Se foste Voi il giudice. Scrive
in “punta di diritto” Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 27 di luglio
2013 – “Fisco, si fa presto a dire «necessità»”
-: La
legge prevede da millenni le cosiddette “scriminanti”, dette anche “cause di
giustificazione”. Tra queste c’è lo “stato di necessità”, art. 54 del codice
penale: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave
alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti
evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Come sempre,
l’interpretazione della legge va fatta con attenzione. Fin qui il fine
giurista. Ed il costume di un paese? Anzi il malcostume? Due fatti. Incontro
l’amico divenuto nel tempo intraprendente imprenditore. Avrò il fatto già
raccontato. Da artigiano è divenuto nel tempo un “rampante”. Gira in Suv nera,
come prescritto. Non ha la semplicità di un tempo ma è divenuto sussiegoso. Il
nuovo stato ne ha fatto una persona diversa. In quell’occasione ha avuto modo
di deplorare uno Stato vampiro a suo dire. Ché, spiega, se lui non avesse evaso
gli obblighi fiscali non avrebbe potuto realizzare quel che ha realizzato. Cose
da inorridire. Dette con una sfrontatezza che non ha eguali. Alla mia risposta
intransigente che non vi era giustificazione alcuna all’evasione degli obblighi
fiscali – nel contempo il rampante usufruisce di tutti i servizi di uno stato
sociale colabrodo – pur di divenire un nuovo rampante in Suv, non ne è apparso
pienamente convinto ed il suo saluto è stato, nell’occasione laconico e senza
il calore emotivo di altre occasioni. Il suo “stato di necessità”? Ampliare la
sua attività di imprenditore. Ma al contempo, senza vergogna alcuna, godere dei
servizi e dei sussidi dello stato sociale pagato dagli altri. Aggiunge Bruno
Tinti: Il pericolo deve essere attuale (l’attualità è variabile: ho fame oggi;
il bilancio chiuderà in perdita tra un anno); se non è così, c’è tempo di
cercare soluzioni alternative. Il danno deve essere grave, per restare
all’esempio, abbiamo fame, i bambini sono ammalati, l’azienda chiude sicché io
non guadagnerò più una lira e i dipendenti perderanno il posto di lavoro. Il
fatto (illecito) deve essere proporzionato al danno: se il problema è che non
posso cambiare l’automobile o andare in vacanza; o che devo abbandonare la casa
per andare ad abitare in una più piccola; in questi casi non potrò invocare la
scriminante: non ho un diritto insopprimibile a vivere agiatamente. Ma
soprattutto il pericolo non deve essere volontariamente causato. Questo è il
punto fondamentale. Se ho vissuto come un nababbo negli anni grassi senza
accantonare riserve o se ho fatto investimenti imprudenti; allora non posso
scaricare sulla collettività le conseguenze delle mie scelte sbagliate,
appropriandomi dei soldi dello Stato o facendo mancare il mio contributo,
obbligatorio ex art. 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere
alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. (…). Cosa
succederebbe se si potesse impunemente rubare un sandwich, giustificandosi poi
con la Polizia dicendo: “Avevo fame”? Magari è anche vero. Ma se hai in tasca
un pacchetto di sigarette che ti è costato 4 euro, la risposta sarà: “E perché
non hai comprato pane invece di sigarette?”. Naturalmente questo è solo un
esempio; ma bisogna rendersi conto che lo “stato di necessità” è una cosa
seria: proprio non si può fare altrimenti; e non deve essere colpa tua se non
si può. Fassina forse non lo sapeva. (…). Se Voi foste il giudice. Dall’imprenditore
rampante, senza doveri sociali, ad una storia minima condominiale. La solita
noiosissima, interminabile “riunione condominiale”. Bla, bla, bla… Ed il solito
caso del condomino moroso. Che espone il suo “stato di necessità”. In questi
termini precisi: che sia preferibile comprare il ciclo al figlioletto che
pagare le mensilità al condominio. Ma intanto usufruisce dei servizi che il
condominio provvede ad elargire. Fatto avvenuto nel nostro condominio. Se Voi
foste il giudice. In “punta di diritto” Bruno Tinti scrive: Avrebbe
senso dire: “Rubare un pezzo di formaggio quando si ha fame è una questione di
sopravvivenza”? La risposta giusta è: “Dipende”. L’analogia ha due meriti.
