"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 31 gennaio 2018

Primapagina. 66 “Costituzione tradita”.



Da “Costituzione tradita: più poveri, più delitti e impunità per tutti”, tratto dall'intervento del Pg di Palermo Roberto Scarpinato all’apertura dell’Anno giudiziario e riportato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di gennaio 2018: (…). Il 15 gennaio 2016 sono stati emanati i decreti legislativi n.7 e n.8 che hanno abrogato e depenalizzato una quota indicativa di reati. Se si tiene conto che le predette depenalizzazioni nel loro sommarsi hanno diminuito le iscrizioni di nuovi reati nei registri delle procure in percentuali complessivamente variabili dal 20% al 30%, appare tanto più significativa la circostanza, che non nonostante siffatte politiche criminali deflattivi, i dati statistici attestino tuttavia una crescita percentuale delle iscrizioni di reati pari a circa il 10%. Ciò vuol dire che l’area dell’illegalità registra una crescita tale da neutralizzare l’efficacia delle politiche criminali deflattive, tuttavia indispensabili perché in assenza di tali interventi deflattivi il tasso di crescita dei reati in alcune zone del territorio raggiungerebbe il 40% ed il 70%, con relativo incremento del numero dei procedimenti da gestire. Per apprezzare pienamente la crescita dell’aria dell’illegalità, occorre considerare un secondo fattore. Gli indici statistici della Procura della Repubblica prendono in considerazione solo i reati segnalati dai cittadini a seguito di denunce e querele e i reati autonomamente accertati delle Forze di Polizia e dalla magistratura. Resta fuori dal computo la cifra oscura dei reati consumati e tuttavia non denunciati o non accertati (…). Alcune cause si radicano certamente nelle condizioni di progressivo degrado sociale ed economico in cui versano ampi strati della popolazione soprattutto un una regione quale la Sicilia, divenuta secondo gli indici Istat la regione più povera del paese con il 54,4% della popolazione a rischio di povertà e con il più alto indice di disuguaglianza economica tra i suoi abitanti a livello nazionale europeo. (…). Sussiste una connessione profonda tra questione criminale e questione sociale che diviene di anno in anno sempre più ineludibile. (…). Non ci può essere sicurezza, equilibrio sociale e crescita della cultura della legalità laddove non ci sono politiche di inclusione sociale, se non si riduce drasticamente la percentuale di persone che svolgono un lavoro instabile, che confinate in periferie degradate si arrangiano come possono, che violano la legge per andare avanti, senza che la legalità o fra loro concrete possibilità di sopravvivenza e di ascesa sociale senza passare dal crimine. (…). Per altro verso per non superare il limite di capienza massima a causa dell’aumento costante della popolazione carceraria si ampliano i presupposti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, senza tuttavia investire le risorse necessarie per garantire la risocializzazione dei condannati (…) estromessi dal circuito carcerario. (…). Da qui anche una delle cause del costante incremento statistico (+23%) dei reati di spaccio di stupefacenti posti in essere in molti casi da spacciatori agli arresti domiciliari e di fatto fuori controllo. Alla prova dei fatti, è forte il dubbio che lo sfollamento delle carceri e la sostituzione delle pene detentive o misure alternative - se realizzati senza adeguati investimenti economici per la successiva risocializzazione - possano tradursi in buona parte in un riaffollamento delle vie delle città di condannati per nulla rieducati, per nulla reinseriti socialmente, e nella sostanza riconsegnati a un destino di emarginazione sociale di precarietà esistenziale, anticamera del loro pendolare ritorno al crimine anche come forma di sussistenza. (…). Nel distretto di Palermo si registra un incremento del 97% dei procedimenti per reati di corruzione, del 77% per reati di concussione, del 27% per i reati di malversazione a danno dello Stato e di indebita percezione dei contributi. (…). Il numero dei soggetti coinvolti, i ruoli apicali o strategici da tanti di essi ricoperti all’interno di ministeri nazionali, di vari assessorati della Regione siciliana, della più diversa tipologia di uffici ed enti pubblici - dalle Comuni alle Asl, dal Genio Civile alla Inail e via elencando, la serialità delle condotte criminose, la vastità delle reti di relazioni e di complicità, la rilevantissima entità economica dei danni causati dalle condotte criminose al pubblico erario e alla collettività, ricompongono - tessera dopo tessera - il quando di un collasso etico e di una deriva criminale di segmenti significativi della classe dirigente. La crescita costante anno dopo anno di tale fenomenologia criminale, in larga misura sommersa, (nell’ultimo triennio l’andamento di crescita a Palermo è stata del 23%) attesta che anche in questo settore la giustizia penale non riesce ad assolvere la funzione generalpreventiva di disincentivare la consumazione dei reati mediante la minaccia dell’irrogazione delle sanzioni e la loro successiva comminazione. Il deficit degli effetti della risposta penale in tale specifico settore appare il risultato di politiche legislative stratificate nel tempo che hanno depresso in vari modi il rischio ed il costo penale derivanti dalla consumazione di tali reati, alimentando così la crescita di una cultura impunitaria che a sua volta ha operato da propellente per la crescita del fenomeno. (…). In un paese come l’Italia, caratterizzato da un livello di corruzione tra i più elevati al mondo, il numero di persone detenute in espiazione pena definitiva per i reati più gravi contro la P.A. è statisticamente talmente irrisorio da non essere neppure quotato. I pochi condannati con sentenza definitiva, quelli nei cui confronti si è resto possibile definire i tre gradi del giudizio prima che intervenisse la prescrizione dei reati, sono pressoché tutti ammessi ad usufruire di misure alternative alla detenzione che dovrebbero risocializzare e rieducare alla legalità mediante l’istruzione ed il lavoro, colletti bianchi altamente scolarizzati, di reddito elevato e già professionalmente realizzati.

martedì 30 gennaio 2018

Lalinguabatte. 47 “L'abolizione dell'opinione pubblica e l'efficacia persuasiva della televisione”.



