"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 29 luglio 2013

Cronachebarbare. 17 Se foste Voi il giudice.



Se foste Voi il giudice. Scrive in “punta di diritto” Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio 2013 – “Fisco, si fa presto a dire «necessità»” -: La legge prevede da millenni le cosiddette “scriminanti”, dette anche “cause di giustificazione”. Tra queste c’è lo “stato di necessità”, art. 54 del codice penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Come sempre, l’interpretazione della legge va fatta con attenzione. Fin qui il fine giurista. Ed il costume di un paese? Anzi il malcostume? Due fatti. Incontro l’amico divenuto nel tempo intraprendente imprenditore. Avrò il fatto già raccontato. Da artigiano è divenuto nel tempo un “rampante”. Gira in Suv nera, come prescritto. Non ha la semplicità di un tempo ma è divenuto sussiegoso. Il nuovo stato ne ha fatto una persona diversa. In quell’occasione ha avuto modo di deplorare uno Stato vampiro a suo dire. Ché, spiega, se lui non avesse evaso gli obblighi fiscali non avrebbe potuto realizzare quel che ha realizzato. Cose da inorridire. Dette con una sfrontatezza che non ha eguali. Alla mia risposta intransigente che non vi era giustificazione alcuna all’evasione degli obblighi fiscali – nel contempo il rampante usufruisce di tutti i servizi di uno stato sociale colabrodo – pur di divenire un nuovo rampante in Suv, non ne è apparso pienamente convinto ed il suo saluto è stato, nell’occasione laconico e senza il calore emotivo di altre occasioni. Il suo “stato di necessità”? Ampliare la sua attività di imprenditore. Ma al contempo, senza vergogna alcuna, godere dei servizi e dei sussidi dello stato sociale pagato dagli altri. Aggiunge Bruno Tinti: Il pericolo deve essere attuale (l’attualità è variabile: ho fame oggi; il bilancio chiuderà in perdita tra un anno); se non è così, c’è tempo di cercare soluzioni alternative. Il danno deve essere grave, per restare all’esempio, abbiamo fame, i bambini sono ammalati, l’azienda chiude sicché io non guadagnerò più una lira e i dipendenti perderanno il posto di lavoro. Il fatto (illecito) deve essere proporzionato al danno: se il problema è che non posso cambiare l’automobile o andare in vacanza; o che devo abbandonare la casa per andare ad abitare in una più piccola; in questi casi non potrò invocare la scriminante: non ho un diritto insopprimibile a vivere agiatamente. Ma soprattutto il pericolo non deve essere volontariamente causato. Questo è il punto fondamentale. Se ho vissuto come un nababbo negli anni grassi senza accantonare riserve o se ho fatto investimenti imprudenti; allora non posso scaricare sulla collettività le conseguenze delle mie scelte sbagliate, appropriandomi dei soldi dello Stato o facendo mancare il mio contributo, obbligatorio ex art. 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. (…). Cosa succederebbe se si potesse impunemente rubare un sandwich, giustificandosi poi con la Polizia dicendo: “Avevo fame”? Magari è anche vero. Ma se hai in tasca un pacchetto di sigarette che ti è costato 4 euro, la risposta sarà: “E perché non hai comprato pane invece di sigarette?”. Naturalmente questo è solo un esempio; ma bisogna rendersi conto che lo “stato di necessità” è una cosa seria: proprio non si può fare altrimenti; e non deve essere colpa tua se non si può. Fassina forse non lo sapeva. (…). Se Voi foste il giudice. Dall’imprenditore rampante, senza doveri sociali, ad una storia minima condominiale. La solita noiosissima, interminabile “riunione condominiale”. Bla, bla, bla… Ed il solito caso del condomino moroso. Che espone il suo “stato di necessità”. In questi termini precisi: che sia preferibile comprare il ciclo al figlioletto che pagare le mensilità al condominio. Ma intanto usufruisce dei servizi che il condominio provvede ad elargire. Fatto avvenuto nel nostro condominio. Se Voi foste il giudice. In “punta di diritto” Bruno Tinti scrive: Avrebbe senso dire: “Rubare un pezzo di formaggio quando si ha fame è una questione di sopravvivenza”? La risposta giusta è: “Dipende”. L’analogia ha due meriti. Consente di ragionare senza ostacoli ideologici: tutti (o quasi) sono convinti che rubare non sta bene. E poi permette di riflettere sul fatto che una gran parte dell’evasione (quella che riguarda l’Iva o le ritenute d’acconto) consiste nell’appropriarsi di soldi non propri: non si tratta dei ricavi dell’imprenditore o del lavoratore autonomo ma di quattrini che egli riceve perché li consegni al Fisco (Iva) o che egli dovrebbe consegnare al dipendente affinché questi li consegni al Fisco e che invece deve versare direttamente (ritenute). Insomma, molto simile al furto. Allora, perché “dipende”? (…). Il Tribunale di Trento ha ravvisato la scriminante dello stato di necessità nel caso di un imprenditore i cui creditori non avevano pagato, privando l’azienda di ogni liquidità e cagionandole una crisi gravissima. Il Gip di Milano ha sostenuto la stessa tesi nel caso di altro imprenditore, vittima dell’inadempimento della Pubblica Amministrazione. Il Tribunale di Milano ha valorizzato la storia economica dell’azienda e le difficoltà, non a questa imputabili, che le avevano impedito l’assolvimento degli obblighi fiscali. Qual è la differenza tra queste sentenze e l’improvvida affermazione di Fassina? I giudici hanno dichiarato non punibile l’inadempimento fiscale dopo un’indagine approfondita sulla condotta del contribuente, accertando che la situazione di illiquidità non era attribuibile a lui e valutando le conseguenze che ne sarebbero derivate sull’azienda. Il che vuol dire: non versare Iva e ritenute non si può fare, è reato; se non si è versato è perché condotte di terzi, non prevedibili (esiste debitore più affidabile della Pa? E, evidentemente, i debitori dell’imprenditore di Trento meritavano fiducia) lo hanno reso impossibile; una condotta diversa avrebbe cagionato danni gravi, proporzionati a quello cagionato al Fisco. Fassina ha spiegato ai cittadini che B aveva ragione: oltre un certo livello (soggettivo naturalmente: ma come, volete che mi venda la Porsche?) evadere è legittimo. Meglio se se ne stava zitto. Se Voi foste il giudice. Anni addietro Marco Pannella avviò una iniziativa politica affinché venisse abolita la ritenuta fiscale alla fonte a carico dei lavoratori dipendenti – del pubblico e del privato - da riversare all’erario. Si ritenne, dai più della mia parte politico-sindacale, me compreso, improvvida l’iniziativa e non meritevole di sostegno alcuno. A distanza di tantissimi anni, da quel tempo andato, quella iniziativa non mi appare più tanto peregrina. A pensarci bene la fascia sociale del lavoro dipendente non ha mai potuto godere di una “stato di necessità”. Ad ogni inasprimento fiscale, ad ogni torchiatura delle buste paga, ad ogni manovra o manovrina quel parco buoi non ha avuto altro scampo che stringere ancor più la cinghia. Mentre tutto il resto dei rampanti ha provveduto di per sé a creare e fare proprio uno “stato di necessità”. Evadendo. Mollando lo stato sociale ma continuando a godere dei servizi da esso elargiti. Se Voi foste il giudice. Ha scritto Tito Boeri, in “La sopravvivenza dei furbi”, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio 2013: L’economia sommersa, l’insieme di attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. (…). È una piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola a pagare anche le tasse degli altri (…). Allontana la soluzione dei problemi del Mezzogiorno. Perché l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia Roberto Saviano. Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. (…). È comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento come questo. Ma perché dobbiamo farne pagare lo scotto alle aziende, anche queste piccole per lo più, che sono in regola? Non sarebbe meglio ridurre la pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso, rafforzare i controlli? La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anziché quelle sul lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di più le tasse a chi le ha sempre pagate. È una scelta di politica economica conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni. Ieri abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un sorprendente segnale di continuità con quelle politiche. (…).