Consente di ragionare senza ostacoli ideologici: tutti (o quasi) sono convinti
che rubare non sta bene. E poi permette di riflettere sul fatto che una gran
parte dell’evasione (quella che riguarda l’Iva o le ritenute d’acconto)
consiste nell’appropriarsi di soldi non propri: non si tratta dei ricavi
dell’imprenditore o del lavoratore autonomo ma di quattrini che egli riceve
perché li consegni al Fisco (Iva) o che egli dovrebbe consegnare al dipendente
affinché questi li consegni al Fisco e che invece deve versare direttamente
(ritenute). Insomma, molto simile al furto. Allora, perché “dipende”? (…). Il
Tribunale di Trento ha ravvisato la scriminante dello stato di necessità nel
caso di un imprenditore i cui creditori non avevano pagato, privando l’azienda
di ogni liquidità e cagionandole una crisi gravissima. Il Gip di Milano ha
sostenuto la stessa tesi nel caso di altro imprenditore, vittima
dell’inadempimento della Pubblica Amministrazione. Il Tribunale di Milano ha
valorizzato la storia economica dell’azienda e le difficoltà, non a questa
imputabili, che le avevano impedito l’assolvimento degli obblighi fiscali. Qual
è la differenza tra queste sentenze e l’improvvida affermazione di Fassina? I
giudici hanno dichiarato non punibile l’inadempimento fiscale dopo un’indagine
approfondita sulla condotta del contribuente, accertando che la situazione di
illiquidità non era attribuibile a lui e valutando le conseguenze che ne
sarebbero derivate sull’azienda. Il che vuol dire: non versare Iva e ritenute
non si può fare, è reato; se non si è versato è perché condotte di terzi, non
prevedibili (esiste debitore più affidabile della Pa? E, evidentemente, i
debitori dell’imprenditore di Trento meritavano fiducia) lo hanno reso
impossibile; una condotta diversa avrebbe cagionato danni gravi, proporzionati
a quello cagionato al Fisco. Fassina ha spiegato ai cittadini che B aveva
ragione: oltre un certo livello (soggettivo naturalmente: ma come, volete che
mi venda la Porsche?) evadere è legittimo. Meglio se se ne stava zitto.
Se Voi foste il giudice. Anni addietro Marco Pannella avviò una iniziativa politica
affinché venisse abolita la ritenuta fiscale alla fonte a carico dei lavoratori
dipendenti – del pubblico e del privato - da riversare all’erario. Si ritenne, dai
più della mia parte politico-sindacale, me compreso, improvvida l’iniziativa e
non meritevole di sostegno alcuno. A distanza di tantissimi anni, da quel tempo
andato, quella iniziativa non mi appare più tanto peregrina. A pensarci bene la
fascia sociale del lavoro dipendente non ha mai potuto godere di una “stato di
necessità”. Ad ogni inasprimento fiscale, ad ogni torchiatura delle buste paga,
ad ogni manovra o manovrina quel parco buoi non ha avuto altro scampo che
stringere ancor più la cinghia. Mentre tutto il resto dei rampanti ha
provveduto di per sé a creare e fare proprio uno “stato di necessità”.
