“Pudore”,
racconto di Michela Murgia pubblicato sul settimanale “L’Espresso” di ieri, venerdì
13 di giugno 2025: La ragazza era bellissima, ma questo me lo aspettavo. Castana, con due
occhi scuri dal taglio alto e le unghie color caffè fresche di manicure, mi
sedeva davanti con una sicurezza che confinava con l'arroganza. Era brava e
aveva esperienza, lo avevo visto dal curriculum, ma ci teneva a farmi capire
che ne era consapevole. Sorrisi. Apprezzavo l'ambizione nelle donne, perché era
rara al punto che per molti anni avevo pensato che le femmine ne fossero
geneticamente incapaci, destinate alla seconda fila per una sorta di volontà di
natura. Sempre pronte a un passo indietro, disponibili al servizio gratuito,
accomodanti e sorridenti, ne avevo viste decine farsi scavalcare da colleghi
per niente concilianti, a volte meno bravi di loro, ma infinitamente più
determinati a farsi valere. Un'amica sociologa mi aveva spiegato che era
questione di educazione: se vieni programmata sin da bambina per sorridere, compiacere
e assecondare, sarà impossibile per te pensare che le cose possano essere ottenute
anche in modo diverso. È per questo che le bambine a scuola vanno spesso meglio
dei maschi: nei sistemi gerarchici dove si premia la docilità, chi obbedisce di
più è avvantaggiato. Ma quando si esce dalla scuola le cose cambiano e se
quello che hai imparato a fare meglio è obbedire, non c'è niente di strano se
sarà esattamente quello che ti ritroverai a fare per tutta la vita. Quella
ragazza evidentemente aveva fatto un percorso diverso. Qualcuno l'aveva
convinta che non doveva scusarsi di essere capace. Che non c'era niente di
vergognoso nel voler emergere. Che se vuoi qualcosa nella vita, devi dimostrare
di essere in grado di sapertela prendere. Sorrise anche lei e su quel lampo di
denti perfetti le cominciai il provino. Alzai la mano e schioccai le dita. Lei
iniziò a recitare. - Quando feci l'ingresso in società avevo quindici anni; e
io già sapevo che il ruolo a cui ero condannata, vale a dire stare zitta ed
obbedire ciecamente, mi dava l'opportunità ideale di ascoltare e di osservare. Schioccai
ancora le dita e lei, senza un'esitazione, passò all'inglese con scioltezza,
proseguendo il monologo della marchesa di Merteuil come se quella fosse la sua
lingua madre. Aveva un accento anglosassone quasi privo di inflessioni,
forgiato con ogni probabilità in un ambiente oxoniense. Schioccai le dita di
nuovo e lei tornò fluidamente all'italiano. Quel monologo tratto dalle
Relazioni pericolose costituiva la prova cardine per l'assegnazione di una
parte nel mio spettacolo, ma fino a quel momento nessuna delle attrici che
avevo incontrato era stata capace di convincermi che poteva reggere la parte di
donna spietata e ferita che avevo in mente. Quella ragazza aveva un carisma
personale che mi fece sperare di aver finalmente trovato la mia protagonista.
Il suono della sua voce era ipnotico, da contralto fumatore. - Imparai a
sembrare allegra, mentre sotto la tavola mi piantavo una forchetta nel palmo
della mano, e finii per diventare una «virtuosa nell'inganno». Non era il
piacere che cercavo, era la conoscenza. E consultavo i più rigidi moralisti,
per la scienza dell'apparire, i filosofi, per sapere cosa pensare, e i
romanzieri, per capire come cavarmela; e alla fine io ho distillato il tutto in
un principio meravigliosamente semplice: «vincere o morire». - Ottimo, - dissi
posando la penna che tenevo in mano. - Direi che può bastare. Lei tacque e per
la prima volta notati nel suo corpo magro ed elegante un segno visibile di
tensione. Erano le mani contratte in grembo, due ragni pallidi che si sciolsero
lentamente dall'abbraccio che li aveva avvinti fino a quel momento. - Ho la
parte? - chiese con una mancanza di cautela che mi deluse. La fissai severo.
