri.
È possibile dare torto a tanto dichiarato sconforto? Sembra fare da controcanto
all’illustre studiosa Giovanni di Lorenzo – direttore del settimanale tedesco
Die Zeit - nell’intervista concessa a “il Fatto Quotidiano” del 17 di agosto a
firma di Mariagrazia Gerina - “Come fa
la sinistra a tollerare l’evasore?” -: “In Germania basta niente per far saltare
una carriera politica, in Italia sembra che niente, neppure una condanna
definitiva, possa rovinarla. (…). Al netto dei nostri moralismi che a volte
sono veramente eccessivi, la domanda che tutti ci facciamo è: ma come fanno in
Italia a sostenere ancora uno che è appena stato condannato in ultima istanza?”
(…). Ecco, per l’appunto, come si fa? Come è possibile impantanare un
intero paese su di una questione prettamente personale e da codice penale? Nel
paese della “quasità” è possibile. Ce ne rende ragione e ne da contezza il
Direttore nel corso della intervista: “Quello che state vivendo è un momento
cruciale: sospeso tra la svolta decisiva verso il ritorno della normalità e il
disastro finale” (…).
Che cosa ha scoperto alla fine
della sua indagine? “Che i sostenitori di Berlusconi, persone anche molto
simpatiche e amabili, semplicemente negano e continuano a negare non solo
quello per cui Berlusconi è stato indagato ma anche quello per cui è stato
condannato. A Capalbio, ne ho incontrati parecchi. A me veniva da guardarli
come fossero dei marziani. Ma, con la libertà del buffone di corte, mi sono
messo a fare tutte le domande che volevo. E ho capito. Tutto quello di cui
Berlusconi è accusato per loro non esiste. Lo negano e basta. Per loro è tutta
una congiura. E una convinzione di questo tipo non c’è modo di smontarla”.
Ha provato? “Sì, ma non c’è
verso. La teoria della congiura non prevede argomenti contro. Qualsiasi
elemento di ragionamento tu possa utilizzare è incapace di scalfirla. Anzi,
diventa la dimostrazione più evidente della congiura in atto”.
Una forma di paranoia collettiva?
“Assolutamente sì. Quello che mi sorprende di più è la concezione dello Stato
che accomuna Berlusconi ai suoi sostenitori. Per lui è lo Stato che deve
adeguarsi alle sue necessità e ai suoi interessi, non l’opposto. Una visione
che per noi in Germania è assolutamente inconcepibile”.
Cos’altro l’ha colpita? “La più
totale sfiducia in qualunque partito tradizionale. Talmente diffusa che un
principio di delusione si percepisce ormai persino nei confronti dei
Cinquestelle. La convinzione che affligge gli italiani è: tanto sono tutti uguali.
E questo è il contrario della politica. Il pensiero politico coglie le
differenze, quello apolitico tende alle generalizzazioni”.
Vent’anni di berlusconismo ci
hanno reso un popolo apolitico? “Non lo so, però questo atteggiamento,
largamente diffuso, è pericolosissimo. E lo vedo rispecchiato anche nel
dibattito televisivo. Per noi difficile da capire tutto questo. Come parecchie
altre cose”.
Quali? “L’età media della vostra
classe politica, i rituali di certe trasmissioni come Porta a Porta, il parlarsi
addosso della stampa italiana, spesso per quanto riguarda la politica
incomprensibile, in un momento così drammatico”.
Come immagina che possa finire?
“Non lo so. Per noi il ricatto al presidente della Repubblica – o arriva la
grazia per Berlusconi o facciamo cadere il governo – sarebbe impensabile. Una
cosa però mi sento di prevederla”.