sabato 27 luglio 2013

Cronachebarbare. 16 I “colpi di mano” di luglio.



A proposito di “colpi”. Ci sono i cosiddetti “colpi bassi”. È che essi rimandano all’arte del pugilato ed hanno ben poco da spartire col tema odierno. E poi c’è il “colpo di fulmine”. È che esso rimanda alla sfera emozionale degli umani. Anche se, di recente, ho letto, in una cronaca estiva, di un “colpo di fulmine” – se così lo si potesse denominare - che ha tragicamente ucciso un giovanissimo bagnante. Qual è la probabilità d’essere presi sulla spiaggia, sul bagnasciuga, a piedi nudi ed in costume da bagno da un “colpo di fulmine”? Pochissime. Ci vuole una buona dose di sfortuna. Meglio rimanere al “colpo di fulmine” che sta a capo delle nostre emozioni. E poi c’è il “colpo di frusta”, che è cosa afferente ai traumi del tratto cervicale e che meglio vien definito come il "colpo di frusta cervicale". Nulla da spartire col tema odierno. E c’è poi il “colpo di calore”, che ben lo si potrebbe, malauguratamente, riscontrare con le torride giornate di questa stagione. E del “colpo della strega”? Anch’esso una patologia, molto tenuta in considerazione – dai soliti furbi - nelle vicende assicurative a seguito di incidenti stradali. Una carta vincente, sempre! E poi il “colpo di mano”. Ma il pensiero non vi porti a pensare alla destrezza dei mariuoli di strada. Il vero “colpo di mano” è fatto da onorevoli, molto onorevoli, personaggi dell’antipolitica al potere. E non da oggi. Da sempre. Nei manuali del classico “colpo di mano” di luglio se ne ritrova uno celeberrimo. È che i colpi di mano si fanno sempre nelle torride giornate. Ci vuol sempre il clima giusto. La gente è stanca, non ne vuol sapere, è distratta, va ciabattando - clap, clap, clap -; sorbisce gelati e passeggia possibilmente a dorso nudo e con i pinocchietti di stagione. Ha ben altro a cui pensare. Ed è allora che i maestri onorevoli del “colpo di mano” tentano il “colpo” per l’appunto. Dicevo del celeberrimo “colpo di mano” di qualche anno addietro. Quell’anno – il 1994 - viene comunemente denominato della “discesa in campo”. Era per l’esattezza il 13 di luglio della “discesa in campo”. Il governo dell’innominabile aveva emanato un decreto legge a firma dell'allora Ministro della Giustizia (sic!) Alfredo Biondi che, per tale ragione, nei sopradetti manuali dei “colpi di mano”, viene ancora oggi ricordato come il "decreto Biondi", o meglio, a detta dei più, il decreto "salva-ladri". È che esso, il decreto “salva-ladri”, consentiva di affidare benevolmente agli arresti domiciliari tutti coloro che fossero incorsi, a loro insaputa, in crimini di corruzione. Si era appena usciti – o si tentava, inutilmente, d’uscirne - da “tangentopoli”. Mai sentito parlare di “tangentopoli”? Ma la cosa più strana – mica tanto, poi, nel bel paese del calcio e della canzonetta - fu che quel “colpo di mano” venne tentato nel giorno in cui si sarebbero svolte le semifinali della Coppa del Mondo e l'Italia avrebbe sconfitto la Bulgaria. E poi si dice che il calcio… All’apparire delle immagini dei politici, dei mariuoli e dei lestofanti accusati di corruzione che uscivano dal carcere per effetto di quel “colpo di mano” la gran parte dei magistrati del pool Mani Pulite insorse dichiarando che avrebbe rispettato sì le leggi dello Stato, incluso il così detto decreto “salva-ladri", ma che non avrebbe potuto lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la propria coscienza chiedendo pertanto di essere assegnati ad altri incarichi. Ma avvenne il miracolo, e che miracolo, che non si è più ripetuto: il “popolo dei fax”, a migliaia e migliaia, svegliandosi come di soprassalto dal sopore indotto dalla calura di quel tempo, inondò le redazioni dei giornali e delle televisioni con le proprie proteste. Il “colpo di mano” venne in gran fretta ritirato. I turiferari