Nell’Italia dell’anno 2017 che
brucia nella “irresponsabilità e nell’ignavia”, che è assetata, che non ha
mezzi per difendersi da piromani ed affini, in questa disastrata Italia si ri-trova
spazio e (dis)interesse per discutere del ventennio nero e della necessità di
difendere quel che nel paese “della irresponsabilità e dell’ignavia”
viene definito la tutela della libertà di pensiero anche degli uomini in “orbace”.
Quale libero pensiero? E quale libertà? È come se si volesse incredibilmente,
oggi, tutelare il pensiero e l’istigazione di chi pensò ed attuò spietatamente
l’Olocausto. Possibile che si voglia tutelare il libero pensiero di chi incita –
o ha incitato - a compiere i misfatti più vergognosi? Ché anche in quel nero
ventennio di misfatti ne furono compiuti a iosa, all’ombra di una ideologia
senza remore e che ha lasciato segni terribili ed incancellabili anche a
distanza oramai di tanto tempo trascorso. Incancellabili dove? Incancellabili per
chi? Del resto è appena passato, nella indifferenza generale, quel “25
di luglio” dell’anno 1943 che sembrava dovesse segnare una
significativa svolta per l’asfittica vita politica e sociale del bel paese. Un nulla,
in verità. Poiché ci si ritrova, nell’Italia dei fuochi, a ridiscutere, come in
una commedia dell’assurdo, di libertà di pensiero, ché meglio sarebbe parlare “della
irresponsabilità e dell’ignavia” che caratterizza il vivere sociale e
politico del nostro tempo. È che l’aria che tira non è delle migliori per le
esauste democrazie dell’Occidente. Poiché riaffiora, in quello spazio di tutela
del pensiero pur che sia, la “voglia” dell’uomo forte, “voglia” che in questo
malandato paese è rimasta sotto traccia ma viva sempre e pronta a manifestarsi,
giusto come in questa torrida estate. Ne è più che convinto Marco Revelli che
in “Comandanti immaginari” di Davide
Turrini – sul mensile “FQ MILLENNIUM”
del mese di giugno – sostiene che “i cosiddetti uomini forti che nella nostra
temperie emergono come riferimenti sono in realtà deboli. Sono il prodotto e la
forma della crisi della politica. Sono figure di crisi, non di soluzione della
crisi. La fine della democrazia dei partiti, che avevano caratterizzato i cosiddetti
Trente gloriosus (1945-1975), un po’ come il sonno della ragione, genera
mostri. Mostri nel senso etimologico, latino del termine, monstrum, figure
spettacolari. La personalizzazione della politica vista come antidoto alla
crisi della democrazia è in realtà la malattia della democrazia. Cercare un dio
con la d maiuscola in cui identificare un noi che non c’è è un’apocalisse
culturale dal punto di vista democratico. Questi pseudo uomini forti si
affermano spettacolarizzando se stessi. Fenomeni da baraccone che compensano la
crisi di autorevolezza. La “sfogliatura” di oggi è del lunedì
31 di maggio dell’anno 2010: (…). «Quando il presidente del Reich si era
macchiato per la terza volta di violazione della Costituzione, molti
socialdemocratici, in gran segreto, si misero in guardia dal parlarne: - non
sfiorate l’argomento, dissero timorosi, altrimenti non esisterà nessuna remora
a violare la Costituzione. Se il popolo, o il Presidente del Reich venissero a
sapere che la Costituzione è già stata violata, non ci sarebbe più alcun monito
che tenga. Così invece noi possiamo ancora mettere in guardia dall’infrangere
la Costituzione -. Ragionando in questo modo e col sudore in fronte ad ogni
nuova violazione sostennero che non si trattava affatto di violazione. E,
quando la Costituzione non esistette più, violazioni costituzionali non erano
comunque ancora avvenute» (...). Così
ci ha lasciato scritto quel grande a nome Bertold Brecht nel Suo volume “ Le storie del signor Keuner “. La
cecità, la faciloneria, l’indifferenza dei tanti, tantissimi di questi giorni, il
pressapochismo familistico proprio di una larghissima fetta di italioti, potrebbero
costarci tanto, tantissimo, caro, carissimo. Allora, il tutto sfociò nella
tragedia orrenda del nazismo. Oggi, potrebbe il tutto sfociare in una nuova
farsa dagli esiti imprevedibili. Di seguito trascrivo, nella quasi sua
interezza, il colloquio tra il giornalista del quotidiano l’Unità Oreste
Pivetta e lo scrittore Marco Belpoliti. Tema del colloquio: le letture del
signor B – che benché padrone della più grande casa editrice del bel paese ha
avuto modo di bearsi e glorificarsi nel non aver letto, da un decennio almeno,
un libro che sia -, letture candidamente, si fa solo per dire, confessate in
quel di Parigi:
L’ha colpita questa
storia di Berlusconi che chiama in aiuto Mussolini, a sostegno delle proprie
strampalate idee poco costituzionali, testimonianza di una incertissima
conoscenza delle regole di una democrazia liberale? (…). Risponde che lo ha
colpito ancor più il fatto che Berlusconi legga i diari di Mussolini. Forse
Berlusconi cerca ispirazione? Forse cerca ispirazione, forse si identifica in
Mussolini. Forse sente o lo hanno convinto gli altri a sentire che Mussolini è
il suo unico antecedente in Italia. La lettura dei diari la dice lunga comunque
su come lui, il nostro premier, anzi il Capo, si rappresenta. Magari si
rispecchia in quelle pagine, magari crede di leggere se stesso, concependo per
sé un potere assoluto, sciolto da qualsiasi legame. Noi lo definiamo ‘potere
totalitario’.