Ha scritto Michele Prospero in “Il Comico della politica” - edito da Ediesse (2010), pagg. 280 € 15,00 -: “Prima che il grande capitalista si impossessi dello spazio del potere come un patrimonio privato, c’è bisogno del comico che decapiti i valori della politica riducendola a chiacchiera meritevole di sberleffo. In un discorso che mira alla delectatio, le scelte lessicali si orientano verso un piglio colloquiale, popolare o periferico, certamente poco aureo e privo di sintassi complessa, di un periodare articolato e ricco di subordinate. Senza una sostenutezza formale apprezzabile, il linguaggio di Berlusconi assimila molto gli inconfondibili tratti morfo-sintattici espressi come tipici prodotti del neo standard parlato nell’età della televisione”. Un quadro – o una sua rappresentazione – tratteggiato in un tempo che sembra essere remoto ma che ben si attaglia alla condizione nella quale questo disastrato paese si appresta a celebrare il sempiterno rito delle “elezioni”. E come di rincalzo in quel tempo andato Michela Marzano scriveva nella Sua dotta riflessione - “Viaggio ai confini del reality” - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di marzo dell’anno del signore 2010: “(…). La nuova autorità è oggi la televisione? Fino a dove si è disposti ad andare pur di essere visti da milioni di telespettatori e vivere un quarto d’ora di celebrità, come diceva Andy Warhol? Negli ultimi anni, i reality show si sono moltiplicati. Dal Grande Fratello a X-Factor, da La Fattoria a L’isola dei famosi, progressivamente, la televisione ha eliminato le barriere tra realtà e finzione, vita pubblica e vita privata. Per attirare l’audience, si è lentamente insinuata nella vita degli spettatori fino a colonizzarne le emozioni, come spiega il filosofo Bernard Stiegler.

lunedì 29 gennaio 2018

Primapagina. 65 “L'Italia ha regalato 3 miliardi alla Deutsche Bank”.



Dal dossier “Così l'Italia ha regalato 3 miliardi alla tedesca Deutsche Bank” di Paolo Biondani e Luca Piana, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 21 di gennaio 2018: In questi anni segnati dalla crisi lo Stato italiano ha perso una cifra superiore a tre miliardi di euro in una serie di scommesse finanziarie ad altissimo rischio effettuate con Deutsche Bank. È la conclusione che si può trarre dall’esame di una serie di contratti finanziari con caratteristiche molto particolari, chiamati in gergo derivati, stipulati fra i nostri governi e il colosso bancario tedesco a partire dal maggio 2004. Accordi riservatissimi, più volte modificati almeno fino al 2015 e tuttora in vigore, ma finora mai pubblicati. Fanno parte di quel complesso di contratti derivati che da anni sono al centro di aspre polemiche proprio per l’entità delle perdite subite dall’Italia. E per la segretezza che li circonda. Di recente due dirigenti del ministero dell’Economia e due ex ministri, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, che respingono ogni accusa, si sono visti addebitare dalla procura della Corte dei Conti di aver causato danni miliardari alle casse pubbliche attraverso alcuni derivati siglati a suo tempo con un’altra grande banca, l’americana Morgan Stanley, che all’inizio del 2012 passò all’incasso facendosi versare dall’Italia ben 3,1 miliardi di euro. Tranne questa eccezione, tutti gli altri contratti sono rimasti top secret. Nonostante le richieste di trasparenza arrivate anche dal parlamento, che vi ha dedicato in tempi recenti un’indagine conoscitiva, nessun governo ha infatti mai rivelato i nomi delle altre banche interessate e i contenuti dei contratti, trincerandosi dietro necessità di riservatezza. (…). Contratti che, secondo gli esperti interpellati, rischiano di costare all’Italia più di tre miliardi di euro: la stessa somma che nel caso di Morgan Stanley fece gridare allo scandalo. Si tratta senza dubbio di numeri pesanti. Basti pensare che, per l’intero piano nazionale di ristrutturazione e messa in sicurezza delle scuole pubbliche, il governo italiano ha stanziato per il prossimo triennio circa 1,7 miliardi. I derivati sono contratti complicatissimi che, se ben fatti, funzionano come una polizza di assicurazione. Il Tesoro ha sempre sostenuto di averli sottoscritti proprio per coprire l’Italia dai rischi finanziari. Il nostro Paese, che ha un enorme debito pubblico, corre pericoli gravissimi in caso di rialzo dei tassi d’interesse: quando crescono troppo, siamo rovinati. Di qui l’idea di assicurare le casse pubbliche con i derivati. Se i tassi superano un livello da allarme rosso, ad esempio il 5 per cento e rotti (come era previsto nel primo contratto del 2004 con Deutsche Bank,…), la differenza deve sborsarla la banca. Se invece gli interessi calano o crollano, lo Stato deve pagare comunque il 5 per cento e a guadagnarci è la banca. Qui c’è il primo punto delicato: questo tipo di contratto derivato (chiamato “swap”, cioè scambio di tassi d’interesse: lo Stato paga un fisso e riceve un variabile) a detta di molti esperti assomiglia più a una scommessa che a una polizza assicurativa. Quando assicuriamo la nostra automobile, ad esempio, paghiamo un prezzo determinato e certo fin dall’inizio: in cambio, è la compagnia che si accolla il rischio di dover pagare il conto in caso di incidenti. Con questi “swap”, invece, il costo è incerto e il rischio resta distribuito tra le due parti: se i tassi vanno nella direzione opposta rispetto a quella su cui si è puntato, le perdite possono arrivare a cifre astronomiche. Quindi i derivati in questione assomigliano più a una scommessa finanziaria su come si muoveranno i tassi futuri. Una scommessa che, nel caso di Deutsche Bank, si è rivelata disastrosa per lo Stato italiano. (…), in particolare, (per) le caratteristiche dei derivati stipulati con l’istituto tedesco dal 2004 fino al 2015. Si tratta, per la precisione, dello swap originario e di sei contratti di ristrutturazione, che via via modificano gli accordi iniziali, fino a stravolgerli.

