Da “Costituzione
tradita: più poveri, più delitti e impunità per tutti”, tratto dall'intervento
del Pg di Palermo Roberto Scarpinato all’apertura dell’Anno giudiziario e
riportato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di gennaio 2018: (…). Il 15 gennaio 2016 sono
stati emanati i decreti legislativi n.7 e n.8 che hanno abrogato e
depenalizzato una quota indicativa di reati. Se si tiene conto che le predette
depenalizzazioni nel loro sommarsi hanno diminuito le iscrizioni di nuovi reati
nei registri delle procure in percentuali complessivamente variabili dal 20% al
30%, appare tanto più significativa la circostanza, che non nonostante siffatte
politiche criminali deflattivi, i dati statistici attestino tuttavia una
crescita percentuale delle iscrizioni di reati pari a circa il 10%. Ciò vuol
dire che l’area dell’illegalità registra una crescita tale da neutralizzare
l’efficacia delle politiche criminali deflattive, tuttavia indispensabili
perché in assenza di tali interventi deflattivi il tasso di crescita dei reati
in alcune zone del territorio raggiungerebbe il 40% ed il 70%, con relativo
incremento del numero dei procedimenti da gestire. Per apprezzare pienamente la
crescita dell’aria dell’illegalità, occorre considerare un secondo fattore. Gli
indici statistici della Procura della Repubblica prendono in considerazione solo
i reati segnalati dai cittadini a seguito di denunce e querele e i reati
autonomamente accertati delle Forze di Polizia e dalla magistratura. Resta
fuori dal computo la cifra oscura dei reati consumati e tuttavia non denunciati
o non accertati (…). Alcune cause si radicano certamente nelle condizioni di
progressivo degrado sociale ed economico in cui versano ampi strati della
popolazione soprattutto un una regione quale la Sicilia, divenuta secondo gli
indici Istat la regione più povera del paese con il 54,4% della popolazione a
rischio di povertà e con il più alto indice di disuguaglianza economica tra i
suoi abitanti a livello nazionale europeo. (…). Sussiste una connessione
profonda tra questione criminale e questione sociale che diviene di anno in anno
sempre più ineludibile. (…). Non ci può essere sicurezza, equilibrio sociale e
crescita della cultura della legalità laddove non ci sono politiche di
inclusione sociale, se non si riduce drasticamente la percentuale di persone
che svolgono un lavoro instabile, che confinate in periferie degradate si
arrangiano come possono, che violano la legge per andare avanti, senza che la
legalità o fra loro concrete possibilità di sopravvivenza e di ascesa sociale
senza passare dal crimine. (…). Per altro verso per non superare il limite di
capienza massima a causa dell’aumento costante della popolazione carceraria si
ampliano i presupposti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione,
senza tuttavia investire le risorse necessarie per garantire la risocializzazione
dei condannati (…) estromessi dal circuito carcerario. (…). Da qui anche una
delle cause del costante incremento statistico (+23%) dei reati di spaccio di
stupefacenti posti in essere in molti casi da spacciatori agli arresti
domiciliari e di fatto fuori controllo. Alla prova dei fatti, è forte il dubbio
che lo sfollamento delle carceri e la sostituzione delle pene detentive o
misure alternative - se realizzati senza adeguati investimenti economici per la
successiva risocializzazione - possano tradursi in buona parte in un
riaffollamento delle vie delle città di condannati per nulla rieducati, per
nulla reinseriti socialmente, e nella sostanza riconsegnati a un destino di
emarginazione sociale di precarietà esistenziale, anticamera del loro pendolare
ritorno al crimine anche come forma di sussistenza. (…). Nel distretto di
Palermo si registra un incremento del 97% dei procedimenti per reati di
corruzione, del 77% per reati di concussione, del 27% per i reati di
malversazione a danno dello Stato e di indebita percezione dei contributi. (…).
Il numero dei soggetti coinvolti, i ruoli apicali o strategici da tanti di essi
ricoperti all’interno di ministeri nazionali, di vari assessorati della Regione
siciliana, della più diversa tipologia di uffici ed enti pubblici - dalle
Comuni alle Asl, dal Genio Civile alla Inail e via elencando, la serialità
delle condotte criminose, la vastità delle reti di relazioni e di complicità,
la rilevantissima entità economica dei danni causati dalle condotte criminose
al pubblico erario e alla collettività, ricompongono - tessera dopo tessera -
il quando di un collasso etico e di una deriva criminale di segmenti
significativi della classe dirigente. La crescita costante anno dopo anno di
tale fenomenologia criminale, in larga misura sommersa, (nell’ultimo triennio
l’andamento di crescita a Palermo è stata del 23%) attesta che anche in questo
settore la giustizia penale non riesce ad assolvere la funzione
generalpreventiva di disincentivare la consumazione dei reati mediante la minaccia
dell’irrogazione delle sanzioni e la loro successiva comminazione. Il deficit
degli effetti della risposta penale in tale specifico settore appare il
risultato di politiche legislative stratificate nel tempo che hanno depresso in
vari modi il rischio ed il costo penale derivanti dalla consumazione di tali
reati, alimentando così la crescita di una cultura impunitaria che a sua volta
ha operato da propellente per la crescita del fenomeno. (…). In un paese come
l’Italia, caratterizzato da un livello di corruzione tra i più elevati al
mondo, il numero di persone detenute in espiazione pena definitiva per i reati
più gravi contro la P.A. è statisticamente talmente irrisorio da non essere
neppure quotato. I pochi condannati con sentenza definitiva, quelli nei cui
confronti si è resto possibile definire i tre gradi del giudizio prima che
intervenisse la prescrizione dei reati, sono pressoché tutti ammessi ad
usufruire di misure alternative alla detenzione che dovrebbero risocializzare e
rieducare alla legalità mediante l’istruzione ed il lavoro, colletti bianchi
altamente scolarizzati, di reddito elevato e già professionalmente realizzati.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 31 gennaio 2018
martedì 30 gennaio 2018
Lalinguabatte. 47 “L'abolizione dell'opinione pubblica e l'efficacia persuasiva della televisione”.