Evadendo. Mollando lo stato sociale ma continuando a godere dei servizi da esso
elargiti. Se Voi foste il giudice. Ha scritto Tito Boeri, in “La sopravvivenza dei furbi”, sul
quotidiano la Repubblica del 26 di luglio 2013: L’economia sommersa, l’insieme di
attività svolte senza pagare tasse e contributi sociali, conta tra un sesto e
un quarto del nostro prodotto interno lordo, a seconda della stime. (…). È una
piaga nazionale, un fardello che pesa sulla parte più avanzata del nostro
tessuto produttivo, localizzata soprattutto nel Nord del paese, costringendola
a pagare anche le tasse degli altri (…). Allontana la soluzione dei problemi
del Mezzogiorno. Perché l’illegalità alimenta altra illegalità ben più grave: è
proprio sullo smercio delle produzioni del sommerso economico che spesso vive e
vegeta la criminalità organizzata, come ci ha spiegato con rara efficacia
Roberto Saviano. Il sommerso viene storicamente tollerato in Italia. (…). È
comprensibile che non si voglia forzare alla chiusura imprese in un momento
come questo. Ma perché dobbiamo farne pagare lo scotto alle aziende, anche
queste piccole per lo più, che sono in regola? Non sarebbe meglio ridurre la
pressione fiscale sul lavoro per tutte le imprese e, al tempo stesso,
rafforzare i controlli? La verità non detta da Fassina e da chi ieri lo ha
applaudito è che chi oggi vuole abolire le tasse sulla casa, anziché quelle sul
lavoro, e vuole tollerare maggiormente l’evasione, ha scelto di far pagare di
più le tasse a chi le ha sempre pagate. È una scelta di politica economica
conseguente, che ha accomunato i governi di centro-destra, che hanno in gran
parte gestito la politica economica in Italia negli ultimi 15 anni. Ieri
abbiamo avuto da parte di un sottosegretario aspirante segretario del Pd, un
sorprendente segnale di continuità con quelle politiche. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
lunedì 29 luglio 2013
sabato 27 luglio 2013
Cronachebarbare. 16 I “colpi di mano” di luglio.
A proposito di “colpi”.
Ci sono i cosiddetti “colpi bassi”. È che essi rimandano
all’arte del pugilato ed hanno ben poco da spartire col tema odierno. E poi c’è
il “colpo
di fulmine”. È che esso rimanda alla sfera emozionale degli umani.
Anche se, di recente, ho letto, in una cronaca estiva, di un “colpo
di fulmine” – se così lo si potesse denominare - che ha tragicamente
ucciso un giovanissimo bagnante. Qual è la probabilità d’essere presi sulla
spiaggia, sul bagnasciuga, a piedi nudi ed in costume da bagno da un “colpo
di fulmine”? Pochissime. Ci vuole una buona dose di sfortuna. Meglio
rimanere al “colpo di fulmine” che sta a capo delle nostre emozioni. E poi
c’è il “colpo di frusta”, che è cosa afferente ai traumi del tratto
cervicale e che meglio vien definito come il "colpo di frusta cervicale".
Nulla da spartire col tema odierno. E c’è poi il “colpo di calore”, che
ben lo si potrebbe, malauguratamente, riscontrare con le torride giornate di
questa stagione. E del “colpo della strega”? Anch’esso una
patologia, molto tenuta in considerazione – dai soliti furbi - nelle vicende
assicurative a seguito di incidenti stradali. Una carta vincente, sempre! E poi
il “colpo
di mano”. Ma il pensiero non vi porti a pensare alla destrezza dei
mariuoli di strada. Il vero “colpo di mano” è fatto da
onorevoli, molto onorevoli, personaggi dell’antipolitica al potere. E non da
oggi. Da sempre. Nei manuali del classico “colpo di mano” di luglio se ne
ritrova uno celeberrimo. È che i colpi di mano si fanno sempre nelle torride
giornate. Ci vuol sempre il clima giusto. La gente è stanca, non ne vuol
sapere, è distratta, va ciabattando - clap, clap, clap -; sorbisce gelati e
passeggia possibilmente a dorso nudo e con i pinocchietti di stagione. Ha ben
altro a cui pensare. Ed è allora che i maestri onorevoli del “colpo
di mano” tentano il “colpo” per l’appunto. Dicevo del celeberrimo “colpo
di mano” di qualche anno addietro. Quell’anno – il 1994 - viene
comunemente denominato della “discesa in campo”. Era per
l’esattezza il 13 di luglio della “discesa in campo”. Il governo
dell’innominabile aveva emanato un decreto legge a firma dell'allora Ministro
della Giustizia (sic!) Alfredo Biondi che, per tale ragione, nei sopradetti
manuali dei “colpi di mano”, viene ancora oggi ricordato come il "decreto
Biondi", o meglio, a detta dei più, il decreto "salva-ladri".