del tempo parlarono di "malinteso", ed un certo Roberto Maroni – sempre come Ministro dell'Interno, quello che “al Nord la mafia non c’è” - sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di sapere del contenuto del tentato misfatto. Tanto per dovere di cronaca, il 28 di luglio, sempre della “discesa in campo”, venne arrestato Paolo Berlusconi, fratello dell’innominabile, con l'accusa di corruzione. Tanto per cambiare. E la Memoria collettiva dov’è? Ancora oggi sulla spiaggia. E ci risiamo. Cantava, soavemente e beatamente, un Riccardo Del Turco “luglio, col bene che ti voglio…”. La stagione perfetta per i “colpi di mano”, per l’appunto. Luglio 2013. Primo “colpo di mano”.  Da “Laide intese” di Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 25 di luglio – come se niente fosse accaduto 70 anni dopo il “Gran consiglio” -: (…). L’ultimo stupore dei tartufi riguarda la legge sul voto di scambio. Oggi il politico che baratta voti con la mafia in cambio di favori, appalti, assunzioni, fondi pubblici agli amici degli amici non commette reato. Perché questo scatti, occorre che i voti li paghi in denaro, cash: cosa che naturalmente non fa nessuno (l’unico precedente, secondo gli inquirenti, riguarda quel gran genio di Vittorio Cecchi Gori). I mafiosi sono ricchi, ma abbisognano di “altre utilità” (proprio quelle che una manina cancellò all’ultimo momento dal testo del ’92). Ora le “altre utilità” vengono inserite nella riforma frutto del compromesso Pd-Pdl-montiani sotto l’alto patrocinio del presidente ridens del Senato, Piero Grasso. Ma naturalmente è tutto finto. Fatto l’inganno, trovata la legge. L’escamotage che salverà gli scambisti ruota intorno ad altre tre soavi paroline: “consapevolmente”, “procacciamento” ed “erogazione”. La prima pretende che il giudice processi le prave intenzioni del politico votato dai mafiosi: il che, nel paese dell’“a mia insaputa”, è impossibile. Diranno tutti che non se n’erano accorti, o che la mafia li votava per simpatia. La seconda e la terza rendono insufficiente la promessa di voti dal mafioso al politico: bisognerà dimostrare che questi sono davvero arrivati (e come si fa? Si nascondono telecamere nei seggi?). Casomai, in queste strettoie, si riuscisse a far passare qualche politico colluso, ecco la soluzione finale: il riferimento al 416-bis, l’associazione mafiosa, per le modalità di procacciamento: non basta che il mafioso porti voti, occorre pure provare che l’ha fatto con metodi violenti e intimidatori. Se invece è stato gentile, con un’occhiata delle sue o un riferimento ai bei bambini dell’elettore, è tutto lecito. Cose che accadono quando si affida la legge sul voto di scambio ai politici che lo praticano da sempre o hanno addirittura fondato un partito col sostegno di Cosa Nostra. Ma in fondo è meglio così. In un paese dove a ogni indagine o arresto o processo su un qualunque politico delinquente scatta la rivolta dell’intero Parlamento e del 99 per cento della stampa contro la persecuzione, l’accanimento e i teoremi ai danni del Tortora reincarnato, inventare nuovi reati per i politici delinquenti non è solo difficile: è inutile. E dannoso. (…). Secondo “colpo di mano”. Da “Soldi ai partiti, la spugna del Pdl” di Liana Milella, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio – il giorno dopo del “Gran consiglio” -: Via il carcere per punire il finanziamento illecito dei partiti. Via i quattro anni di pena. Solo "una sanzione amministrativa pecuniaria". Firmato, ovviamente, il Pdl. Seppellita per sempre Mani Pulite. Cancellate tutte le inchieste presenti e future. Una moratoria pazzesca. Incredibile solo a pensarla, proprio di questi tempi. A guardare il lungo catalogo delle leggi ad personam è il più clamoroso dei colpi di spugna. Una maxi depenalizzazione. Mai, in vent'anni di norme per demolire il codice