"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 22 agosto 2012

Storiedallitalia. 19 Le parole al tempo della sobrietà.


Scrive la sociologa Chiara Saraceno nel pezzo pubblicato sul quotidiano la Repubblica che ha per titolo “L’attrazione di CL per il potere politico”: (…). Monti e Passera non sono diversi da chi li ha preceduti su quella passerella (il meeting di Comunione e Fatturazione, per dirla alla Marco Travaglio n.d.r.). Anche se, da chi ha fatto della propria “tecnicità” legittimata dalla competenza una specie di mantra, talvolta anche un po’ arrogante nei confronti sia della politica che dei cittadini, ci si sarebbe aspettati un po’ più di sobrietà e di concretezza e meno fumo. Sentirsi dire che c’è la luce in fondo al tunnel suona un po’ come una presa in giro ai milioni di italiani e alle loro famiglie alle prese con la crescita esponenziale della cassa integrazione, alla difficoltà dei giovani di trovare un lavoro e un salario decente, alla difficoltà di molte donne non solo a tenere un lavoro, ma a conciliarlo con la presenza di responsabilità di cura in città costrette a tagliare servizi (e posti di lavoro) che erano già insufficienti. Sono espressioni da campagna elettorale, non da tecnici-politici responsabili e non attratti dalle sirene di un consenso tanto facile, quanto effimero. È una delle poche voci dissonanti nel panorama politico del bel paese. Poiché anche ai cosiddetti tecnici è stato facile fare il salto del fossato e sentirsi subito dall’altra parte. Quella, per l’appunto, del potere. Alla faccia della sobrietà. Ci ha pensato per tempo il tale ministro della “paccata” di miliardi - “Non possiamo mettere una ‘paccata’ di soldi sul tavolo e sperare dopo che ci sia l’accordo, non si fa così” - in cambio di un’intesa sociale che sia. Un calcio alla sobrietà del comunicare. E poi di quel tale sotto-sub-segretario che suggeriva meno ferie agli italiani per mandar su il Pil. Ma quante ferie pensa che abbiano fatto gli italiani in questa stagione canicolare? Alla faccia della sobrietà del pensare. Ora, con la consueta sobrietà che tutti gli riconoscono, il tecnico-premier manda a quel paese la sobrietà del pensare e del dire  – fidando in verità nella dabbenaggine generale – per una capriola semantica affinché non si denominino più “furbetti” gli evasori fiscali per mezzo della quale piroetta semantica l’annoso problema della evasione – perché no eversione sociale? - verrebbe risolto. Sembra tornati ai tempi oscuri dell’EIAR. Del Minculpop. Dell’unanimità a tutti i costi. Le veline distribuite con le paroline d’ordine da far viaggiare per l’etere. Ci vuol ben altro. E loro, i signori tecnici al governo, da questo orecchio non ci sentono. Ha scritto Francesco Merlo nell’editoriale che ha per titolo “Siamo un popolo di furbi” – la Repubblica del 20 di agosto -: (…). …Machiavelli pensava che non si può abolire la malizia italiana ma che bisogna domarla con il terrore; il bastone del comando contro il sotterfugio e l’intrigo; il timore al posto dell’amore per scansare tutte le trappole e le miserie della furbizia, tra le quale oggi c’è certamente l’evasione fiscale. (…). Diciamo la verità: è impossibile non condividere il senso di un appello che svela l’inghippo di un linguaggio che  non è  innocente perché con la sua potenza è servito e serve a far crescere il pelo sullo stomaco a generazioni di italiani e a far credere che sia quella – appunto, la furbizia – la vera virtù da perseguire, in luogo del senso civico. (…): se non siamo mai riusciti a diventare cittadini la colpa non è del cattolicesimo o della disomogeneità dell’Italia o della mancanza di senso dello Stato, o del familismo