sabato 27 gennaio 2018

Primapagina. 64 “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari”.



“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare”. Bertolt Brecht

Da "La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme" di Hannah Arendt: (…). ...tutti avrebbero visto che il processo di Gerusalemme era giusto se i giudici avessero avuto il coraggio di rivolgersi all'imputato più o meno come segue: "Tu hai ammesso che il crimine commesso contro il popolo ebraico nell'ultima guerra è stato il più grande crimine della storia, ed hai ammesso di avervi partecipato. Ma tu hai detto di non aver mai agito per bassi motivi, di non aver mai avuto tendenze omicide, di non aver mai odiato gli ebrei, e tuttavia hai sostenuto che non potevi agire altrimenti e che non ti senti colpevole. A nostro avviso è difficile, anche se non del tutto impossibile, credere alle tue parole; in questo campo di motivi e di coscienza vi sono contro di te alcuni elementi, anche se non molti, che possono essere provati al di la di ogni ragionevole dubbio.

venerdì 26 gennaio 2018

Quodlibet. 54 “Come si può ancora credere a Silvio Berlusconi?”.



Per dire della “primitività” della politica nel nostro paese. Che non avanza da quella “primitività” non avendo una strada da seguire, un progetto, un’idea di paese da ri-costruire sulle macerie del ventennio – ed anni seguenti - dell’egoarca di Arcore. E quindi, ri-eccolo! Attorniato dai manutengoli di sempre. È la fissità della politica del paese. Un vuoto, che neanche la natura, che ha orrore del vuoto come suol dirsi, può o potrà mai riempire. Da “Gli adepti di Media-setta” di Gabriele Romagnoli, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 26 di gennaio dell’anno 2011: Come è possibile essere ancora berlusconiani? Non dico di (centro) destra, conservatori, anticomunisti, liberalpapisti o qualunque altra definizione ci si voglia dare per stare da quella parte politica. La domanda è: come si può ancora credere (di credere) a Silvio Berlusconi? Alla legittimità dei suoi comportamenti, al fondamento meritocratico delle sue nomine, alla soglia minima di logica delle sue giustificazioni e perfino all´opportunità delle sue “cosiddette” espressioni verbali? Si dirà: per tornaconto personale.

giovedì 25 gennaio 2018

Quodlibet. 53 “Piroette cardinalizie e la difesa del bene comune”.



Da “La difesa del bene comune” di Vito Mancuso – teologo cattolico -, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 25 di gennaio dell’anno 2011: Nel discorso di ieri, atteso dall´Italia con un interesse forse mai avuto prima per le parole di un Presidente della Cei, il cardinal Bagnasco ha disposto le artiglierie, ha caricato i proiettili, ha puntato nella direzione giusta. E ha iniziato a colpire con parole infuocate come non era mai accaduto prima i comportamenti del capo del governo (l’uomo di Arcore n.d.r.), (…). Quando però è stato il momento di compiere la missione fino alla fine, il cardinale ha rivolto le sue armi altrove. Il risultato, quest´oggi, è che tutti possono dire che sono contenti, persino i sostenitori del governo, per una situazione analoga a quella del dopo-elezioni quando nessuno dice di avere perso. La gerarchia cattolica aveva l´occasione di aiutare gli italiani a fare chiarezza per uscire da una situazione che li rende ridicoli al mondo e peggio ancora a se stessi, ma non è stata capace di portarla avanti fino in fondo, immolandola sull´altare della diplomazia. Bagnasco ha esordito parlando di “nubi preoccupanti che si addensano sul nostro paese”, ha continuato con la “perversione di fondo del concetto di ethos”, ha detto che “a vacillare sono i fondamenti stessi di una civiltà”, ha proseguito con il “consumismo” e la “cultura della seduzione” da cui scaturiscono una “rappresentazione fasulla dell´esistenza, volta a perseguire un successo basato sull´artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l´ostentazione e il mercimonio di sé” con il risultato di un “disastro antropologico”. Quando poi è giunto a toccare la più stretta attualità ha parlato di “debolezza etica” e di “fibrillazione politica e istituzionale”, ha ricordato che “si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza”, e infine ha ricordato l´art. 54 della Costituzione che sottolinea il dovere per chi governa di misura, sobrietà, disciplina e onore. Insomma un´analisi limpida e forte, a tratti severa, come si conviene al momento drammatico del paese. Ma alla fine è mancato il coraggio di andare fino in fondo nel combattere i mali evocati, ha vinto la diplomazia e ha perso la profezia. Infatti dopo tutte queste analisi all´insegna della chiarezza evangelica, il cardinale ha girato le artigliere dall´altra parte puntandole verso i magistrati milanesi e ha proclamato in perfetto stile curiale, e non senza una sottile sfumatura di ambiguità per l´uso del pronome indefinito: “…mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l´ingente mole di strumenti di indagine”, col risultato, per Bagnasco, che così si passa “da una situazione abnorme all´altra”. Ovvero: il capo del governo ha torto, ma i magistrati non hanno ragione, esagerano.