Prego. “Temo che per la sinistra
italiana non finirà bene. Il fatto che anche quando è andata al governo non sia
riuscita ad arginare Berlusconi è l’altra parte dell’anomalia italiana. I miei
vicini d’ombrellone che votano per il Partito democratico non facevano altro
che dire: guarda come si sta sputtanando il Pd. Questo governo, già così,
sembra che stia in piedi in funzione del Pdl che pure ha perso le elezioni. Per
il Pd non può che finire male. E questo lo dico anche in base all’esperienza
tedesca: i governi delle larghe intese fanno male alla sinistra”. La
realtà corre veloce. Questa intervista è solamente di otto giorni addietro. La
crisi è nell’aria, se non dichiarata la si percepisce. L’irricevibile – almeno
a parole, chissà nei fatti futuri - richiesta dell’egoarca di Arcore da parte
delle sedicenti forze politiche delle “larghe intese” porterà alla fine del
governo del presidente? Non era prevedibile un epilogo simile? Ed i grandi
strateghi della politica dove sono finiti? Penso che il grande responsabile di
questa situazione sia da ricercare nell’abitatore provvisorio dell’irto colle.
Ha voluto ed imposto una soluzione che stava fuori da ogni logica democratica,
e dai risultati elettorali. Con il ricatto della sua non ricandidatura al colle.
Se ne parlerà di tutto ciò nella cosiddetta “sinistra” o anche questo sarà
divorato e sommerso dalla “quasità” del bel paese? Come non
aver visto che quella esperienza di governo era l’utilitaristica manovra – per
il Pdl, il “Partito di lui” - per una salvacondotto da ottenere a condanna
preventivata ed avvenuta? “Come fa la sinistra - quella
politica dell’”antipolitica” al potere - a tollerare l’evasore?”. Nel paese
della “quasità” è possibile essendo anche quelli della cosiddetta
“sinistra” – per come scrive Chiara Saraceno – “una classe politica disponibile
ad ogni compromesso per salvare se stessa”.
giovedì 22 agosto 2013
Capitalismoedemocrazia. 38 Capitalismo e “pesce persico”.
Non fatevi fuorviare dal titolo
che è “L'incubo di Darwin”. Del
grande di Shrewsbury non vi è traccia. Come non vi è traccia del capitano
Robert Fitzroy che era al comando della nave Beagle sulla quale quel grande,
giovanissimo, s’imbarcò. Non impegnatevi ad immaginare mondi lontani e
lussureggianti, terre inesplorate abitate da iguane giganti, varani ed uccelli
esotici dai becchi particolari che ne segnano il destino in Natura. Niente di
tutto questo. “L'incubo di Darwin” -
titolo originale “Darwin's night” – è un lungometraggio dell’anno 2004. È del
genere documentaristico, per la regia di Hubert Sauper. Presentato al Festival
del Cinema di Venezia nell’anno 2004 è riuscito ad approdare nelle sale il 10
di marzo dell’anno 2006. Un viaggio lungo, quello del film-documentario, due
anni appena, molto di meno dei cinque anni occorsi al Beagle per scandagliare le
rotte marinare della imperiale flotta britannica. Nel mentre il giovanissimo Charles
Robert Darwin scandagliava ed illuminava i segreti della Natura. Niente di
tutto questo. Di quel genio e benefattore dell’umanità tutta sopravvive, nel
film-documentario, l’inverata convinzione che solamente l’azione molesta e
perturbatrice dell’uomo ha il potere di sovvertire le sempiterne leggi della Natura.