È che esso, il decreto “salva-ladri”, consentiva di
affidare benevolmente agli arresti domiciliari tutti coloro che fossero incorsi,
a loro insaputa, in crimini di corruzione. Si era appena usciti – o si tentava,
inutilmente, d’uscirne - da “tangentopoli”. Mai sentito parlare
di “tangentopoli”?
Ma la cosa più strana – mica tanto, poi, nel bel paese del calcio e della
canzonetta - fu che quel “colpo di mano” venne tentato nel giorno
in cui si sarebbero svolte le semifinali della Coppa del Mondo e l'Italia avrebbe
sconfitto la Bulgaria. E poi si dice che il calcio… All’apparire delle immagini
dei politici, dei mariuoli e dei lestofanti accusati di corruzione che uscivano
dal carcere per effetto di quel “colpo di mano” la gran parte dei
magistrati del pool Mani Pulite insorse dichiarando che avrebbe rispettato sì le
leggi dello Stato, incluso il così detto decreto “salva-ladri", ma che non
avrebbe potuto lavorare in una situazione di conflitto tra il dovere e la
propria coscienza chiedendo pertanto di essere assegnati ad altri incarichi. Ma
avvenne il miracolo, e che miracolo, che non si è più ripetuto: il “popolo
dei fax”, a migliaia e migliaia, svegliandosi come di soprassalto dal
sopore indotto dalla calura di quel tempo, inondò le redazioni dei giornali e
delle televisioni con le proprie proteste. Il “colpo di mano” venne in
gran fretta ritirato. I turiferari del tempo parlarono di "malinteso",
ed un certo Roberto Maroni – sempre come Ministro dell'Interno, quello che “al
Nord la mafia non c’è” - sostenne che non aveva nemmeno avuto la possibilità di
sapere del contenuto del tentato misfatto. Tanto per dovere di cronaca, il 28 di
luglio, sempre della “discesa in campo”, venne arrestato
Paolo Berlusconi, fratello dell’innominabile, con l'accusa di corruzione. Tanto
per cambiare. E la Memoria collettiva dov’è? Ancora oggi sulla spiaggia. E ci
risiamo. Cantava, soavemente e beatamente, un Riccardo Del Turco “luglio,
col bene che ti voglio…”. La stagione perfetta per i “colpi
di mano”, per l’appunto. Luglio 2013. Primo “colpo
di mano”. Da “Laide intese” di Marco Travaglio su
“il Fatto Quotidiano” del 25 di luglio – come se niente fosse accaduto 70 anni
dopo il “Gran consiglio” -: (…). L’ultimo stupore dei tartufi riguarda
la legge sul voto di scambio. Oggi il politico che baratta voti con la mafia in
cambio di favori, appalti, assunzioni, fondi pubblici agli amici degli amici
non commette reato. Perché questo scatti, occorre che i voti li paghi in
denaro, cash: cosa che naturalmente non fa nessuno (l’unico precedente, secondo
gli inquirenti, riguarda quel gran genio di Vittorio Cecchi Gori). I mafiosi
sono ricchi, ma abbisognano di “altre utilità” (proprio quelle che una manina
cancellò all’ultimo momento dal testo del ’92). Ora le “altre utilità” vengono
inserite nella riforma frutto del compromesso Pd-Pdl-montiani sotto l’alto
patrocinio del presidente ridens del Senato, Piero Grasso. Ma naturalmente è
tutto finto. Fatto l’inganno, trovata la legge. L’escamotage che salverà gli
scambisti ruota intorno ad altre tre soavi paroline: “consapevolmente”,
“procacciamento” ed “erogazione”. La prima pretende che il giudice processi le
prave intenzioni del politico votato dai mafiosi: il che, nel paese dell’“a mia
insaputa”, è impossibile. Diranno tutti che non se n’erano accorti, o che la
mafia li votava per simpatia. La seconda e la terza rendono insufficiente la
promessa di voti dal mafioso al politico: bisognerà dimostrare che questi sono
davvero arrivati (e come si fa? Si nascondono telecamere nei seggi?). Casomai,