mercoledì 24 gennaio 2018

Quodlibet. 52 “Disonesti che, in fondo, si sentono onesti”.



Da “Siamo un po’ tutti disonesti che, in fondo, si sentono onesti” di Malcom Pagani, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 24 di gennaio dell’anno 2017: Salvo Ficarra e Valentino Picone – F e P per il lettore – dicono che non se l’aspettavano e smistano complimenti. (…).
Gli spettatori si felicitano? F: Non solo su Facebook, anche su altri siti. Tra i commenti entusiasti ce n’è uno che ci ha colpito. Uno spettatore sostiene che L’ora legale faccia riflettere, che è un soffio di vento contro la disonestà e che dopo averlo visto ha finalmente compreso l’esigenza di pagare le tasse per ottenere i servizi.

martedì 23 gennaio 2018

Primapagina. 63 “Cesa&politica”.



Da “La Quarta Gamba(dilegno)” di Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 23 di gennaio 2018: (…). Lorenzo Cesa, ex Dc, ex Ccd, ex Udc, ora leader di “Noi con l’Italia” detta anche “quarta gamba del centrodestra”. L’appello è il “Manifesto per una politica trasparente” lanciato dall’Espresso e firmato dai leader di tutti i partiti, esclusa ovviamente Forza Italia, per chiedere candidati di specchiate “qualità personali e morali” e di provata “trasparenza, legalità, indipendenza e moralità pubblica”, ben oltre il requisito minimo di incensuratezza. E Cesa ci sta, “senza se e senza ma”. Chissà se è lo stesso Cesa che l’8 marzo 1993, consigliere comunale a Roma e portaborse del ministro dei Lavori pubblici Gianni Prandini (per gli amici “Prendini”), fu arrestato dopo un paio di giorni di latitanza per corruzione aggravata nell’inchiesta della Procura capitolina sulle tangenti Anas. Appena giunto a Rebibbia, il Cesa scoprì che anche il pool di Milano lo cercava per un altro miliardo e mezzo di lire di mazzette. Così confessò in tre memorabili interrogatori la sua promettente carriera di tangentaro. Poi gli tornarono alla mente altri episodi che gli inquirenti non avevano ancora scoperto e richiamò il gip per metterli a verbale, con un linguaggio degno più di Pietro Gambadilegno che di un uomo politico. Testuale: “Intendo puntualizzare alcuni episodi che non ho riferito al pm. Episodi analoghi a quelli che mi sono stati contestati e che non ho riferito perché, per comprensibili ragioni, ero stordito e frastornato. Oggi mi sento più sereno e intendo svuotare il sacco…”. Un sacco bello pieno, dopo anni trascorsi in Federlazio, in commissione urbanistica del Comune e in Anas. La prima mazzetta non si scorda mai, infatti Cesa ha una memoria di ferro, specie sulla forma e sul colore delle buste (meno, sul contenuto): “Intendo partire dal primo episodio che ricordo: un mio paesano di Arcinazzo, dipendente della società Gico dell’ingegnere Ugo Cozzani, mi disse che l’ingegnere voleva parlarmi… Ci si incontrò dopo una ventina di giorni… si trattava di fare una strada che doveva collegare la strada che stava costruendo con il nuovo stabilimento Fiat in Basilicata… mi sollecitò la definizione della pratica all’Anas… Ebbi modo d’incontrarmi con il ministro Prandini al quale segnalai la pratica… e mi sentii rispondere che dovevo chiedere al Cozzani il 5 per cento dell’importo dell’appalto”.

lunedì 22 gennaio 2018

Primapagina. 62 “Hanno distrutto i nostri valori”.