Avevo deciso di dargliela, ma quella evidente bramosia mi fece tentennare. Era
meno sicura di quanto volesse mostrare, in fondo. - Non ancora. Strinse le
labbra, ma non la vidi stupita né agitata, anzi sembrò calmarsi. Era come se il
non trovare troppi ostacoli l'avesse sconcertata, e ora, davanti alla mia
esitazione, trovasse ragione di rassicurazione: non era tutto facile, doveva
ancora combattere. Con voce più ferma mi incalzò: - Vuole che ripeta il
monologo? -No. Mi alzai e andai alla finestra, dandole le spalle. La stanza era
accesa di quella luminosità gentile che in Sardegna c'è solo all'inizio della
primavera, un calore che aveva ancora qualcosa di fresco, molto lontano
dall'afa schiacciante che avrebbe ucciso ogni traccia di verde nei campi già
alla fine di maggio. Era quella mitezza del clima che mi induceva a lasciare
fuori le piante in vaso, sicuro che non rischiassero la morte per il sole. Gli
occhi mi caddero sulla mimosa pudica, una delle mie amiche vegetali predilette,
e le sue foglie frastagliate sembrarono vibrare a una brezza che oltre il vetro
io non percepivo. Colto da un'idea fulminea, aprii la finestra e afferrai il
vasetto, tirandolo dentro. Lo fissai per un istante, poi mi voltai verso la
scrivania e mi ci diressi. La ragazza mi seguiva con lo sguardo, in attesa. Le
misi la pianta davanti come un'accusa e sorrisi serafico. - La creatura che
vede è una mimosa pudica. Lei sa cosa è una mimosa pudica? Esitò prima di
rispondere. Non era questa la prova che si aspettava. -No... - È una pianta
sensitiva. Se toccata da qualcuno che soffre, reagisce ritraendo le foglie. L'attrice
mi fissò incredula mentre mentivo senza tentennamenti. In realtà la mimosa
pudica reagisce meccanicamente a qualunque tocco, ma con ogni evidenza lei non
ne aveva mai vista una e su quell'ignoranza io intendevo costruire il mio
piccolo inganno. - Ora la prego. Si concentri. Si immedesimi in una donna
ferita, dalla sofferenza feroce, piena di rancore e di memoria per le ingiustizie
subite. Voglio rabbia, voglio dolore, voglio progetti di vendetta. Quando crede
di essere pronta, allunghi una mano e sfiori con un dito le foglie della
pianta. Se convince la pianta a crederle, la parte è sua. La ragazza era
impallidita. - È impossibile... - sussurrò. - Non ho sentito bene, signorina.
Può ripetere? Fissava alternativamente me e la piantina, incapace di credere
che le stessi davvero chiedendo di convincere un vegetale a dare credito al suo
recitato dolore. Esitò, ma solo un istante. - Niente. Rimasi impassibile:
sapevo che non aveva scelta, tranne quella di rifiutare la prova, alzarsi e
andarsene, ma non lo fece. Chiuse gli occhi e si concentrò. La vidi fremere appena,
contrarre di nuovo le mani in grembo e poi restare immobile forse per sei,
forse sette minuti, che parvero lunghissimi anche a me. Poi aprì gli occhi e
senza guardarmi protese la mano alla mimosa, sfiorando con la punta color caffè
dell'indice la frangia lanceolata delle minuscole foglie. Accadde esattamente
quello che avevo previsto. La sua espressione quando vide le estremità verdi
chiudersi al suo tocco era un capolavoro di sbalordimento che non sarebbe mai
riuscita a rifare identico in alcun teatro. Sotto la sua carezza la piantina
ritraeva le foglie con un movimento sincrono perfettamente percepibile che si
fermò solo quando la superficie sfiorata fu completamente chiusa su sé stessa,
protetta da quel calore estraneo, per lei minaccioso. Con il dito ancora
sospeso in aria, l'attrice mi fissava. Battei lentamente le mani. - Molto bene.
Complimenti. La parte è sua. Incredula, la ragazza cercava di ricomporsi per
non mostrarmi quanto fosse turbata dall'apparente miracolo a cui aveva assistito.
Quando si alzò feci finta di non vedere che le tremavano le ginocchia. Sapevo
che quella scena sarebbe stata raccontata decine di volte ad amici, parenti e
fidanzati, ma la mimosa pudica era una pianta delicatissima quasi sconosciuta
nei giardini domestici ed erano in pochi a conoscere il segreto del suo comportamento. Dubitavo che qualcuno le avrebbe mai creduto. Quando lasciò la stanza mi
sedetti e fissai con gratitudine la mia piccola complice verde. Ero compiaciuto
e soddisfatto. La ragazza era stata bravissima, ma io lo ero stato di più: lei
mi aveva convinto di essere la marchesa di Merteuil e io l'avevo convinta di
essere la più grande attrice mai vista in terra, capace di piegare una pianta
alla compassione e alla paura. Non vedevo l'ora di vedere cosa avrebbe fatto
sul palcoscenico una donna con addosso quella sicurezza di sé. Sorridendo
protesi la mano alla mimosa e la sfiorai grato, aspettandomi la consueta
ritrazione delle foglie. Fu allora che accadde quello che non mi aspettavo:
niente. Sorpreso, la sfiorai con più decisione, ma di nuovo le foglioline non
reagirono. Mi alzai e le andai vicino. La toccai ancora, stavolta con la
pienezza del palmo, ma incredibilmente la pianta mi ignorò. La guardai a lungo,
spiando la sua immobilità imprevista, senza sapere cosa pensare di quel
boicottaggio improvviso. Rimasi davanti al vaso quasi un'ora e dopo molti
tentativi privi di esito dovetti arrendermi all'evidenza: la pianta non si
muoveva. Mi risedetti alla scrivania. Non ricordo per quanto tempo rimasi fermo
lì in silenzio, fissandola. Con gli occhi impigliati alle sue foglie statiche,
ostinatamente immobili, sentivo crescere un'assurda certezza: qualunque cosa
fosse accaduta quando la ragazza l'aveva sfiorata, la mimosa ora a me non
credeva più.
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