Ha scritto Michele Prospero in
“Il Comico della politica” - edito da Ediesse (2010), pagg. 280 € 15,00 -: “Prima
che il grande capitalista si impossessi dello spazio del potere come un
patrimonio privato, c’è bisogno del comico che decapiti i valori della politica
riducendola a chiacchiera meritevole di sberleffo. In un discorso che mira alla
delectatio, le scelte lessicali si orientano verso un piglio colloquiale,
popolare o periferico, certamente poco aureo e privo di sintassi complessa, di
un periodare articolato e ricco di subordinate. Senza una sostenutezza formale
apprezzabile, il linguaggio di Berlusconi assimila molto gli inconfondibili
tratti morfo-sintattici espressi come tipici prodotti del neo standard parlato
nell’età della televisione”. Un quadro – o una sua rappresentazione – tratteggiato
in un tempo che sembra essere remoto ma che ben si attaglia alla condizione
nella quale questo disastrato paese si appresta a celebrare il sempiterno rito
delle “elezioni”. E come di rincalzo in quel tempo andato Michela Marzano scriveva
nella Sua dotta riflessione - “Viaggio
ai confini del reality” - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 18
di marzo dell’anno del signore 2010: “(…). La nuova autorità è oggi la
televisione? Fino a dove si è disposti ad andare pur di essere visti da milioni
di telespettatori e vivere un quarto d’ora di celebrità, come diceva Andy
Warhol? Negli ultimi anni, i reality show si sono moltiplicati. Dal Grande
Fratello a X-Factor, da La Fattoria a L’isola dei famosi, progressivamente, la
televisione ha eliminato le barriere tra realtà e finzione, vita pubblica e
vita privata. Per attirare l’audience, si è lentamente insinuata nella vita
degli spettatori fino a colonizzarne le emozioni, come spiega il filosofo
Bernard Stiegler.
lunedì 29 gennaio 2018
Primapagina. 65 “L'Italia ha regalato 3 miliardi alla Deutsche Bank”.
Dal dossier “Così
l'Italia ha regalato 3 miliardi alla tedesca Deutsche Bank” di Paolo
Biondani e Luca Piana, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 21 di gennaio
2018: In questi anni segnati dalla crisi lo Stato italiano ha perso una cifra
superiore a tre miliardi di euro in una serie di scommesse finanziarie ad
altissimo rischio effettuate con Deutsche Bank. È la conclusione che si può
trarre dall’esame di una serie di contratti finanziari con caratteristiche
molto particolari, chiamati in gergo derivati, stipulati fra i nostri governi e
il colosso bancario tedesco a partire dal maggio 2004. Accordi riservatissimi,
più volte modificati almeno fino al 2015 e tuttora in vigore, ma finora mai
pubblicati. Fanno parte di quel complesso di contratti derivati che da anni
sono al centro di aspre polemiche proprio per l’entità delle perdite subite
dall’Italia. E per la segretezza che li circonda. Di recente due dirigenti del
ministero dell’Economia e due ex ministri, Domenico Siniscalco e Vittorio
Grilli, che respingono ogni accusa, si sono visti addebitare dalla procura
della Corte dei Conti di aver causato danni miliardari alle casse pubbliche
attraverso alcuni derivati siglati a suo tempo con un’altra grande banca,
l’americana Morgan Stanley, che all’inizio del 2012 passò all’incasso facendosi
versare dall’Italia ben 3,1 miliardi di euro. Tranne questa eccezione, tutti
gli altri contratti sono rimasti top secret. Nonostante le richieste di
trasparenza arrivate anche dal parlamento, che vi ha dedicato in tempi recenti
un’indagine conoscitiva, nessun governo ha infatti mai rivelato i nomi delle
altre banche interessate e i contenuti dei contratti, trincerandosi dietro
necessità di riservatezza. (…). Contratti che, secondo gli esperti
interpellati, rischiano di costare all’Italia più di tre miliardi di euro: la
stessa somma che nel caso di Morgan Stanley fece gridare allo scandalo. Si
tratta senza dubbio di numeri pesanti. Basti pensare che, per l’intero piano
nazionale di ristrutturazione e messa in sicurezza delle scuole pubbliche, il
governo italiano ha stanziato per il prossimo triennio circa 1,7 miliardi. I
derivati sono contratti complicatissimi che, se ben fatti, funzionano come una
polizza di assicurazione. Il Tesoro ha sempre sostenuto di averli sottoscritti
proprio per coprire l’Italia dai rischi finanziari. Il nostro Paese, che ha un
enorme debito pubblico, corre pericoli gravissimi in caso di rialzo dei tassi
d’interesse: quando crescono troppo, siamo rovinati. Di qui l’idea di
assicurare le casse pubbliche con i derivati. Se i tassi superano un livello da
allarme rosso, ad esempio il 5 per cento e rotti (come era previsto nel primo
contratto del 2004 con Deutsche Bank,…), la differenza deve sborsarla la banca.