in queste strettoie, si riuscisse a far passare qualche politico colluso, ecco
la soluzione finale: il riferimento al 416-bis, l’associazione mafiosa, per le
modalità di procacciamento: non basta che il mafioso porti voti, occorre pure
provare che l’ha fatto con metodi violenti e intimidatori. Se invece è stato
gentile, con un’occhiata delle sue o un riferimento ai bei bambini dell’elettore,
è tutto lecito. Cose che accadono quando si affida la legge sul voto di scambio
ai politici che lo praticano da sempre o hanno addirittura fondato un partito
col sostegno di Cosa Nostra. Ma in fondo è meglio così. In un paese dove a ogni
indagine o arresto o processo su un qualunque politico delinquente scatta la
rivolta dell’intero Parlamento e del 99 per cento della stampa contro la
persecuzione, l’accanimento e i teoremi ai danni del Tortora reincarnato,
inventare nuovi reati per i politici delinquenti non è solo difficile: è
inutile. E dannoso. (…). Secondo “colpo di mano”. Da “Soldi ai partiti, la spugna del Pdl”
di Liana Milella, sul quotidiano la Repubblica del 26 di luglio – il giorno
dopo del “Gran consiglio” -: Via il carcere per punire il finanziamento
illecito dei partiti. Via i quattro anni di pena. Solo "una sanzione
amministrativa pecuniaria". Firmato, ovviamente, il Pdl. Seppellita per
sempre Mani Pulite. Cancellate tutte le inchieste presenti e future. Una
moratoria pazzesca. Incredibile solo a pensarla, proprio di questi tempi. A
guardare il lungo catalogo delle leggi ad personam è il più clamoroso dei colpi
di spugna. Una maxi depenalizzazione. Mai, in vent'anni di norme per demolire
il codice penale, si era osato tanto. (…). …eccola qui la madre di tutti i
possibili azzeramenti. Cinque righe in tutto. Un emendamento al disegno di
legge del governo che cancella il finanziamento pubblico dei partiti e vorrebbe
fissare le nuove regole per garantire "la trasparenza". (…). Ebbene, ecco
comparire lì l'articolo 10-bis. (…). Dice l'emendamento: "All'articolo 7,
terzo comma, le parole da "reclusione a triplo" sono sostituite dalle
seguenti "sanzione amministrativa pecuniaria pari al triplo"".
(…). Che succede con questo emendamento? Bisogna leggere il terzo comma
dell'articolo 7 della legge 195. Essa impone che "chiunque corrisponde o
riceve contributi senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo
societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati
regolarmente iscritti nel bilancio della società stessa, è punito, per ciò
solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle
somme versate". Carcere più multa dunque. Doppia pena per chi viola una
fondamentale regola di trasparenza, cioè dà i soldi di una società senza che di
ciò resti traccia, con l'ovvia conseguenza che se la società ottiene poi dei
vantaggi dal politico non si può stabilire la relazione. (…). Mani pulite fu
costruita su tre reati, il falso in bilancio, la concussione, il finanziamento
illecito. Il primo lo hanno acciaccato nel 2001 per salvare Berlusconi. Il
secondo è finito vittima della legge sull'anti-corruzione. Adesso tocca al
terzo. Se davvero dovesse cadere anche il finanziamento illecito nessuno deve
più parlare di trasparenza e di lotta alla corruzione. Dicono che i
molto onorevoli lavoreranno tutta l’estate per provvedere al “bene
comune”. Quale? Speriamo, invece, che vadano presto in vacanza
chiudendo il “parlatorio” – senza un recondito secondo senso -. Per il bene
di tutti.
giovedì 25 luglio 2013
Eventi. 10 «Il più bel funerale del fascismo».