penale, si era osato tanto. (…). …eccola qui la madre di tutti i possibili azzeramenti. Cinque righe in tutto. Un emendamento al disegno di legge del governo che cancella il finanziamento pubblico dei partiti e vorrebbe fissare le nuove regole per garantire "la trasparenza". (…). Ebbene, ecco comparire lì l'articolo 10-bis. (…). Dice l'emendamento: "All'articolo 7, terzo comma, le parole da "reclusione a triplo" sono sostituite dalle seguenti "sanzione amministrativa pecuniaria pari al triplo"". (…). Che succede con questo emendamento? Bisogna leggere il terzo comma dell'articolo 7 della legge 195. Essa impone che "chiunque corrisponde o riceve contributi senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, è punito, per ciò solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate". Carcere più multa dunque. Doppia pena per chi viola una fondamentale regola di trasparenza, cioè dà i soldi di una società senza che di ciò resti traccia, con l'ovvia conseguenza che se la società ottiene poi dei vantaggi dal politico non si può stabilire la relazione. (…). Mani pulite fu costruita su tre reati, il falso in bilancio, la concussione, il finanziamento illecito. Il primo lo hanno acciaccato nel 2001 per salvare Berlusconi. Il secondo è finito vittima della legge sull'anti-corruzione. Adesso tocca al terzo. Se davvero dovesse cadere anche il finanziamento illecito nessuno deve più parlare di trasparenza e di lotta alla corruzione. Dicono che i molto onorevoli lavoreranno tutta l’estate per provvedere al “bene comune”. Quale? Speriamo, invece, che vadano presto in vacanza chiudendo il “parlatorio” – senza un recondito secondo senso -. Per il bene di tutti.

giovedì 25 luglio 2013

Eventi. 10 «Il più bel funerale del fascismo».



Ha dello straordinario il “racconto”, se così lo si potrebbe definire, che del 25 di luglio di settanta anni addietro ne ha fatto Jenner Meletti sul quotidiano la Repubblica del 22 Luglio 2013 col titolo, che sorprende anch’esso, “La pastasciutta della memoria”. Un titolo che potrebbe, nell’occasione, sembrare dissacrante, irriverente. Ma non lo è. Poiché quel Suo “racconto” è pregno di “Memoria” alta, altissima, di umanità piena, pienissima, che ci soccorrono nei tempi cupi che siamo chiamati a vivere, cupi questi sì e più di quelli, poiché essi sono senza visione di un futuro. Settanta anni addietro erano tempi di guerra, di fame, di morte, ma dal “racconto” è come se quegli anni cupi avessero una loro “leggerezza” che non la si ritrova nei giorni che viviamo. La “leggerezza” della speranza. È  a Giovanni Bigi che Jennerr Meletti affida la narrazione di quelle giornate straordinarie: «E io ero là, quella mattina. Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes. Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda. Allora avevo 16 anni...». (…).«È passato uno in strada e si è messo a gridare: "l'è caschè, l'è caschè...". È caduto, è caduto. "Ma chi è casché?", chi è caduto? "Al Duce, i l'han mess in galera". È il Duce, l'hanno messo in carcere ». L'intera famiglia si riunisce al fresco del portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. È a questo punto che vien fuori la straordinarietà di quel tempo, di quella gente. E sì che la guerra e la tirannide nazi-fascista avrebbero dovuto fiaccare quei cuori e quelle menti. Si è in quel di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, terra di lavoro e di cooperazione. Terra di “sentimenti” alti e forti di umanità che la bruttura di quei tempi non era riuscita a cancellare. Continua il Bigi per la penna – oggigiorno il computer – di Jenner Meletti: «L'idea della pastasciutta — (…) — è venuta ad Aldo e gli altri si sono detti subito d'accordo. "Non possiamo fare una manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi"». L'organizzazione viene affidata a