Da “Hanno distrutto i nostri valori” di Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di ottobre dell’anno 2017: (…). L’Italia così com’è (segnata dalla massima crescita europea della diseguaglianza, Regno Unito escluso) è un prodotto del Pd, che – insieme ai partiti di cui è erede, nella formula del centrosinistra – ha governato più a lungo di Berlusconi. Lo smontaggio dello Stato, la distruzione del pubblico e la negazione sistematica di pressoché tutti i principi fondamentali della Costituzione sono da imputare al Pd almeno quanto a Forza Italia. Arrivati a Renzi, il problema non è stato il “personalismo” (pure odiosamente pervasivo): ma la definitiva distruzione dei diritti dei lavoratori (Jobs act), la spallata finale alla scuola pubblica (la Buona scuola), la mazzata inflitta all’ambiente (lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi), la mercificazione completa del patrimonio culturale e la fine della tutela (la “riforma” Franceschini) e via elencando. Con Minniti, poi, siamo arrivati all’eradicazione dell’articolo 10 dalla Costituzione e a una politica securitaria per la quale i militanti di Fratelli d’Italia e Lega si spellano le mani. Un partito che blocca lo Ius soli mentre approva un maxi-condono per l’abusivismo edilizio: è questo il Pd. (…). Votare Pd per fermare la destra vuol dire ripetere l’errore di chi era convinto che la visione di Sanders fosse utopica e minoritaria e ha imposto la Clinton in nome del “realismo”: sappiamo com’è finita. Fermare la destra facendo la politica della destra serve solo a rinviare lo schianto finale, rendendolo ancora più devastante. In tutta Europa sono nati movimenti radicali di sinistra (che usino o meno questa parola nel loro nome), che contestano alla radice lo stato delle cose e le politiche di centrosinistra degli ultimi vent’anni, rigettano il dominio della finanza sulla politica e rivendicano il diritto di governare puntando al “pieno sviluppo della persona umana” e non obbedendo al mercato. Tutti partiti meno “a sinistra” di papa Francesco, sia chiaro: tanto per dire quanto sia insensato parlare oggi di “centrosinistra” sul piano culturale. (…). Ma un simile progetto non può certo iniziare sostenendo gli alfieri dello stato delle cose. Alle prossime elezioni ci saranno tre, diverse, destre: quella padrona del marchio, i 5stelle di Di Maio e il Pd di Renzi. Una sinistra che voglia rovesciare il tavolo dello stato delle cose non può allearsi con nessuna delle tre. E i numeri? Si può decidere di rivolgersi solo al 50% che vota, o decidersi finalmente a parlare all’altra metà del Paese, con un linguaggio nuovo e radicale. È la metà riemersa il 4 dicembre, determinando la vittoria del No: laddove i flussi elettorali dimostrano che l’ 85% dei votanti Pd ha scelto il Sì. Siamo, dunque, a una scelta di campo. L’oracolare Giuliano Pisapia ha infine detto che sarà al fianco del Pd, mentre MdP deve ancora decidere: tutti gli altri vogliono un quarto polo. Non so come finirà: ma se ci si divide tra chi vuole lasciare tutto così com’è, e chi vuole invertire la rotta non è uno scandalo, è onestà intellettuale. Lo scandalo è non averlo fatto prima: oggi saremmo al 20 per cento. O al governo.

domenica 21 gennaio 2018

Quodlibet. 51 “Ora la corruzione è a norma di legge”.