Se invece gli interessi calano o crollano, lo Stato deve pagare comunque il 5
per cento e a guadagnarci è la banca. Qui c’è il primo punto delicato: questo
tipo di contratto derivato (chiamato “swap”, cioè scambio di tassi d’interesse:
lo Stato paga un fisso e riceve un variabile) a detta di molti esperti
assomiglia più a una scommessa che a una polizza assicurativa. Quando
assicuriamo la nostra automobile, ad esempio, paghiamo un prezzo determinato e
certo fin dall’inizio: in cambio, è la compagnia che si accolla il rischio di
dover pagare il conto in caso di incidenti. Con questi “swap”, invece, il costo
è incerto e il rischio resta distribuito tra le due parti: se i tassi vanno
nella direzione opposta rispetto a quella su cui si è puntato, le perdite
possono arrivare a cifre astronomiche. Quindi i derivati in questione
assomigliano più a una scommessa finanziaria su come si muoveranno i tassi
futuri. Una scommessa che, nel caso di Deutsche Bank, si è rivelata disastrosa
per lo Stato italiano. (…), in particolare, (per) le caratteristiche dei derivati
stipulati con l’istituto tedesco dal 2004 fino al 2015. Si tratta, per la
precisione, dello swap originario e di sei contratti di ristrutturazione, che
via via modificano gli accordi iniziali, fino a stravolgerli.
sabato 27 gennaio 2018
Primapagina. 64 “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari”.
“Prima di tutto vennero a prendere gli
zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli
omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a
prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un
giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare”.
Bertolt Brecht
Da "La
banalità del male, Eichmann a Gerusalemme" di Hannah Arendt: (…).
...tutti avrebbero visto che il processo di Gerusalemme era giusto se i giudici
avessero avuto il coraggio di rivolgersi all'imputato più o meno come segue: "Tu
hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico nell'ultima guerra
è stato il più grande crimine della storia, ed hai ammesso di avervi
partecipato. Ma tu hai detto di non aver mai agito per bassi motivi, di non
aver mai avuto tendenze omicide, di non aver mai odiato gli ebrei, e tuttavia
hai sostenuto che non potevi agire altrimenti e che non ti senti colpevole. A
nostro avviso è difficile, anche se non del tutto impossibile, credere alle tue
parole; in questo campo di motivi e di coscienza vi sono contro di te alcuni
elementi, anche se non molti, che possono essere provati al di la di ogni
ragionevole dubbio.
venerdì 26 gennaio 2018
Quodlibet. 54 “Come si può ancora credere a Silvio Berlusconi?”.
Per dire della “primitività”
della politica nel nostro paese. Che non avanza da quella “primitività” non
avendo una strada da seguire, un progetto, un’idea di paese da ri-costruire
sulle macerie del ventennio – ed anni seguenti - dell’egoarca di Arcore. E
quindi, ri-eccolo! Attorniato dai manutengoli di sempre. È la fissità della
politica del paese. Un vuoto, che neanche la natura, che ha orrore del vuoto
come suol dirsi, può o potrà mai riempire. Da “Gli adepti di Media-setta” di Gabriele Romagnoli, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 26 di gennaio dell’anno 2011: Come è possibile essere ancora
berlusconiani? Non dico di (centro) destra, conservatori, anticomunisti,
liberalpapisti o qualunque altra definizione ci si voglia dare per stare da
quella parte politica. La domanda è: come si può ancora credere (di credere) a
Silvio Berlusconi? Alla legittimità dei suoi comportamenti, al fondamento
meritocratico delle sue nomine, alla soglia minima di logica delle sue
giustificazioni e perfino all´opportunità delle sue “cosiddette” espressioni
verbali? Si dirà: per tornaconto personale.
giovedì 25 gennaio 2018
Quodlibet. 53 “Piroette cardinalizie e la difesa del bene comune”.
Da “La difesa del bene comune” di Vito Mancuso – teologo cattolico -,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 25 di gennaio dell’anno 2011: Nel
discorso di ieri, atteso dall´Italia con un interesse forse mai avuto prima per
le parole di un Presidente della Cei, il cardinal Bagnasco ha disposto le
artiglierie, ha caricato i proiettili, ha puntato nella direzione giusta. E ha
iniziato a colpire con parole infuocate come non era mai accaduto prima i
comportamenti del capo del governo (l’uomo di Arcore n.d.r.), (…).
Quando però è stato il momento di compiere la missione fino alla fine, il
cardinale ha rivolto le sue armi altrove. Il risultato, quest´oggi, è che tutti
possono dire che sono contenti, persino i sostenitori del governo, per una
situazione analoga a quella del dopo-elezioni quando nessuno dice di avere
perso. La gerarchia cattolica aveva l´occasione di aiutare gli italiani a fare
chiarezza per uscire da una situazione che li rende ridicoli al mondo e peggio
ancora a se stessi, ma non è stata capace di portarla avanti fino in fondo,
immolandola sull´altare della diplomazia. Bagnasco ha esordito parlando di
“nubi preoccupanti che si addensano sul nostro paese”, ha continuato con la
“perversione di fondo del concetto di ethos”, ha detto che “a vacillare sono i
fondamenti stessi di una civiltà”, ha proseguito con il “consumismo” e la
“cultura della seduzione” da cui scaturiscono una “rappresentazione fasulla
dell´esistenza, volta a perseguire un successo basato sull´artificiosità, la
scalata furba, il guadagno facile, l´ostentazione e il mercimonio di sé” con il
risultato di un “disastro antropologico”. Quando poi è giunto a toccare la più
stretta attualità ha parlato di “debolezza etica” e di “fibrillazione politica
e istituzionale”, ha ricordato che “si moltiplicano notizie che riferiscono di
comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci di stili non
compatibili con la sobrietà e la correttezza”, e infine ha ricordato l´art. 54
della Costituzione che sottolinea il dovere per chi governa di misura,
sobrietà, disciplina e onore. Insomma un´analisi limpida e forte, a tratti
severa, come si conviene al momento drammatico del paese. Ma alla fine è
mancato il coraggio di andare fino in fondo nel combattere i mali evocati, ha
vinto la diplomazia e ha perso la profezia. Infatti dopo tutte queste analisi
all´insegna della chiarezza evangelica, il cardinale ha girato le artigliere
dall´altra parte puntandole verso i magistrati milanesi e ha proclamato in
perfetto stile curiale, e non senza una sottile sfumatura di ambiguità per l´uso
del pronome indefinito: “…mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta
l´ingente mole di strumenti di indagine”, col risultato, per Bagnasco, che così
si passa “da una situazione abnorme all´altra”. Ovvero: il capo del governo ha
torto, ma i magistrati non hanno ragione, esagerano.