Ha dello straordinario il
“racconto”, se così lo si potrebbe definire, che del 25 di luglio di settanta
anni addietro ne ha fatto Jenner Meletti sul quotidiano la Repubblica del 22
Luglio 2013 col titolo, che sorprende anch’esso, “La pastasciutta della memoria”. Un titolo che potrebbe,
nell’occasione, sembrare dissacrante, irriverente. Ma non lo è. Poiché quel Suo
“racconto” è pregno di “Memoria” alta, altissima, di umanità piena, pienissima,
che ci soccorrono nei tempi cupi che siamo chiamati a vivere, cupi questi sì e
più di quelli, poiché essi sono senza visione di un futuro. Settanta anni
addietro erano tempi di guerra, di fame, di morte, ma dal “racconto” è come se quegli
anni cupi avessero una loro “leggerezza” che non la si ritrova nei giorni che
viviamo. La “leggerezza” della speranza. È a Giovanni Bigi che Jennerr Meletti affida la
narrazione di quelle giornate straordinarie: «E io ero là, quella mattina.
Ero ormai di casa. Agostino, uno dei fratelli, aveva sposato mia sorella Irnes.
Un altro Cervi, Gelindo, aveva sposato una sorella di mio padre, Iolanda.
Allora avevo 16 anni...». (…).«È passato uno in strada e si è messo a gridare:
"l'è caschè, l'è caschè...". È caduto, è caduto. "Ma chi è
casché?", chi è caduto? "Al Duce, i l'han mess in galera". È il
Duce, l'hanno messo in carcere ». L'intera famiglia si riunisce al fresco del
portico. Ci sono Alcide e la moglie Genoeffa, i figli Ettore, Ovidio, Agostino,
Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo. È a questo punto che vien fuori
la straordinarietà di quel tempo, di quella gente. E sì che la guerra e la
tirannide nazi-fascista avrebbero dovuto fiaccare quei cuori e quelle menti. Si
è in quel di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, terra di lavoro e di cooperazione.
Terra di “sentimenti” alti e forti di umanità che la bruttura di quei tempi non
era riuscita a cancellare. Continua il Bigi per la penna – oggigiorno il
computer – di Jenner Meletti: «L'idea della pastasciutta — (…) — è venuta
ad Aldo e gli altri si sono detti subito d'accordo. "Non possiamo fare una
manifestazione perché se il Duce è caduto i fascisti e i tedeschi sono ancora
qui e Badoglio ha detto che la guerra continua. Ma il popolo ha fame e allora
gli diamo da mangiare. Non credo che avremo problemi"». L'organizzazione
viene affidata a Gelindo. «È stato lui ad andare dal fornaio di case Cocconi
per ordinargli la pasta. La farina? Due quintali li hanno messi i Cervi e mezzo
quintale noi Bigi, che come i Cervi eravamo affittuari, più ricchi dei
mezzadri. Certo, il grano si doveva portare all'ammasso ma noi contadini
eravamo furbi. Prima dell'arrivo della trebbiatrice — sorvegliata dai militi
fascisti — noi battevamo i covoni per terra, così recuperavamo parte del
frumento. Nelle nostre case non si pativa la fame». Il fornaio chiede l'aiuto
delle donne di case Cocconi per impastare la farina. «Gelindo va poi alla
latteria sociale Centro Caprara per chiedere al casaro di cuocere la pasta
nelle grandi caldaie che servono a preparare il parmigiano reggiano. Anche il
casaro chiede l'aiuto delle donne del paese per grattugiare il formaggio che
sarà il condimento della pasta, assieme al burro. Non c'erano le grattugie
elettriche, allora. Si faceva tutto a mano ». (…). «E io, Bigi Giovanni, ho
avuto un incarico importante: con il mio carro e il mio cavallo ho portato i
bidoni pieni di pasta fino alla piazza grande di Campegine. Li ho caricati al