Da “Ora la corruzione è a norma di legge” di Roberta De Monticelli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 21 di gennaio dell’anno 2015: La questione morale ha cambiato taglia. Ma non è la “mappa della corruzione” nella Pubblica amministrazione, con le sue percentuali di illeciti che sembrano aver impressionato il ministro della Giustizia Orlando (…) a fare la differenza. Per la semplice ragione che si tratta di illeciti. Cioè di violazioni della legge. Almeno dai tempi di Tacito è ben noto che la peggiore corruzione è quella a norma di legge, (…). Ma ancora peggiore è la corruzione della legge stessa. Qui per illustrare il fenomeno vien buona un’altra immagine di sartoria. Secondo una famosa ricetta cinica di Giolitti, “un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo deve fare la gobba anche all’abito”. La corruzione delle leggi è appunto questo: una legge non serve a prevenire, impedire o raddrizzare una deformità, ma ad adattarcisi al meglio. Se proprio serve un esempio, oltre alla reiterata depenalizzazione del falso in bilancio, che non ha invece impensierito il ministro, può valere l’ormai ben noto 19-bis del Decreto-legge sulla delega fiscale. La cosa più sorprendente di questo vestito tagliato a misura di gobba è che il clamore che ha finito per suscitare si sia limitato nella maggior parte dei casi a censurare il carattere ad personam di questo mostriciattolo partorito probabilmente da un accordo sordido: come se il suo effetto riabilitante nei confronti di un noto pregiudicato ne esaurisse la mostruosità. Come se non ci fossero due altri aspetti mostruosi. Il primo è l’atto con cui l’articolo è improvvisamente comparso nel testo di un decreto del Consiglio dei ministri. Questo, stando alle autorevoli dichiarazioni di due costituzionalisti, è semplicemente un falso in atto pubblico. Per il Prof. Sorrentino si tratta di un reato commesso nell’esercizio delle funzioni del ministro o del presidente del Consiglio… un fatto di una gravità straordinaria, passato sotto silenzio (…). Per il Prof. Pace chi se ne è assunto la responsabilità ha usato un sotterfugio per far sì che una sua volizione individuale assumesse le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi dal Consiglio dei ministri, contro la verità dei fatti (…). E il contenuto di questa volizione? Ecco, dall’intervista di F. Forquet al ministro Padoan (Sole 24 Ore 17/01/2015). Domanda: Quella franchigia del 3% sarà riproposta? Risposta: Bisogna ragionare su un sistema di percentuali e di margini, dall’intreccio di questi due parametri può uscire un sistema equo. Traduzione: dall’intreccio di una frode che non viene più trattata come frode e di una legge che calcola gli sconti per le frodi invece di sanzionarle, può uscire un sistema equo. Domanda: Ma qual è la sua versione sulla famosa manina che ha introdotto la norma del 3%? Risposta: …è il metodo di lavoro abituale di questo governo: l’interazione tra ministeri e presidenza e quindi il Consiglio. Cioè: un falso in atto pubblico come lo chiama, un ministro della Repubblica? Un metodo di lavoro! Ecco: per capire la gravità di questi due aspetti, l’atto e il suo contenuto, occorre allargare la visuale al più vasto fenomeno cui il colpaccio che si sperava passasse inosservato appartiene. È un fenomeno di proporzioni apocalittiche, la cui profondità e vastità ci impedisce forse di prenderne veramente coscienza: perché ci nuotiamo dentro, come pesci nell’acqua. Questo fenomeno è l’appiattimento del dover essere sull’essere, del valore sul fatto, della norma sulla pratica comune anche se abnorme, e in definitiva del diritto sulla forza. Tutto quel che è reale è razionale, dice il filosofo che dà ragione alla forza, purché vinca. Tutto quello che è reale è normale, dice il cinismo che ha permeato il linguaggio popolare. Al fondo, è la dissoluzione dei vincoli di senso, i vincoli all’interno dei quali soltanto le parole umane dicono qualcosa di definito, i comportamenti umani hanno un significato e un valore definito. Sciogliete una lingua dalle sue norme logiche e nessuno potrà più affermare o negare nulla. Si dirà insieme tutto e il contrario di tutto. Sciogliete i comportamenti umani dai vincoli pur minimi dell’etica, da quelle norme implicite che sono i mores o da quelle ponderate che sono le leggi, e non potrete più valutare se la mano che vi si tende offre morte o amicizia. Leggiamola a questa profondità, la piccola porcheria del 19-bis. Ci consente di farlo il comportamento degli individui che con atti, parole e omissioni contribuiscono, come tutti ormai facciamo senza accorgercene neppure più, ad appiattire la norma sul fatto e il diritto sul potere. Perché l’erosione dell’idealità non avviene da sola, e neppure da soli i vestiti si attagliano alle gobbe, ci vuole chi dispone, chi scrive, chi tace, chi usa le leggi corrotte. E cosa c’è di terribile in questo? Quasi niente: l’auto-destituzione del soggetto morale in noi, vale a dire la semplice impossibilità di dissentire anche nel foro interiore da ciò che non è come dovrebbe essere, perché la distinzione non c’è più: la realtà ha vinto completamente, ovunque. Chi si ribella a uno Stato totalitario, come fecero i coniugi Solgenitsin quando decisero di non mentire più qualunque conseguenza potesse seguirne, ha una chance di uscire libero dalla sofferta prigionia della mente. Nel caso totalitario resta la potenziale coscienza della libertà perduta: la costrizione, il dolore di subirla, la vergogna di piegarsi… mentre lo Stato impunitario è una distruzione irreversibile di risorse di senso. Chi ha sciolto il suo pensiero dal vincolo della legge ha destituito in se stesso per sempre l’autonomia, la libertà di resistere all’arbitrio, dentro e fuori di sé. Il parricidio della civiltà, come predisse Socrate, è vicino. E questo è il vero ultimo senso della parola corruzione: dissoluzione e morte di un intero vivente. Ecco perché la questione morale ha cambiato taglia.

sabato 20 gennaio 2018

Storiedallitalia. 81 “La profezia di Zagrebelsky”.



