"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 22 agosto 2013

Capitalismoedemocrazia. 38 Capitalismo e “pesce persico”.



Non fatevi fuorviare dal titolo che è “L'incubo di Darwin”. Del grande di Shrewsbury non vi è traccia. Come non vi è traccia del capitano Robert Fitzroy che era al comando della nave Beagle sulla quale quel grande, giovanissimo, s’imbarcò. Non impegnatevi ad immaginare mondi lontani e lussureggianti, terre inesplorate abitate da iguane giganti, varani ed uccelli esotici dai becchi particolari che ne segnano il destino in Natura. Niente di tutto questo. “L'incubo di Darwin” - titolo originale “Darwin's night” – è un lungometraggio dell’anno 2004. È del genere documentaristico, per la regia di Hubert Sauper. Presentato al Festival del Cinema di Venezia nell’anno 2004 è riuscito ad approdare nelle sale il 10 di marzo dell’anno 2006. Un viaggio lungo, quello del film-documentario, due anni appena, molto di meno dei cinque anni occorsi al Beagle per scandagliare le rotte marinare della imperiale flotta britannica. Nel mentre il giovanissimo Charles Robert Darwin scandagliava ed illuminava i segreti della Natura. Niente di tutto questo. Di quel genio e benefattore dell’umanità tutta sopravvive, nel film-documentario, l’inverata convinzione che solamente l’azione molesta e perturbatrice dell’uomo ha il potere di sovvertire le sempiterne leggi della Natura. Donde ne deriva “l’incubo” rivelatore. Quel film-documentario è passato nei giorni appena trascorsi sulle emittenti RAI – RAI 5 -. Onore e merito al servizio pubblico. Il resto della televisione è il nulla. Ne viene fuori questo post, “Capitalismo e pesce persico”, per l’appunto. La storia narrata dal regista non è di recente origine. Qualche tempo addietro una campagna in voce ed in rete invitava a non consumare il pesce persico. Come mai? Il luogo del misfatto è il Lago Vittoria, Tanzania, Africa, che non è solamente il più grande lago tropicale del mondo ma possedeva – già possedeva - anche una biologia molto particolare, almeno sino all’anno 1954. È da quella – forse presunta – data che le cose cambiano improvvisamente per quel lago con la comparsa di una voracissima specie, il cosiddetto “pesce persico”. Una catastrofe ecologica! La ricca fauna lacustre viene decimata ed il predatore si ritrova ad essere l’incontrastato dominatore del lago ed il nuovo pilastro dell'economia locale. E l’eutrofizzazione delle acque conseguente? Il “pesce persico” sì, lo conosciamo, direte voi, ma il capitalismo che ci azzecca? Piano. Fioriscono oltre misura la pesca e la lavorazione nel luogo del pescato che con la esportazione regoleranno d’ora in poi la vita di quegli uomini e di quelle donne. La vita miserrima di uomini e donne. Gli europei, i russi e, a volte, anche gli americani ogni giorno affollano, con i loro potenti aerei, il piccolo aeroporto per caricare le tonnellate di filetti del gustosissimo pesce. Viene spontanea la domanda: considerato il gran successo del “pesce persico” sulle tavole del mondo ricco, industrializzato e progredito, per qual motivo la popolazione locale vive in una condizione di indigenza totale? È un arcano. Ma non tanto. Il pregio del film-documentario, passata la delusione iniziale indotta dall’intrigante titolo, viene allo scoperto: come sono pagati i carichi di pesce spediti nelle ricche regioni del mondo? Dalla indagine documentaristica condotta dal regista viene fuori una realtà terrificante: l’improvvisa comparsa del predatore non solo ha distrutto l’ecologia del grande lago ma ha operato, negativamente, anche sulla popolazione che ha dovuto contare innumerevoli morti tra i pescatori e tra gli addetti alla lavorazione del pescato. Ma, come un’ondata devastatrice, la nuova realtà socio-economica ha provocato ed indotto un incremento della prostituzione – con il commercio del sesso tra i piloti e le donne del luogo rimaste sole, a seguito dei decessi dei mariti, quale unico sostentamento delle famiglie - e una conseguente diffusione dell'HIV e dell'AIDS. E dei costosissimi, prelibati filetti di “pesce persico” ben lavorati e saporiti? Viaggiano verso altri luoghi dorati (le teste e le lische scarnificate rimangono sul luogo e consumate fritte). Ed il capitalismo? Il capitalismo svolge, anche in questa occasione, la parte di sempre. I suoi aerei – amara scoperta - non arrivano mai vuoti ma sovraccarichi di altre primizie: kalashnikov, munizioni, addirittura carri armati che vanno a rifornire gli incalcolabili focolai di guerra sparsi per tutta l'Africa. E su quelle guerre fratricide il capitalismo detta le sue regole: spoliazione di quella ricchezza nuova, asservimento ai propri disegni delle autorità corrotte, sottomissione economica e finanziaria di quel subcontinente con emarginazione e morte per le inermi popolazioni coinvolte. “Divide et impera”. È la dura legge del mercato, alla quale la politica si è arresa non riuscendo ad indirizzarla verso più responsabili impieghi sociali. È da decenni che quelle terre sono nel mirino del capitalismo rampante. La Cina post-comunista è divenuta potenza d’occupazione di terre vastissime in quella parte di mondo, che sfrutta con impianti agricoli che garantiscano ai suoi cittadini quei prodotti introvabili e non ottenibili sui propri suoli. È il salto di censo e di gusto dei capitalisti cinesi post-comunisti! Ed il capitalismo? Ed il cristianesimo? E del rapporto capitalismo-cristianesimo? Cerco una risposta che non ho. Ma ritrovo il già tante volte citato Giorgio Agamben – “Benjamin ed il capitalismo” -: Se il capitalismo è una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? (…). David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – (…) – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. (…). Creditum è  il participio passato del verbo latino credere: è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. (…). …secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro. Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito (…), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Se il “denaro” è da sempre il dio del capitalismo, irrilevanti per esso sono e saranno le sorti degli uomini e delle donne di questo pianeta chiamato Terra. E della “cristianizzazione” dell’Occidente opulento? Scrive Agamben: l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide.

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