mercoledì 24 gennaio 2018
Quodlibet. 52 “Disonesti che, in fondo, si sentono onesti”.
Da “Siamo un
po’ tutti disonesti che, in fondo, si sentono onesti” di Malcom Pagani, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 24 di gennaio dell’anno 2017: Salvo Ficarra e Valentino Picone
– F e P per il lettore – dicono che non se l’aspettavano e smistano
complimenti. (…).
Gli spettatori si felicitano? F: Non solo su
Facebook, anche su altri siti. Tra i commenti entusiasti ce n’è uno che ci ha
colpito. Uno spettatore sostiene che L’ora legale faccia riflettere, che è un
soffio di vento contro la disonestà e che dopo averlo visto ha finalmente
compreso l’esigenza di pagare le tasse per ottenere i servizi.
martedì 23 gennaio 2018
Primapagina. 63 “Cesa&politica”.
Da “La
Quarta Gamba(dilegno)” di Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 23 di
gennaio 2018: (…). Lorenzo Cesa, ex Dc, ex Ccd, ex Udc, ora leader di “Noi con
l’Italia” detta anche “quarta gamba del centrodestra”. L’appello è il
“Manifesto per una politica trasparente” lanciato dall’Espresso e firmato dai
leader di tutti i partiti, esclusa ovviamente Forza Italia, per chiedere
candidati di specchiate “qualità personali e morali” e di provata “trasparenza,
legalità, indipendenza e moralità pubblica”, ben oltre il requisito minimo di
incensuratezza. E Cesa ci sta, “senza se e senza ma”. Chissà se è lo stesso
Cesa che l’8 marzo 1993, consigliere comunale a Roma e portaborse del ministro
dei Lavori pubblici Gianni Prandini (per gli amici “Prendini”), fu arrestato
dopo un paio di giorni di latitanza per corruzione aggravata nell’inchiesta
della Procura capitolina sulle tangenti Anas. Appena giunto a Rebibbia, il Cesa
scoprì che anche il pool di Milano lo cercava per un altro miliardo e mezzo di
lire di mazzette. Così confessò in tre memorabili interrogatori la sua
promettente carriera di tangentaro. Poi gli tornarono alla mente altri episodi
che gli inquirenti non avevano ancora scoperto e richiamò il gip per metterli a
verbale, con un linguaggio degno più di Pietro Gambadilegno che di un uomo
politico. Testuale: “Intendo puntualizzare alcuni episodi che non ho riferito
al pm. Episodi analoghi a quelli che mi sono stati contestati e che non ho
riferito perché, per comprensibili ragioni, ero stordito e frastornato. Oggi mi
sento più sereno e intendo svuotare il sacco…”. Un sacco bello pieno, dopo anni
trascorsi in Federlazio, in commissione urbanistica del Comune e in Anas. La
prima mazzetta non si scorda mai, infatti Cesa ha una memoria di ferro, specie
sulla forma e sul colore delle buste (meno, sul contenuto): “Intendo partire
dal primo episodio che ricordo: un mio paesano di Arcinazzo, dipendente della
società Gico dell’ingegnere Ugo Cozzani, mi disse che l’ingegnere voleva
parlarmi… Ci si incontrò dopo una ventina di giorni… si trattava di fare una
strada che doveva collegare la strada che stava costruendo con il nuovo
stabilimento Fiat in Basilicata… mi sollecitò la definizione della pratica
all’Anas… Ebbi modo d’incontrarmi con il ministro Prandini al quale segnalai la
pratica… e mi sentii rispondere che dovevo chiedere al Cozzani il 5 per cento
dell’importo dell’appalto”.
lunedì 22 gennaio 2018
Primapagina. 62 “Hanno distrutto i nostri valori”.