caseificio alle ore 11». La voce si sparge, dalle case di campagna braccianti e
contadini escono con i piatti in mano, o anche con le zuppiere e si mettono
dietro al carro come in processione. (…). «Sul carro con me — racconta Giovanni
Bigi — c'erano quattro ragazze. Ricordo i nomi solo di tre di loro: Eletta Bigi
che era mia sorella, Amedea Barani e Maria Zaniboni. Diventeranno tutte
staffette partigiane. Alle 13 siamo in piazza e le ragazze cominciano a
riempire i piatti. Arriva subito il maresciallo dei carabinieri che parla con
Gelindo e dice: questa è una manifestazione e sapete bene che gli assembramenti
con più di tre persone sono proibiti. "No — gli risponde Gelindo — qui c'è
soltanto gente che ha fame. Maresciallo, prenda un piatto di pasta e torni in
caserma. All'ordine pubblico ci pensiamo noi, non succederà niente"». In
piazza c'erano anche gli altri fratelli Cervi. Se il “racconto” di
Jenner Meletti non fosse impresso sulla vile carta stampata di un quotidiano ma
fosse impresso sulla celluloide – come nei tempi andati del cinema prima che il
digitale la mandasse in pensione, alla celluloide intendo dire – assisteremmo
alla scena clou di quel film. In essa si coglierebbe la straordinarietà di quei
tempi e di quegli uomini e di quelle donne nei quali il nazi-fascismo non era
riuscito, con tutto il terrore disseminato a piene mani, a spegnere la
fiammella della umanità, dell’altruismo e di quel sentire che avrebbe poi dato
sostegno morale alla lotta partigiana che da quel 25 di luglio dell’anno 1943
avrebbe devastato gran parte del bel paese. E quella generosità e quella
umanità le ricorda, forse con grandissimo orgoglio, la voce narrante di
Giovanni Bigi: «Uno si avvicina ad Antenore e gli dice: c'è anche un fascista che
aspetta la pastasciutta, ed è in camicia nera. Antenore risponde: se è qui,
vuol dire che ha fame. Poi gli va vicino e gli dice: certo, la camicia nera te
la potevi togliere. E lui: ho solo questa. E Antenore, pronto: vedi come ti ha
ridotto il fascismo? Non hai nemmeno due camicie. Io ero lì, al fianco di
Antenore. E per la prima volta in vita mia vidi spuntare tre o quattro
cartelli, con scritto "Abbasso il fascismo", "Viva la
Pace"». Sono ormai vent'anni che, nell'aia e nei prati di casa Cervi, il
25 luglio si prepara la «pastasciutta antifascista». (…). «Io, quel pomeriggio (…),
rimessi i bidoni vuoti sul carro, credevo che tutto fosse finito. E invece...».
E poi la tragedia dei Cervi ad opera di un mostro morente. Scrive a
conclusione del Suo “racconto” Jenner Meletti: All'alba del 25 novembre 1943 la
casa dei Cervi viene circondata dai militi della Guardia nazionale
repubblicana. Alcide ed i suoi figli, assieme al partigiano Quarto Camurri,
vengono portati nel carcere dei Servi a Reggio Emilia. I sette fratelli,
assieme a Quarto Camurri, vengono fucilati alle 6,30 del 28 dicembre al
Poligono di tiro della città. Il 15 novembre 1944 la loro madre, Genoeffa
Cocconi, muore di crepacuore. «Oppressa dal dolore», scrissero sui manifesti
funebri. Riporta Jenner Meletti quel che ne scrisse papà Cervi a
proposito di quella “pastasciutta” collettiva: «È stato — (…) — il più bel
funerale del fascismo». E poi fu la guerra civile, quella vera, non
quella inventata (o sperata) per ottenere individuali salvacondotti. Dopo quel
25 di luglio dell’anno 1943 di salvacondotti non ce ne furono per nessuno. Si
morì, anche, per un futuro che fosse diverso.
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