In “La profezia di Zagrebelsky: Berlusconi farà la fine di Craxi”, che all’epoca fu una intervista di Silvia Truzzi al professor Gustavo Zagrebelsky - pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 20 di gennaio dell’anno 2011 - una parte almeno di essa non si è verificata, ovvero quella “fine” da latitante alla quale l’uomo venuto da Arcore sembrava essere destinato. A differenza del latitante di Hammamet l’uomo, superate le bufere etico-politiche che lo hanno interessato, si ripresenta nell’avanspettacolo della politica de’ noantri come l’uomo della provvidenza e di una prospettiva (inesistente) nuova per la mefitica aria politica che si respira. È mai possibile che una tale aberrazione abbia a compiersi? È che dopo ben sette anni da quella intervista le cose “politiche” si sono così contorte da mettere in conto un “ritorno” che il buon senso escludeva sino all’altro giorno – politicamente parlando -. È che la mitridatizzazione operata nel suo nero, infausto ventennio ha reso il paese – con la “p” al minuscolo – insensibile a qualsivoglia richiamo al buon senso, all’etica della politica e dei comportamenti sociali e personali. Un veleno quel ventennio che continua ad agire nell’indifferenza dei tanti se non dei più. E questo inestricabile groviglio di mal di vivere e di quant’altro fa sì che quella profezia dell’illustre pensatore non si sia e non si possa verificare. Soccorre per la sostenibilità di quanto scritto una cronaca di questi giorni, aggiornati a sette anni dopo quella intervista, cronaca magistrale ed emblematica del male profondo che affligge il paese per la penna di Curzio Maltese pubblicata sul settimanale "il Venerdì di Repubblica" del 5 di gennaio u.s. che ha per titolo "Nel paese dei corrotti guai agli onesti": (…). La più chiara e profonda analisi dello scandalo di oggi è stata già fatta nel 1980 da Italo Calvino nel famoso e sempre rimosso Apologo sull'onestà nel Paese dei corrotti. "C'era un Paese che si reggeva sull'illecito" era l'incipit del racconto di una nazione dove gli scandali, il malcostume, le ruberie, l'abuso di potere non erano soltanto fenomeni diffusi - come altrove - ma a differenza che nel resto del mondo civile non comportavano alcuna sanzione sociale. La corruzione era ed è da noi considerata funzionale alla società, ragionevole, lecita e quasi benemerita. In ogni caso è giustificata dal diritto di non soccombere in un mondo di ladri. La difesa dei molti tifosi dei ladroni è la stessa: gli altri fanno peggio. A volte è vero. La legge o la morale sono applicate in maniera tanto casuale, che quando accade, fra la sorpresa generale, gli occasionali imputati possono facilmente gridare al complotto. Ma come, perché indagano ora? Perché mi devo dimettere proprio io? In quell'Italia così simile alla nostra, Calvino non invitava alla rivolta, ma avanzava la modesta proposta di lasciar comunque campare in pace gli unici soggetti a disagio: gli onesti. Senza la pretesa di ergersi a società o reclamare la propria superiorità - ci mancherebbe - almeno agli onesti fosse concesso di sopravvivere come controsocietà anomala. Ed ecco la differenza, l'impossibilità oggi di essere onesti. Il corpo della nazione è così malato che gli anticorpi attaccano le parti sane. Gli onesti sono emarginati, perseguitati, derisi come imbecilli. A marzo tornerà al potere un ottuagenerio pluricondannato che, fra l'altro, ha fatto votare al Parlamento della Repubblica che Ruby Rubacuori era la nipote di Mubarak, con  ministri tra quelli che avevano votato, i Gasparri, le Meloni, i leghisti. Sono appena stati al governo quelli che, col padre o i sodali implicati, facevano il giro delle sette chiese per farne salvare la banca. Ma non erano pressioni, certo. Pensate come sarebbe stata diversa la storia se Nixon se la fosse cavata dicendo di aver "fatto valutare" ma senza pressioni l'intercettazione dei democratici, se i tedeschi avessero finto di credere a un Helmut Kohl sbalordito di avere a sua insaputa conti in Svizzera. Agli onesti rimane di fingersi fessi o pazzi, emigrare se giovani e se anziani, togliersi di mezzo. Come quel Luigino pensionato che ha perso i risparmi di una vita nel crac di Etruria e si è impiccato dopo aver scritto una lettera di scuse alla famiglia. Perché qui, dopo gli scandali, sono gli onesti a suicidarsi per la vergogna. È increscioso doverlo sottolineare - stante la stima che avvolge la Sua persona ed il Suo pensiero -, ma ha di fatto sbagliato il professor Zagrebelsky nella Sua “profezia”, poiché, se pur avvezzo alla (mala)vita politica del paese, non avrebbe mai e poi mai ipotizzato che un simile raggiunto degrado delle sensibilità collettive consentisse un “ritorno” indecoroso non tanto per l’uomo di Arcore – che in verità ha agito per spianarne la strada – quanto per il paese tutto immerso nella più terribile delle sue crisi politico-istituzionali. Chiedeva Silva Truzzi al professor Zagrebelsky quel 20 di gennaio dell’anno 2011, mancando ancora l’avvio di quell’azione della comunità europea che dieci mesi dopo avrebbe decretato il “licenziamento” dell’egoarca di Arcore:

giovedì 18 gennaio 2018

Quodlibet. 50 “Attuare la Carta per combattere l’esclusione”.



Da “Sinistra: ripartire dalla Carta per combattere l’esclusione” di Nadia Urbinati, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di gennaio dell’anno 2017: Quel che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’ elettorato da conquistare, ma anche dei suoi simpatizzanti, che spesso (come è successo negli Stati Uniti, ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso (dell’anno 2016 n.d.r.) parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo, che a coloro che lo applicano. E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa. Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, “Destra e sinistra”, (…). Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/sinistra. Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee ­ quelle che danno identità alla nostra, come a tutte le costituzioni democratiche, ­ non servono ad orientarci né nel giudizio politico, né nelle scelte. Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “self­made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro. (…). Renzi (…) ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?).

mercoledì 17 gennaio 2018

Lalinguabatte. 46 “Del finto e del fasullo”.