e delle mamme…. Noi siamo marchiati perché ci siamo innamorati di questa natura ribalda della furbizia italiana che è una potentissima ideologia con un solo comandamento: amare Dio e fottere il prossimo. (…). Secondo Natalia Ginzburg, gli italiani hanno sempre cercato di sostituire le parole vive con cadaveri semantici che ne attenuino i significati. Tra gli orrori del politicamente corretto ci sono il cieco che diventa ‘non vedente’ e lo spazzino ‘operatore di pulizia’. In ‘Amici miei’ questo vezzo dell’eufemismo viene preso in giro cosi: <non si dice impotente ma ‘non trombante’>. Berlusconi, che è maestro di commedia all’italiana, ha inventato per noi ‘utilizzatore finale’, ‘cena elegante’, ‘burlesque’ e sono, per dirla con la Ginzburg cadaveri semantici che sostituiscono parole vive che invito il lettore a indovinare. E stavo per dimenticare la ‘escort’ al posto di …E che dire dei furbetti del quartierino: sono eroi o malfattori, o eroici malfattori? (…). Ecco, d’ora in poi – per editto del governo - non si chiamino più “furbetti”: cosa cambierà nel concreto? Nel concreto le cose da farsi ce le spiega Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” del 18 di agosto – “All’estero vanno in galera da noi non rischiano nulla” -: (…). Il mio ex collega Davigo mi ha raccontato, tra il riso e il pianto, la sua esperienza americana. Visita al carcere di Pasadena. Il direttore gli spiega che lì sono detenuti i colletti bianchi e in particolare gli evasori fiscali. Davigo si sente un pezzente (in Italia, come ho detto, non si usa) e chiede con un filo di voce: “Perché, voi gli evasori fiscali li mettete in prigione?”. E il Direttore: “Certo. Hanno mentito al popolo americano”. Lascio alla vostra fantasia immaginare la reazione di un qualsiasi nostro concittadino se gli si spiegasse che è giusto arrestare gli evasori fiscali perché hanno mentito al popolo italiano. (…). Sta di fatto che, in Italia, le sanzioni per questi reati non solo sono ridicole ma in concreto non sono mai scontate; sia per le caratteristiche proprie del processo penale italiano, costruito per non funzionare; sia per quelle della legge penale tributaria, anch’essa costruita per garantire l’impunità agli evasori. E sta di fatto che l’evasione fiscale è stata incoraggiata e giustificata dalla classe politica italiana. Chi non ricorda Berlusconi e il suo elogio dell’evasione fiscale? “Oltre il 35 % di aliquota, l’evasione è legittima difesa”. Questo tipo di cultura (!) ha profondamente inquinato il senso civico dei cittadini. Un professionista che inquisivo per evasione fiscale e che aveva tentato di corrompere i marescialli della GdF che indagavano su di lui, mi disse, dopo che lo avevo arrestato (per tentata corruzione, per carità, non per frode fiscale; quella, per via della legge italiana non sussisteva: si trattava di semplice dichiarazione infedele). “Sa perché l’ho fatto? Perché ho lavorato a lungo negli Stati Uniti e lì, a parte la prigione, l’evasione fiscale ti fa perdere di status sociale: tua moglie non viene più invitata alle gare di torta di frutta con le altre mamme del vicinato; e nessuno viene più ai tuoi barbecue del sabato pomeriggio; e, dopo un po’, anche i clienti ti abbandonano. Ero terrorizzato”. Cultura civica, senso dello Stato. Non so quanto tempo ci vorrà per formare cittadini onesti e responsabili. Certo è che, se cominciassimo a mettere in prigione i delinquenti, anche e soprattutto quelli fiscali, avremmo fatto un bel passo avanti. (…). Le cose da farsi sono queste, senza giri di parole. Poiché con le parole si può perdere anche l’anima e ritrovarsi nella condizione del buon Renzo Tramaglino e del suo “latinorum”.