Da “Hanno
distrutto i nostri valori” di Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 3 di ottobre dell’anno 2017: (…). L’Italia così com’è (segnata
dalla massima crescita europea della diseguaglianza, Regno Unito escluso) è un
prodotto del Pd, che – insieme ai partiti di cui è erede, nella formula del
centrosinistra – ha governato più a lungo di Berlusconi. Lo smontaggio dello
Stato, la distruzione del pubblico e la negazione sistematica di pressoché
tutti i principi fondamentali della Costituzione sono da imputare al Pd almeno
quanto a Forza Italia. Arrivati a Renzi, il problema non è stato il
“personalismo” (pure odiosamente pervasivo): ma la definitiva distruzione dei
diritti dei lavoratori (Jobs act), la spallata finale alla scuola pubblica (la
Buona scuola), la mazzata inflitta all’ambiente (lo Sblocca Italia di Maurizio
Lupi), la mercificazione completa del patrimonio culturale e la fine della
tutela (la “riforma” Franceschini) e via elencando. Con Minniti, poi, siamo
arrivati all’eradicazione dell’articolo 10 dalla Costituzione e a una politica
securitaria per la quale i militanti di Fratelli d’Italia e Lega si spellano le
mani. Un partito che blocca lo Ius soli mentre approva un maxi-condono per l’abusivismo
edilizio: è questo il Pd. (…). Votare Pd per fermare la destra vuol dire
ripetere l’errore di chi era convinto che la visione di Sanders fosse utopica e
minoritaria e ha imposto la Clinton in nome del “realismo”: sappiamo com’è
finita. Fermare la destra facendo la politica della destra serve solo a
rinviare lo schianto finale, rendendolo ancora più devastante. In tutta Europa
sono nati movimenti radicali di sinistra (che usino o meno questa parola nel
loro nome), che contestano alla radice lo stato delle cose e le politiche di
centrosinistra degli ultimi vent’anni, rigettano il dominio della finanza sulla
politica e rivendicano il diritto di governare puntando al “pieno sviluppo
della persona umana” e non obbedendo al mercato. Tutti partiti meno “a
sinistra” di papa Francesco, sia chiaro: tanto per dire quanto sia insensato
parlare oggi di “centrosinistra” sul piano culturale. (…). Ma un simile
progetto non può certo iniziare sostenendo gli alfieri dello stato delle cose.
Alle prossime elezioni ci saranno tre, diverse, destre: quella padrona del
marchio, i 5stelle di Di Maio e il Pd di Renzi. Una sinistra che voglia
rovesciare il tavolo dello stato delle cose non può allearsi con nessuna delle
tre. E i numeri? Si può decidere di rivolgersi solo al 50% che vota, o
decidersi finalmente a parlare all’altra metà del Paese, con un linguaggio
nuovo e radicale. È la metà riemersa il 4 dicembre, determinando la vittoria
del No: laddove i flussi elettorali dimostrano che l’ 85% dei votanti Pd ha
scelto il Sì. Siamo, dunque, a una scelta di campo. L’oracolare Giuliano
Pisapia ha infine detto che sarà al fianco del Pd, mentre MdP deve ancora
decidere: tutti gli altri vogliono un quarto polo. Non so come finirà: ma se ci
si divide tra chi vuole lasciare tutto così com’è, e chi vuole invertire la
rotta non è uno scandalo, è onestà intellettuale. Lo scandalo è non averlo
fatto prima: oggi saremmo al 20 per cento. O al governo.
domenica 21 gennaio 2018
Quodlibet. 51 “Ora la corruzione è a norma di legge”.
Da “Ora la
corruzione è a norma di legge” di Roberta De Monticelli, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 21 di gennaio dell’anno 2015: La questione morale ha cambiato
taglia. Ma non è la mappa della corruzione nella Pubblica amministrazione,
con le sue percentuali di illeciti che sembrano aver impressionato il ministro
della Giustizia Orlando (…) a fare la differenza. Per la semplice ragione che
si tratta di illeciti. Cioè di violazioni della legge. Almeno dai tempi di
Tacito è ben noto che la peggiore corruzione è quella a norma di legge, (…).
Ma
ancora peggiore è la corruzione della legge stessa. Qui per illustrare il
fenomeno vien buona un’altra immagine di sartoria. Secondo una famosa ricetta
cinica di Giolitti, “un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo deve fare
la gobba anche all’abito”. La corruzione delle leggi è appunto questo: una
legge non serve a prevenire, impedire o raddrizzare una deformità, ma ad
adattarcisi al meglio. Se proprio serve un esempio, oltre alla reiterata
depenalizzazione del falso in bilancio, che non ha invece impensierito il
ministro, può valere l’ormai ben noto 19-bis del Decreto-legge sulla delega
fiscale. La cosa più sorprendente di questo vestito tagliato a misura di gobba
è che il clamore che ha finito per suscitare si sia limitato nella maggior
parte dei casi a censurare il carattere ad personam di questo mostriciattolo
partorito probabilmente da un accordo sordido: come se il suo effetto
riabilitante nei confronti di un noto pregiudicato ne esaurisse la mostruosità.
Come se non ci fossero due altri aspetti mostruosi. Il
primo è l’atto con cui l’articolo è improvvisamente comparso nel testo di un
decreto del Consiglio dei ministri. Questo, stando alle autorevoli dichiarazioni
di due costituzionalisti, è semplicemente un falso in atto pubblico. Per il Prof.
Sorrentino si tratta di un reato commesso nell’esercizio delle funzioni del
ministro o del presidente del Consiglio… un fatto di una gravità straordinaria,
passato sotto silenzio (…). Per il Prof. Pace chi se ne è assunto la
responsabilità ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione
individuale assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata
con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti (…).