Ho avuto modo di conoscere, letterariamente parlando, il professor Raffaele Simone, linguista, leggendo il Suo straordinario lavoro che ha per titolo “Il mostro mite” – Garzanti (2008) pagg. 170 € 12,00 -. E come mia abitudine, nel corso della lettura, avevo preso nota di un passo molto interessante di quel lavoro, alla pagina 113, che trascrivo: “(…). …si è indebolita la capacità di tener distinte realtà e finzione, uno dei pilastri della razionalità occidentale. La finzione si distingue in due livelli di natura diversa: il finto e il fasullo. Verso il primo abbiamo di solito un atteggiamento positivo, che può essere anche di desiderio e di ricerca: benché le narrazioni fantastiche (letteratura, cinema, sogno) siano finzioni, nondimeno ne abbiamo bisogno. In esse si appaga qualcosa che è connaturato alla mente umana in modo complicato. Verso il fasullo, invece, abbiamo un atteggiamento di diffidenza e sospetto: le cose fasulle rientrano nella sfera della contraffazione, dell’inganno, della sostituzione abusiva, sono connesse alla truffa e all’impostura. (…). Il finto si associa all’invenzione, al trucco e anche al divertimento; il fasullo alla bugia e all’inganno. (…).”. Dotta e sottile l’argomentazione dell’illustre Autore. Ci riconduce, essa, alla condizione esistenziale vissuta da un buon quarto di secolo - imperante prima l’uomo di Arcore, poi l’uomo venuto da tal Rignano sull’Arno - nel bel paese, nel quale quarto di secolo si sono perse le giuste coordinate per una distinzione chiara e pronta tra la realtà del vivere e la sua rappresentazione più becera e malvagia al contempo, per cui si registra un navigare senza senso che immancabilmente ha portato larghissimi strati sociali ad essere vittime, inconsapevoli per tanti versi, del “fasullo” più sfrontato che si possa immaginare. È che sembra siano venuti meno quegli atteggiamenti “di diffidenza e sospetto” che in verità avevano fatto da sempre parte del connaturato storico ed antropologico degli abitatori del bel paese. Come sia stato possibile è l’arcano del tempo che ci è dato di vivere? Quale magia, o meglio quale malìa, ha potuto ottenebrare menti e coscienze in larghissimi strati sociali da condurre alle condizioni di smarrimento oggigiorno vissuto? Ho ritrovato il professor Raffaele Simone su di una pagina del 3 di marzo dell’anno 2011 amorevolmente conservata del quotidiano “la Repubblica” in un’intervista rilasciata a Franco Marcoaldi che ha per titolo “Le buone azioni dello scettico”. Di seguito la trascrivo in parte:

martedì 16 gennaio 2018

Quodlibet. 49 “Com'è povero il mondo chiuso in un telefonino”.



Da “Com'è povero il mondo chiuso in un telefonino” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 16 di gennaio dell’anno 2016: Siamo "malati" di social network? No: è quel modo di comunicare la vera malattia. (…). …malata è la forma che ha assunto la comunicazione di massa, dove chi riceve un messaggio finisce per leggere le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente scrivere, e chi scrive narra le stesse cose che potrebbe leggere inviate da chiunque. Il risultato è una sorta di "comunicazione tautologica" che, paradossalmente, finisce per abolire la necessità e, al limite, l'utilità della comunicazione. Tuttavia non vi si rinuncia perché, (…), lo scopo di questo tipo di comunicazione è "il desiderio di costruzione di un nuovo io e la ricerca di approvazione". Due cose che denunciano da un lato la non accettazione di sé, e dall'altro quella forma d'insicurezza che affida all'approvazione degli altri il riconoscimento di chi si vorrebbe essere e non si è. La non accettazione di sé incomincia dal corpo che, dall'adolescenza fino alla vecchiaia, si chiede alla chirurgia estetica di poter modificare, per poi estendersi all'immagine di sé, offrendo sui social network una descrizione che non risponde a quel che si è, ma a quel che si presume possa essere approvato dagli altri. Così ci si mette in mostra come i prodotti si mettono in vetrina. E senza accorgercene diventiamo una "mostra" che chiunque può visitare. E poi approvare o disapprovare, non argomentando - non si può con 140 caratteri - ma scrivendo semplicemente "mi piace" o "non mi piace". Argomentare è difficile, perché per farlo occorre saper pensare e parlare. Stante il livello culturale delle nostre scuole, tale che l'Ocse colloca gli italiani all'ultimo posto in Europa per la comprensione di un testo scritto, ci esprimiamo con il linguaggio atrofico e impoverito proprio dei telefonini. Prova che le invenzioni tecniche non sono mai solamente "tecniche", perché ogni tecnica comporta una modalità d'uso che plasma chi la usa, indipendentemente dall'uso che ne fa. I messaggi diffusi nei social hanno una vita breve che si consuma, come tutte le cose in una società dei consumi spinta all'eccesso, per cui il tempo della riflessione e del pensiero si estingue in quel tempo breve della risposta emotiva non pensata e non riflessa. Se poi vogliamo considerare i danni fisici, che potrebbero preoccupare anche chi non è interessato al pensiero, mi diceva un primario di oculistica che i giovani d'oggi non sanno più vedere a distanza, e la preside di un liceo artistico mi riferiva che i suoi alunni non riescono più a percepire la prospettiva. È un mondo accorciato, un mondo ridotto a quella breve distanza che separa il mio occhio dal telefonino, che mi fa vedere non il mondo reale ma il mondo in immagine, non di rado manipolato dagli operatori di mercato che riescono a intercettare anche i nostri gusti, per vendere gli oggetti che li soddisfano. Ma si può prescindere da questi mezzi di comunicazione oggi diffusi su vasta scala? No. Perché, siccome il mondo della comunicazione passa attraverso questa rete, uscirne equivale a un'esclusione sociale. E nessuno vuole provare l'angoscia e la solitudine di questa esclusione.