martedì 7 agosto 2012

Cosecosì. 25 Vivere al tempo dello spread con l’oro in bocca.


Ha scritto Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica in un Suo “pezzo” che ha per titolo “Superare le diseguaglianze”: (…). Un problema tra i più urgenti che una politica democratica dovrà affrontare sarà quello della crescente diseguaglianza della società italiana. La diseguaglianza è un problema per la democrazia, soprattutto quando si radica nelle generazioni, perché balcanizza la società e rompe la solidarietà tra cittadini, inducendo i pochi a cedere, se così si può dire, dall’obbligo di contribuire per chi non sente più come uguale. La società italiana sta da alcuni anni percorrendo una strada a ritroso rispetto a quella nella quale si era immessa dopo la Seconda guerra mondiale: dall’eguaglianza alla diseguaglianza. E qui mi fermo nella citazione. Sfoglio una patinatissima rivista di “cucina” – il numero di Agosto – e la mia attenzione viene attratta dalla composizione fotografica che ne riempie la pagina 5. Campeggia sulla sinistra un calice al piede del quale si intravvede una collana di perle. L’immagine sfuma. Intriga. Nel calice non si intravvedono le bollicine consuete ma si intuisce un fluttuare come di corpi leggeri ridotti in lamelle. Mi guida, nella interpretazione della composizione fotografica, il logo che occupa l’angolo destro in alto della pagina laddove è scritto “Fabbrica di Oro e Argento in foglia Giusto Manetti Firenze”. Mi chiedo: che c’entra, quel logo, con il calice, la collana di perle – saranno naturali? - e lo spumante? Sposto lo sguardo nella pagina e sulla destra, in basso rispetto al logo precedente, si intravvede una grossa fragola con le scaglie/lamelle intravviste fluttuare leggere nel calice. E sotto all’immagine della fragola, a chiudere il quadro, una appetitosissima fetta di una torta al cioccolato ricoperta pur essa delle scaglie lamelle/. Cosa sarà mai? Il sortilegio, o il mistero che dir si voglia, resta sovrano. Né m’illumina, in basso a sinistra della pagina, al piede quasi del calice, un ben noto logo che sa di tutt’altro che di raffinatezze culinarie o dolciarie: UnoAerre. Ohibò, cosa sarà mai? La faccenda si complica ma, fortunatamente, trova la sua soluzione alla quarta di copertina della patinatissima rivista ove si legge, a mezza pagina, “Un prezioso regalo per una serata indimenticabile”, che sta sotto ad altre immagini di godurie culinarie cosparse sempre delle solite scaglie lamelle/. Il tutto si chiarisce ulteriormente – ohibò - dalla lettura a fondo pagina: “L’oro e l’argento alimentare di Giusto Manetti Battiloro, distribuiti in esclusiva da Unoaerre Industries Spa, sono in vendita nelle migliori gioiellerie”. Non avevo capito un accidente. Le godurie, gli intingoli, erano stati ricoperti da “oro” o “argento” “alimentare”. Chi compra “oro” o “argento” “alimentare” in Italia per ritrovarselo poi espulso integro, indigerito, dopo averne attraversato il lunghissimo canale intestinale, all’atto della quotidiana defecazione? Mi piacerebbe avere una risposta. E lo spread? E l’Imu? E la disoccupazione giovanile? Ed il taglio alla stato sociale? Chiudo sconsolato la rivista patinatissima. Ma ho anche tantissima rabbia. Ma dove sarà finita la rabbia degli oppressi? Degli sfruttati? Un consiglio: non comprate quella rivista, almeno per non arrabbiarvi come è accaduto a me! Ma se ne sarete incuriositi, cercatela e mostratela in giro. Quali reazioni susciterà negli altri? Riprendo volentieri il “pezzo” di Nadia Urbinati: (…). …la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Un significativo aspetto della disuguaglianza riguarda la sua tendenza a trasferirsi da una generazione all’altra, legando sempre di più il destino dei figli a quello dei genitori. È questo un fattore tra i più devastanti e che documenta direttamente la stabilizzazione delle classi. Perché disuguaglianza non occasionale, non per personale responsabilità, ma di classe, un fatto che vanifica ogni più ragionevole discorso sul merito individuale. Questo trend classista ci dice in sostanza che lavoro dipendente e lavoro autonomo sono divaricati (il reddito del secondo aumenta molto più in proporzione al reddito del primo) e che i punti di partenza (la famiglia) diventano sempre più determinanti e difficilmente neutralizzabili da parte degli individui. Non a caso, insieme alla divaricazione dei redditi autonomi e da lavoro si ha la divaricazione degli accoppiamenti: sempre più persone si sposano con persone con reddito simile. Insomma poveri sposano poveri, ricchi sposano ricchi – e per conseguenza, tendenza al trasferimento delle diseguaglianza e dei privilegi da una generazione all’altra. La democrazia non ha mai promesso né perseguito l’obiettivo di rendere tutti i cittadini economicamente eguali, ma ha promesso con formale dichiarazione nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a uomini e donne, diversi tra loro sotto tanti punti di vista (dal genere al credo religioso alla ricchezza) di aspirare a una vita dignitosa. Vi è nella democrazia politica un invito assai esplicito a mai interrompere il lavoro di manutenzione sociale operando sulle condizioni di accesso o le “capacitazioni” per usare un termine coniato da Amartya Sen. Ecco perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le democrazie hanno dichiarato che i livelli di disuguaglianza nella ricchezza devono e possono essere mitigati agendo sui meccanismi che la determinano, ad esempio con politiche in grado di assicurare che il godimento di alcuni diritti fondamentali raggiunga più pienamente e uniformemente la popolazione. (…). I programmi politici sono quindi determinanti perché a consolidare le classi insieme al declino fortissimo dei matrimoni interclassisti interviene proprio lo smantellamento di quel fattore sul quale si era costruita la democrazia moderna: la politica sociale, che significa la ridistribuzione dei redditi attraverso i servizi destinati alla salute e all’istruzione; in questi due settori chiave che da sempre hanno contribuito a contenere il divario tra le classi lo Stato investe sempre di meno, dimostrando nei fatti di non essere in grado o di non volere più usare la spesa pubblica per obiettivi democratici, per rimuove gli ostacoli alla crescita della disuguaglianza, come promesso dalla Costituzione.