E il contenuto di questa volizione? Ecco, dall’intervista di F. Forquet al
ministro Padoan (Sole 24 Ore 17/01/2015). Domanda: Quella franchigia del 3%
sarà riproposta? Risposta: Bisogna ragionare su un sistema di percentuali e di
margini, dall’intreccio di questi due parametri può uscire un sistema equo. Traduzione:
dall’intreccio di una frode che non viene più trattata come frode e di una
legge che calcola gli sconti per le frodi invece di sanzionarle, può uscire un
sistema equo. Domanda: Ma qual è la sua versione sulla famosa manina che ha
introdotto la norma del 3%? Risposta: …è il metodo di lavoro abituale di questo
governo: l’interazione tra ministeri e presidenza e quindi il Consiglio. Cioè:
un falso in atto pubblico come lo chiama, un ministro della Repubblica? Un
metodo di lavoro! Ecco: per capire la gravità di questi due
aspetti, l’atto e il suo contenuto, occorre allargare la visuale al più vasto
fenomeno cui il colpaccio che si sperava passasse inosservato appartiene. È un
fenomeno di proporzioni apocalittiche, la cui profondità e vastità ci impedisce
forse di prenderne veramente coscienza: perché ci nuotiamo dentro, come pesci
nell’acqua. Questo fenomeno è l’appiattimento del dover essere sull’essere, del
valore sul fatto, della norma sulla pratica comune anche se abnorme, e in definitiva
del diritto sulla forza. Tutto quel che è reale è razionale, dice il filosofo
che dà ragione alla forza, purché vinca. Tutto quello che è reale è normale,
dice il cinismo che ha permeato il linguaggio popolare. Al
fondo, è la dissoluzione dei vincoli di senso, i vincoli all’interno dei quali
soltanto le parole umane dicono qualcosa di definito, i comportamenti umani
hanno un significato e un valore definito. Sciogliete una lingua dalle sue
norme logiche e nessuno potrà più affermare o negare nulla. Si dirà insieme
tutto e il contrario di tutto. Sciogliete i comportamenti umani dai vincoli pur
minimi dell’etica, da quelle norme implicite che sono i mores o da quelle
ponderate che sono le leggi, e non potrete più valutare se la mano che vi si
tende offre morte o amicizia. Leggiamola a questa profondità, la piccola
porcheria del 19-bis. Ci consente di farlo il comportamento degli individui che
con atti, parole e omissioni contribuiscono, come tutti ormai facciamo senza
accorgercene neppure più, ad appiattire la norma sul fatto e il diritto sul
potere. Perché l’erosione dell’idealità non avviene da sola, e neppure da soli
i vestiti si attagliano alle gobbe, ci vuole chi dispone, chi scrive, chi tace,
chi usa le leggi corrotte. E cosa c’è di terribile in questo? Quasi niente: l’auto-destituzione
del soggetto morale in noi, vale a dire la semplice impossibilità di dissentire
anche nel foro interiore da ciò che non è come dovrebbe essere, perché la
distinzione non c’è più: la realtà ha vinto completamente, ovunque. Chi si
ribella a uno Stato totalitario, come fecero i coniugi Solgenitsin quando
decisero di non mentire più qualunque conseguenza potesse seguirne, ha una
chance di uscire libero dalla sofferta prigionia della mente. Nel caso
totalitario resta la potenziale coscienza della libertà perduta: la
costrizione, il dolore di subirla, la vergogna di piegarsi… mentre lo Stato
impunitario è una distruzione irreversibile di risorse di senso. Chi ha sciolto
il suo pensiero dal vincolo della legge ha destituito in se stesso per sempre l’autonomia,
la libertà di resistere all’arbitrio, dentro e fuori di sé. Il parricidio della
civiltà, come predisse Socrate, è vicino. E questo è il vero ultimo senso della
parola corruzione: dissoluzione e morte di un intero vivente. Ecco perché la
questione morale ha cambiato taglia.
sabato 20 gennaio 2018
Storiedallitalia. 81 “La profezia di Zagrebelsky”.
In “La profezia di Zagrebelsky: Berlusconi farà la fine di Craxi”, che all’epoca fu una intervista di Silvia Truzzi
al professor Gustavo Zagrebelsky - pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 20
di gennaio dell’anno 2011 - una parte almeno di essa non si è verificata,
ovvero quella “fine” da latitante alla quale l’uomo venuto da Arcore sembrava
essere destinato. A differenza del latitante di Hammamet l’uomo, superate le
bufere etico-politiche che lo hanno interessato, si ripresenta nell’avanspettacolo
della politica de’ noantri come l’uomo della provvidenza e di una prospettiva (inesistente)
nuova per la mefitica aria politica che si respira. È mai possibile che una
tale aberrazione abbia a compiersi? È che dopo ben sette anni da quella intervista
le cose “politiche” si sono così contorte da mettere in conto un “ritorno” che
il buon senso escludeva sino all’altro giorno – politicamente parlando -. È che
la mitridatizzazione operata nel suo nero, infausto ventennio ha reso il paese –
con la “p” al minuscolo – insensibile a qualsivoglia richiamo al buon senso,
all’etica della politica e dei comportamenti sociali e personali. Un veleno
quel ventennio che continua ad agire nell’indifferenza dei tanti se non dei
più. E questo inestricabile groviglio di mal di vivere e di quant’altro fa sì
che quella profezia dell’illustre pensatore non si sia e non si possa
verificare. Soccorre per la sostenibilità di quanto scritto una cronaca di
questi giorni, aggiornati a sette anni dopo quella intervista, cronaca magistrale
ed emblematica del male profondo che affligge il paese per la penna di Curzio
Maltese pubblicata sul settimanale "il Venerdì di Repubblica" del 5
di gennaio u.s. che ha per titolo "Nel
paese dei corrotti guai agli onesti": (…). La più chiara e profonda
analisi dello scandalo di oggi è stata già fatta nel 1980 da Italo Calvino nel
famoso e sempre rimosso Apologo sull'onestà nel Paese dei corrotti. "C'era
un Paese che si reggeva sull'illecito" era l'incipit del racconto di una
nazione dove gli scandali, il malcostume, le ruberie, l'abuso di potere non
erano soltanto fenomeni diffusi - come altrove - ma a differenza che nel resto
del mondo civile non comportavano alcuna sanzione sociale. La corruzione era ed
è da noi considerata funzionale alla società, ragionevole, lecita e quasi
benemerita. In ogni caso è giustificata dal diritto di non soccombere in un
mondo di ladri. La difesa dei molti tifosi dei ladroni è la stessa: gli altri
fanno peggio. A volte è vero. La legge o la morale sono applicate in maniera
tanto casuale, che quando accade, fra la sorpresa generale, gli occasionali
imputati possono facilmente gridare al complotto. Ma come, perché indagano ora?