Gelindo. «È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari, più ricchi dei mezzadri. Certo, il grano si doveva portare all'ammasso ma noi contadini eravamo furbi. Prima dell'arrivo della trebbiatrice — sorvegliata dai militi fascisti — noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame». Il fornaio chiede l'aiuto delle donne di case Cocconi per impastare la farina. «Gelindo va poi alla latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il casaro chiede l'aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c'erano le grattugie elettriche, allora. Si faceva tutto a mano ». (…). «E io, Bigi Giovanni, ho avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al caseificio alle ore 11». La voce si sparge, dalle case di campagna braccianti e contadini escono con i piatti in mano, o anche con le zuppiere e si mettono dietro al carro come in processione. (…). «Sul carro con me — racconta Giovanni Bigi — c'erano quattro ragazze. Ricordo i nomi solo di tre di loro: Eletta Bigi che era mia sorella, Amedea Barani e Maria Zaniboni. Diventeranno tutte staffette partigiane. Alle 13 siamo in piazza e le ragazze cominciano a riempire i piatti. Arriva subito il maresciallo dei carabinieri che parla con Gelindo e dice: questa è una manifestazione e sapete bene che gli assembramenti con più di tre persone sono proibiti. "No — gli risponde Gelindo — qui c'è soltanto gente che ha fame. Maresciallo, prenda un piatto di pasta e torni in caserma. All'ordine pubblico ci pensiamo noi, non succederà niente"». In piazza c'erano anche gli altri fratelli Cervi. Se il “racconto” di Jenner Meletti non fosse impresso sulla vile carta stampata di un quotidiano ma fosse impresso sulla celluloide – come nei tempi andati del cinema prima che il digitale la mandasse in pensione, alla celluloide intendo dire – assisteremmo alla scena clou di quel film. In essa si coglierebbe la straordinarietà di quei tempi e di quegli uomini e di quelle donne nei quali il nazi-fascismo non era riuscito, con tutto il terrore disseminato a piene mani, a spegnere la fiammella della umanità, dell’altruismo e di quel sentire che avrebbe poi dato sostegno morale alla lotta partigiana che da quel 25 di luglio dell’anno 1943 avrebbe devastato gran parte del bel paese. E quella generosità e quella umanità le ricorda, forse con grandissimo orgoglio, la voce narrante di Giovanni Bigi: «Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui, vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di Antenore. E per la prima volta in vita mia vidi spuntare tre o quattro cartelli, con scritto "Abbasso il fascismo", "Viva la Pace"». Sono ormai vent'anni che, nell'aia e nei prati di casa Cervi, il 25 luglio si prepara la «pastasciutta antifascista». (…). «Io, quel pomeriggio (…), rimessi i bidoni vuoti sul carro, credevo che tutto fosse finito. E invece...». E poi la tragedia dei Cervi ad opera di un mostro morente. Scrive a conclusione del Suo “racconto” Jenner Meletti: All'alba del 25 novembre 1943 la casa dei Cervi viene circondata dai militi della Guardia nazionale repubblicana. Alcide ed i suoi figli, assieme al partigiano Quarto Camurri, vengono portati nel carcere dei Servi a Reggio Emilia. I sette fratelli, assieme a Quarto Camurri, vengono fucilati alle 6,30 del 28 dicembre al Poligono di tiro della città. Il 15 novembre 1944 la loro madre, Genoeffa Cocconi, muore di crepacuore. «Oppressa dal dolore», scrissero sui manifesti funebri. Riporta Jenner Meletti quel che ne scrisse papà Cervi a proposito di quella “pastasciutta” collettiva: «È stato — (…) — il più bel funerale del fascismo». E poi fu la guerra civile, quella vera, non quella inventata (o sperata) per ottenere individuali salvacondotti. Dopo quel 25 di luglio dell’anno 1943 di salvacondotti non ce ne furono per nessuno. Si morì, anche, per un futuro che fosse diverso.