O.P. Le segnalo una coincidenza a
proposito dell’episodio di Milano, il tiro del Duomo, sul quale lei chiude
Senza vergogna (“Senza vergogna” è l’ultima fatica
letteraria di Marco Belpoliti, edita da Guanda, pagg. 254 € 16,00 n.d.r.). Quinto Navarra, che fu per vent’anni
cameriere di Mussolini (cameriere autentico, con tutto il rispetto per il
lavoro) in un libro pubblicato dall’Ancora del Mediterraneo ricorda il secondo
attentato, quello che il duce subì nel 1926, quando fu colpito da un colpo di
pistola esploso da una irlandese, Violet Albina Gibson. Il proiettile sfiorò il
naso, provocando una copiosa emorragia. Mussolini, svenne, fu soccorso, venne
steso a terra. Poi si riprese, si rialzò e, malgrado l’opposizione di quanti lo
circondavano, volle esporsi alla gente. Si mostrò e gridò: - Non è nulla, non è
nulla -. A Milano abbiamo assistito al filmato fotocopia, ottantatre anni dopo.
M.B. In Mussolini non sorprende.
D’altra parte, lui che aveva un gran senso del valore dell’immagine, sfruttò
benissimo la sua ferita in guerra, la prima guerra mondiale, e la sua
fotografia, bendato con le stampelle, fece il giro propagandistico d’Italia. Il
corpo mussoliniano ferito come il corpo offeso della nazione. Prima si parlava
di identificazione, appunto. Ma vorrei sottolineare un altro sentimento che mi
pare si scorga in Berlusconi, tipico di questo andamento: secondo me in queste
sue letture s’avverte una psicosi da 25 luglio o da 8 settembre. Mi domando se
Berlusconi non cerchi suggerimenti per una sua repubblica di Salò. Stiamo nella
metafora, ovviamente.
O.P. Ancora sulla vicenda del
Duomo. Lei ricorda come Berlusconi ci mise, alla lettera, la faccia, ben due
volte. Restando nel campo delle metafore, metterci la faccia è una modalità o
un’espressione frequenti nel nostro, che peraltro mi sembrano poco adatte al
leader di un governo democratico. Nel metterci la faccia ci sono l’arroganza e
la solitudine del potere.
M.B. Sì, ma in Italia siamo al
disfacimento delle forme tradizionali della politica, che non sono state
sostituite da altro. Una supplenza la esercitano altri poteri a noi estranei.
Berlusconi è stato commissariato ma non da Tremonti o da qualche altro suo
ministro. Nel caos mondiale compaiono due o tre centri di potere che fanno
rete, sicuramente gli Stati Uniti di Obama, poi la Cina, a volte la Russia di
Putin e in rappresentanza dell’Europa la Germania di Angela Merkel. Berlusconi
è stato cancellato, sommerso dai problemi che non sa risolvere, problemi che si
affrontano a livello mondiale e non certo nella logica locale di cui noi
sentiamo dire. Non sanno che cosa farsene di lui. Stiamo assistendo a una sorta
di 25 luglio senza congiurati e senza congiure, dettato da una politica
mondiale, per la quale lui non ha niente da dire.
O.P. È d’accordo con chi ha
scritto che quando cadrà Berlusconi, gli italiani diventeranno tutti
antiberlusconiani, come divennero tutti antimussoliniani?
M.B. Gli italiani sono pronti ad
autoassolversi, a non provar vergogna, sono pronti a cambiarsi d’abito.
Proviamo a immaginare Bondi senza Berlusconi.
O.P. Chissà se tornerà
comunista... Com’era stato in Lunigiana...
M.B. Bondi, come tanti al pari di
lui, è frutto del risentimento. Della rivalsa. E la fonte del risentimento è
l’invidia, come dicono gli psicologi. È la storiella della strega che chiede al
contadino: dimmi quello che vuoi, ma sappi che quello che avrai tu lo darò
raddoppiato al tuo vicino. Che cosa risponde il contadino? Risponde: cavami un
occhio.
O.P. Che cosa pensa del
linguaggio di Berlusconi?
M.B. Da bar sport. Non il bar
sport di Benni, ma il bar nella versione depressa e deprimente. Però bisogna
pure fargli qualche complimento: per il modo in cui sa intercettare il peggio.
Se si pensa agli spiriti magni di questo paese, si dovrebbe definire Berlusconi
l’antitaliano per eccellenza. Ma non ci si può illudere che non esista il
peggio in noi e che non si sia tutti un po’ berlusconiani, un po’ fascisti e
via....
O.P. Bocca ha sempre detto che il
fascismo c’è rimasto addosso...
M.B. Nel senso della
irresponsabilità, dell’ignavia. “
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