Perché mi devo dimettere proprio io? In quell'Italia così simile alla nostra,
Calvino non invitava alla rivolta, ma avanzava la modesta proposta di lasciar
comunque campare in pace gli unici soggetti a disagio: gli onesti. Senza la
pretesa di ergersi a società o reclamare la propria superiorità - ci
mancherebbe - almeno agli onesti fosse concesso di sopravvivere come
controsocietà anomala. Ed ecco la differenza, l'impossibilità oggi di essere
onesti. Il corpo della nazione è così malato che gli anticorpi attaccano le
parti sane. Gli onesti sono emarginati, perseguitati, derisi come imbecilli. A
marzo tornerà al potere un ottuagenerio pluricondannato che, fra l'altro, ha
fatto votare al Parlamento della Repubblica che Ruby Rubacuori era la nipote di
Mubarak, con ministri tra quelli che
avevano votato, i Gasparri, le Meloni, i leghisti. Sono appena stati al governo
quelli che, col padre o i sodali implicati, facevano il giro delle sette chiese
per farne salvare la banca. Ma non erano pressioni, certo. Pensate come sarebbe
stata diversa la storia se Nixon se la fosse cavata dicendo di aver "fatto
valutare" ma senza pressioni l'intercettazione dei democratici, se i
tedeschi avessero finto di credere a un Helmut Kohl sbalordito di avere a sua
insaputa conti in Svizzera. Agli onesti rimane di fingersi fessi o pazzi,
emigrare se giovani e se anziani, togliersi di mezzo. Come quel Luigino
pensionato che ha perso i risparmi di una vita nel crac di Etruria e si è
impiccato dopo aver scritto una lettera di scuse alla famiglia. Perché qui,
dopo gli scandali, sono gli onesti a suicidarsi per la vergogna. È increscioso
doverlo sottolineare - stante la stima che avvolge la Sua persona ed il Suo
pensiero -, ma ha di fatto sbagliato il professor Zagrebelsky nella Sua “profezia”,
poiché, se pur avvezzo alla (mala)vita politica del paese, non avrebbe mai e
poi mai ipotizzato che un simile raggiunto degrado delle sensibilità collettive
consentisse un “ritorno” indecoroso non tanto per l’uomo di Arcore – che in
verità ha agito per spianarne la strada – quanto per il paese tutto immerso
nella più terribile delle sue crisi politico-istituzionali. Chiedeva Silva
Truzzi al professor Zagrebelsky quel 20 di gennaio dell’anno 2011, mancando ancora
l’avvio di quell’azione della comunità europea che dieci mesi dopo avrebbe
decretato il “licenziamento” dell’egoarca di Arcore:
giovedì 18 gennaio 2018
Quodlibet. 50 “Attuare la Carta per combattere l’esclusione”.
Da “Sinistra:
ripartire dalla Carta per combattere l’esclusione” di Nadia Urbinati,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di gennaio dell’anno 2017: Quel
che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’
elettorato da conquistare, ma anche dei suoi simpatizzanti, che spesso (come è
successo negli Stati Uniti, ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel
nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati,
nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato
del referendum del 4 dicembre scorso (dell’anno 2016 n.d.r.) parla
anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto
fondativo, che a coloro che lo applicano. E hanno anche fatto capire che in un
tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore
certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in
filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa
che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria
alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad
oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia
referendaria. Cominciamo da mille giorni fa. Matteo Renzi ha esordito come
presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio,
“Destra e sinistra”, (…). Erano due i paradigmi centrali che facevano da
architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a
trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio
aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione
della coppia destra/sinistra. Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono
più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su
premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a
un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è
subentrata la complessità e quelle due grandi idee quelle che danno identità
alla nostra, come a tutte le costituzioni democratiche, non servono ad
orientarci né nel giudizio politico, né nelle scelte. Finita la diade
libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti
sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci
sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi
l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere
lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la
quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “selfmade
man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche
redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro. (…). Renzi (…) ha sostenuto
che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie:
esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la
vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati»
(solo farli sentire o farli essere?).
mercoledì 17 gennaio 2018
Lalinguabatte. 46 “Del finto e del fasullo”.
