Non fatevi fuorviare dal titolo
che è “L'incubo di Darwin”. Del
grande di Shrewsbury non vi è traccia. Come non vi è traccia del capitano
Robert Fitzroy che era al comando della nave Beagle sulla quale quel grande,
giovanissimo, s’imbarcò. Non impegnatevi ad immaginare mondi lontani e
lussureggianti, terre inesplorate abitate da iguane giganti, varani ed uccelli
esotici dai becchi particolari che ne segnano il destino in Natura. Niente di
tutto questo. “L'incubo di Darwin” -
titolo originale “Darwin's night” – è un lungometraggio dell’anno 2004. È del
genere documentaristico, per la regia di Hubert Sauper. Presentato al Festival
del Cinema di Venezia nell’anno 2004 è riuscito ad approdare nelle sale il 10
di marzo dell’anno 2006. Un viaggio lungo, quello del film-documentario, due
anni appena, molto di meno dei cinque anni occorsi al Beagle per scandagliare le
rotte marinare della imperiale flotta britannica. Nel mentre il giovanissimo Charles
Robert Darwin scandagliava ed illuminava i segreti della Natura. Niente di
tutto questo. Di quel genio e benefattore dell’umanità tutta sopravvive, nel
film-documentario, l’inverata convinzione che solamente l’azione molesta e
perturbatrice dell’uomo ha il potere di sovvertire le sempiterne leggi della Natura.
Donde ne deriva “l’incubo” rivelatore. Quel film-documentario è passato nei
giorni appena trascorsi sulle emittenti RAI – RAI 5 -. Onore e merito al
servizio pubblico. Il resto della televisione è il nulla. Ne viene fuori questo
post, “Capitalismo e pesce persico”, per l’appunto. La storia narrata dal
regista non è di recente origine. Qualche tempo addietro una campagna in voce
ed in rete invitava a non consumare il pesce persico. Come mai? Il luogo del
misfatto è il Lago Vittoria, Tanzania, Africa, che non è solamente il più grande
lago tropicale del mondo ma possedeva – già possedeva - anche una biologia molto
particolare, almeno sino all’anno 1954. È da quella – forse presunta – data che
le cose cambiano improvvisamente per quel lago con la comparsa di una
voracissima specie, il cosiddetto “pesce persico”. Una catastrofe
ecologica! La ricca fauna lacustre viene decimata ed il predatore si ritrova ad
essere l’incontrastato dominatore del lago ed il nuovo pilastro dell'economia
locale. E l’eutrofizzazione delle acque conseguente? Il “pesce persico” sì, lo
conosciamo, direte voi, ma il capitalismo che ci azzecca? Piano. Fioriscono oltre
misura la pesca e la lavorazione nel luogo del pescato che con la esportazione
regoleranno d’ora in poi la vita di quegli uomini e di quelle donne. La vita
miserrima di uomini e donne. Gli europei, i russi e, a volte, anche gli
americani ogni giorno affollano, con i loro potenti aerei, il piccolo aeroporto
per caricare le tonnellate di filetti del gustosissimo pesce. Viene spontanea
la domanda: considerato il gran successo del “pesce persico” sulle
tavole del mondo ricco, industrializzato e progredito, per qual motivo la
popolazione locale vive in una condizione di indigenza totale? È un arcano. Ma
non tanto. Il pregio del film-documentario, passata la delusione iniziale
indotta dall’intrigante titolo, viene allo scoperto: come sono pagati i carichi
di pesce spediti nelle ricche regioni del mondo? Dalla indagine
documentaristica condotta dal regista viene fuori una realtà terrificante:
l’improvvisa comparsa del predatore non solo ha distrutto l’ecologia del grande
lago ma ha operato, negativamente, anche sulla popolazione che ha dovuto
contare innumerevoli morti tra i pescatori e tra gli addetti alla lavorazione
del pescato. Ma, come un’ondata devastatrice, la nuova realtà socio-economica
ha provocato ed indotto un incremento della prostituzione – con il commercio
del sesso tra i piloti e le donne del luogo rimaste sole, a seguito dei decessi
dei mariti, quale unico sostentamento delle famiglie - e una conseguente
diffusione dell'HIV e dell'AIDS. E dei costosissimi, prelibati filetti di “pesce
persico” ben lavorati e saporiti? Viaggiano verso altri luoghi dorati
(le teste e le lische scarnificate rimangono sul luogo e consumate fritte). Ed
il capitalismo? Il capitalismo svolge, anche in questa occasione, la parte di
sempre. I suoi aerei – amara scoperta - non arrivano mai vuoti ma sovraccarichi
di altre primizie: kalashnikov, munizioni, addirittura carri armati che vanno a
rifornire gli incalcolabili focolai di guerra sparsi per tutta l'Africa. E su
quelle guerre fratricide il capitalismo detta le sue regole: spoliazione di
quella ricchezza nuova, asservimento ai propri disegni delle autorità corrotte,
sottomissione economica e finanziaria di quel subcontinente con emarginazione e
morte per le inermi popolazioni coinvolte. “Divide et impera”. È la dura legge
del mercato, alla quale la politica si è arresa non riuscendo ad indirizzarla
verso più responsabili impieghi sociali. È da decenni che quelle terre sono nel
mirino del capitalismo rampante. La Cina post-comunista è divenuta potenza
d’occupazione di terre vastissime in quella parte di mondo, che sfrutta con impianti
agricoli che garantiscano ai suoi cittadini quei prodotti introvabili e non ottenibili
sui propri suoli. È il salto di censo e di gusto dei capitalisti cinesi
post-comunisti! Ed il capitalismo? Ed il cristianesimo? E del rapporto
capitalismo-cristianesimo? Cerco una risposta che non ho. Ma ritrovo il già tante
volte citato Giorgio Agamben – “Benjamin
ed il capitalismo” -: Se il capitalismo è una religione, come
possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? (…). David
Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – (…) – stava lavorando
sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per
“fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo
punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé
Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi
secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza
tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della
parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è
semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio
gode presso di noi, dal momento che le crediamo. (…). Creditum è il participio passato del verbo latino credere:
è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui
stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra
protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o
prendendo in prestito del denaro. (…). …secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni
peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della
fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel
puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo
è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio:
detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione
il cui Dio è il denaro. Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che
una macchina per fabbricare e gestire credito (…), ha preso il posto della
chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa,
incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Se il “denaro”
è da sempre il dio del capitalismo, irrilevanti per esso sono e saranno le
sorti degli uomini e delle donne di questo pianeta chiamato Terra. E della “cristianizzazione”
dell’Occidente opulento? Scrive Agamben: l’ipotesi di Benjamin di uno stretta
relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il
capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i
cui adepti vivono sola fide.
Nessun commento:
Posta un commento