sabato 4 agosto 2012

Capitalismoedemocrazia. 28 La finanza al tempo del Siv e dello Spv.


È un gioco perverso delle parti. Parla – inopportunamente? - il “drago” della banca centrale europea e le borse van giù che è una bellezza: - 4,6% di giovedì. Chiosa ingenuamente e con dire criptico il temporaneo reggitore della cosa pubblica del bel paese che i mercati sono tardi, ovvero lenti a capire il senso delle cose che avvengono sul pianeta Terra. È veramente strano. Velocissimi a spostare risorse finanziarie immense in un solo battito di ciglia, faticano a capire il senso delle cose dette durante lo svolgimento dell’alto consesso di quella banca. Trascorrono appena 24 ore, giusta una rotazione completa del pianeta Terra attorno al proprio asse, e la borsa di Milano registra un +6,3%. Mi viene da dare ragione ai cosiddetti “post-moderni” che, nel loro asperrimo scontro – per fortuna eminentemente intellettuale - con quelli del “nuovo realismo”, asseriscono che i fatti in quanto tali non esistono proprio ma esiste soltanto la loro interpretazione. I fatti della finanza impazzita, che sono reali, sembrano dar loro ragione. È come si vedono le cose di questo assurdo, ingiusto mondo! È la sempiterna storia del bicchiere che per alcuni è mezzo vuoto, per altri mezzo pieno. Sarà! Ma così il gioco diventa veramente pesante. I fatti sono fatti e c’è poco da scherzare. Afferma Martin Schulz, quello eletto Kapò dall’egoarca di Arcore di infelice e tristissima memoria: - I cittadini sentono l’Europa lontana. Non accettano che le decisioni sulla loro pelle siano prese da un gruppo ristretto. L’Europa non è delle banche. È ora che la politica riprenda il primato sui mercati -. Ben detto. Ma qual è, e dov’è, la politica che possa riprendere “il primato sui mercati”? Sarebbe la stessa politica che è rimasta indifferente – se non ne avesse creato anche le condizioni materiali - all’affermarsi della finanza predatrice che come un’idra a più teste divora l’economia reale? Ed il futuro delle giovani generazioni? Per avere contezza di queste affermazioni basta che si legga, con pazienza, quanto ha scritto sull’argomento il professor Luciano Gallino nella analisi pubblicata sul quotidiano la Repubblica col titolo “Sulla crisi pesano i debiti delle banche”, che di seguito propongo in parte. I fatti sono fatti e nulla può distogliermi da questo semplice convincimento, a dispetto dello scontro titanico tra quelli del “nuovo realismo” ed i cosiddetti “post-moderni”. Ne sembra convinto anche Moni Ovadia nella nota “Sto con i tartassati. Non è demagogia” nella Sua rubrica domenicale sul quotidiano l’Unità: - (…). L’ideologia dell’intimidazione demagogica contro chi chiede giustizia sociale, dignità e diritti, è figlia di una precisa pedagogia che per secoli e secoli ha costruito il mondo a misura dei potenti e dei loro privilegi. Dalla Rivoluzione francese in avanti, questa pedagogia è stata contrastata con crescente forza fino a tutti gli anni Settanta del Novecento, con conquiste significative e con un orizzonte di speranza. Ma dal crollo del cosiddetto comunismo in poi, la demagogia del privilegio si è riaffermata con questo messaggio: «Vi eravate illusi, lo Stato sociale è morto, vi spetta una vita grama, chinate la testa!» -. Ed i fatti stanno lì a dimostrarlo. Se ce ne fosse stato bisogno.

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032. Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà. Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico. In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario. (…). Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. (…). La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell’eurozona. (…). Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.