Ho avuto modo di conoscere,
letterariamente parlando, il professor Raffaele Simone, linguista, leggendo il
Suo straordinario lavoro che ha per titolo “Il
mostro mite” – Garzanti (2008) pagg. 170 € 12,00 -. E come mia abitudine,
nel corso della lettura, avevo preso nota di un passo molto interessante di
quel lavoro, alla pagina 113, che trascrivo: “(…). …si è indebolita la
capacità di tener distinte realtà e finzione, uno dei pilastri della
razionalità occidentale. La finzione si distingue in due livelli di natura
diversa: il finto e il fasullo. Verso il primo abbiamo di solito un
atteggiamento positivo, che può essere anche di desiderio e di ricerca: benché
le narrazioni fantastiche (letteratura, cinema, sogno) siano finzioni,
nondimeno ne abbiamo bisogno. In esse si appaga qualcosa che è connaturato alla
mente umana in modo complicato. Verso il fasullo, invece, abbiamo un
atteggiamento di diffidenza e sospetto: le cose fasulle rientrano nella sfera
della contraffazione, dell’inganno, della sostituzione abusiva, sono connesse
alla truffa e all’impostura. (…). Il finto si associa all’invenzione, al trucco
e anche al divertimento; il fasullo alla bugia e all’inganno. (…).”. Dotta
e sottile l’argomentazione dell’illustre Autore. Ci riconduce, essa, alla
condizione esistenziale vissuta da un buon quarto di secolo - imperante prima l’uomo
di Arcore, poi l’uomo venuto da tal Rignano sull’Arno - nel bel paese, nel
quale quarto di secolo si sono perse le giuste coordinate per una distinzione
chiara e pronta tra la realtà del vivere e la sua rappresentazione più becera e
malvagia al contempo, per cui si registra un navigare senza senso che
immancabilmente ha portato larghissimi strati sociali ad essere vittime,
inconsapevoli per tanti versi, del “fasullo” più sfrontato che si possa
immaginare. È che sembra siano venuti meno quegli atteggiamenti “di
diffidenza e sospetto” che in verità avevano fatto da sempre parte del
connaturato storico ed antropologico degli abitatori del bel paese. Come sia stato
possibile è l’arcano del tempo che ci è dato di vivere? Quale magia, o meglio
quale malìa, ha potuto ottenebrare menti e coscienze in larghissimi strati
sociali da condurre alle condizioni di smarrimento oggigiorno vissuto? Ho
ritrovato il professor Raffaele Simone su di una pagina del 3 di marzo dell’anno
2011 amorevolmente conservata del quotidiano “la Repubblica” in un’intervista
rilasciata a Franco Marcoaldi che ha per titolo “Le buone azioni dello scettico”. Di seguito la trascrivo in parte:
martedì 16 gennaio 2018
Quodlibet. 49 “Com'è povero il mondo chiuso in un telefonino”.
Da “Com'è
povero il mondo chiuso in un telefonino” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del 16 di gennaio dell’anno 2016: Siamo "malati" di
social network? No: è quel modo di comunicare la vera malattia. (…). …malata è
la forma che ha assunto la comunicazione di massa, dove chi riceve un messaggio
finisce per leggere le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente
scrivere, e chi scrive narra le stesse cose che potrebbe leggere inviate da
chiunque. Il risultato è una sorta di "comunicazione tautologica"
che, paradossalmente, finisce per abolire la necessità e, al limite, l'utilità
della comunicazione. Tuttavia non vi si rinuncia perché, (…), lo scopo di
questo tipo di comunicazione è "il desiderio di costruzione di un nuovo io
e la ricerca di approvazione". Due cose che denunciano da un lato la non
accettazione di sé, e dall'altro quella forma d'insicurezza che affida
all'approvazione degli altri il riconoscimento di chi si vorrebbe essere e non
si è. La non accettazione di sé incomincia dal corpo che, dall'adolescenza fino
alla vecchiaia, si chiede alla chirurgia estetica di poter modificare, per poi
estendersi all'immagine di sé, offrendo sui social network una descrizione che
non risponde a quel che si è, ma a quel che si presume possa essere approvato
dagli altri. Così ci si mette in mostra come i prodotti si mettono in vetrina.
E senza accorgercene diventiamo una "mostra" che chiunque può
visitare. E poi approvare o disapprovare, non argomentando - non si può con 140
caratteri - ma scrivendo semplicemente "mi piace" o "non mi
piace". Argomentare è difficile, perché per farlo occorre saper pensare e
parlare. Stante il livello culturale delle nostre scuole, tale che l'Ocse
colloca gli italiani all'ultimo posto in Europa per la comprensione di un testo
scritto, ci esprimiamo con il linguaggio atrofico e impoverito proprio dei
telefonini. Prova che le invenzioni tecniche non sono mai solamente
"tecniche", perché ogni tecnica comporta una modalità d'uso che
plasma chi la usa, indipendentemente dall'uso che ne fa. I messaggi diffusi nei
social hanno una vita breve che si consuma, come tutte le cose in una società
dei consumi spinta all'eccesso, per cui il tempo della riflessione e del
pensiero si estingue in quel tempo breve della risposta emotiva non pensata e
non riflessa. Se poi vogliamo considerare i danni fisici, che potrebbero
preoccupare anche chi non è interessato al pensiero, mi diceva un primario di
oculistica che i giovani d'oggi non sanno più vedere a distanza, e la preside
di un liceo artistico mi riferiva che i suoi alunni non riescono più a
percepire la prospettiva. È un mondo accorciato, un mondo ridotto a quella
breve distanza che separa il mio occhio dal telefonino, che mi fa vedere non il
mondo reale ma il mondo in immagine, non di rado manipolato dagli operatori di
mercato che riescono a intercettare anche i nostri gusti, per vendere gli
oggetti che li soddisfano. Ma si può prescindere da questi mezzi di
comunicazione oggi diffusi su vasta scala? No. Perché, siccome il mondo della
comunicazione passa attraverso questa rete, uscirne equivale a un'esclusione
sociale. E nessuno vuole provare l'angoscia e la solitudine di questa
esclusione.
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