Donde ne deriva “l’incubo” rivelatore. Quel film-documentario è passato nei
giorni appena trascorsi sulle emittenti RAI – RAI 5 -. Onore e merito al
servizio pubblico. Il resto della televisione è il nulla. Ne viene fuori questo
post, “Capitalismo e pesce persico”, per l’appunto. La storia narrata dal
regista non è di recente origine. Qualche tempo addietro una campagna in voce
ed in rete invitava a non consumare il pesce persico. Come mai? Il luogo del
misfatto è il Lago Vittoria, Tanzania, Africa, che non è solamente il più grande
lago tropicale del mondo ma possedeva – già possedeva - anche una biologia molto
particolare, almeno sino all’anno 1954. È da quella – forse presunta – data che
le cose cambiano improvvisamente per quel lago con la comparsa di una
voracissima specie, il cosiddetto “pesce persico”. Una catastrofe
ecologica! La ricca fauna lacustre viene decimata ed il predatore si ritrova ad
essere l’incontrastato dominatore del lago ed il nuovo pilastro dell'economia
locale. E l’eutrofizzazione delle acque conseguente? Il “pesce persico” sì, lo
conosciamo, direte voi, ma il capitalismo che ci azzecca? Piano. Fioriscono oltre
misura la pesca e la lavorazione nel luogo del pescato che con la esportazione
regoleranno d’ora in poi la vita di quegli uomini e di quelle donne. La vita
miserrima di uomini e donne. Gli europei, i russi e, a volte, anche gli
americani ogni giorno affollano, con i loro potenti aerei, il piccolo aeroporto
per caricare le tonnellate di filetti del gustosissimo pesce. Viene spontanea
la domanda: considerato il gran successo del “pesce persico” sulle
tavole del mondo ricco, industrializzato e progredito, per qual motivo la
popolazione locale vive in una condizione di indigenza totale? È un arcano. Ma
non tanto. Il pregio del film-documentario, passata la delusione iniziale
indotta dall’intrigante titolo, viene allo scoperto: come sono pagati i carichi
di pesce spediti nelle ricche regioni del mondo? Dalla indagine
documentaristica condotta dal regista viene fuori una realtà terrificante:
l’improvvisa comparsa del predatore non solo ha distrutto l’ecologia del grande
lago ma ha operato, negativamente, anche sulla popolazione che ha dovuto
contare innumerevoli morti tra i pescatori e tra gli addetti alla lavorazione
del pescato. Ma, come un’ondata devastatrice, la nuova realtà socio-economica
ha provocato ed indotto un incremento della prostituzione – con il commercio
del sesso tra i piloti e le donne del luogo rimaste sole, a seguito dei decessi
dei mariti, quale unico sostentamento delle famiglie - e una conseguente
diffusione dell'HIV e dell'AIDS. E dei costosissimi, prelibati filetti di “pesce
persico” ben lavorati e saporiti? Viaggiano verso altri luoghi dorati
(le teste e le lische scarnificate rimangono sul luogo e consumate fritte). Ed
il capitalismo? Il capitalismo svolge, anche in questa occasione, la parte di
sempre. I suoi aerei – amara scoperta - non arrivano mai vuoti ma sovraccarichi
di altre primizie: kalashnikov, munizioni, addirittura carri armati che vanno a
rifornire gli incalcolabili focolai di guerra sparsi per tutta l'Africa. E su
quelle guerre fratricide il capitalismo detta le sue regole: spoliazione di
quella ricchezza nuova, asservimento ai propri disegni delle autorità corrotte,
sottomissione economica e finanziaria di quel subcontinente con emarginazione e
morte per le inermi popolazioni coinvolte. “Divide et impera”. È la dura legge
del mercato, alla quale la politica si è arresa non riuscendo ad indirizzarla
verso più responsabili impieghi sociali. È da decenni che quelle terre sono nel
mirino del capitalismo rampante. La Cina post-comunista è divenuta potenza
d’occupazione di terre vastissime in quella parte di mondo, che sfrutta con impianti
agricoli che garantiscano ai suoi cittadini quei prodotti introvabili e non ottenibili
sui propri suoli. È il salto di censo e di gusto dei capitalisti cinesi
post-comunisti! Ed il capitalismo? Ed il cristianesimo? E del rapporto
capitalismo-cristianesimo? Cerco una risposta che non ho. Ma ritrovo il già tante
volte citato Giorgio Agamben – “Benjamin
ed il capitalismo” -: Se il capitalismo è una religione, come
possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? (…). David
Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – (…) – stava lavorando
sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per
“fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo
punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé
Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi
secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza
tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della
parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è
semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio
gode presso di noi, dal momento che le crediamo. (…). Creditum è il participio passato del verbo latino credere:
è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui
stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra
protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o
prendendo in prestito del denaro. (…). …secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni
peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della
fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel
puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo
è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio:
detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione
il cui Dio è il denaro. Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che
una macchina per fabbricare e gestire credito (…), ha preso il posto della
chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa,
incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Se il “denaro”
è da sempre il dio del capitalismo, irrilevanti per esso sono e saranno le
sorti degli uomini e delle donne di questo pianeta chiamato Terra. E della “cristianizzazione”
dell’Occidente opulento? Scrive Agamben: l’ipotesi di Benjamin di uno stretta
relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il
capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i
cui adepti vivono sola fide.
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