Da “Il senso
dei greci per il dolore” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale
“D” dell’11 di luglio dell’anno 2015: È il coraggio - l'unico che la saggezza può
dare - di guardare in faccia la condizione tragica dell'uomo. Senza darsi colpa
dei pensieri che in questi estremi ci assalgono. Il dolore non è mai un evento
solitario che riguarda solo chi è afflitto dal male. Il dolore investe anche
chi è accanto a chi soffre e vede la sua vita rattrappirsi e raccogliersi in
quegli sguardi che impietosamente non mentono su un futuro che non c'è più e
nel ricordo di un passato felice che non ritorna. Resta solo un assoluto
presente che reitera di giorno in giorno le pratiche di cura, neppure
accompagnate, (…), da uno spiraglio di speranza. La coscienza è combattuta tra
il desiderio che l'evento si compia per ricominciare a vivere e il senso di
colpa per aver osato concepire un simile pensiero. Gli altri non capiscono e
diradano la loro frequentazione, perché sanno di non avere parole che sappiano
sinceramente consolare. La solitudine si fa abissale. E non c'è fede che tenga,
talvolta neppure la forza di sostenere la cura quotidiana. (…). Il bisogno di
vita, per ora compresso in una successione di giorni senza tempo e senza meta,
non è solo un sogno, una prospettiva per ora conculcata, ma anche ciò che la
sostiene e le consente di reggere l'esperienza della tragicità dell'esistenza. Questa
fa la sua comparsa dove i sogni, i progetti, le aspirazioni del nostro io si
scontrano con la crudeltà innocente della natura che, inaspettatamente, ci fa
conoscere che sono nelle sue mani e non nelle nostre le sorti della nostra
esistenza. I Greci (…) queste cose le sapevano perché non si affidavano a
cieche speranze, e per questo Nietzsche parla di loro come del popolo più
grande mai apparso sulla terra, perché, a differenza degli altri popoli: «hanno
avuto il coraggio di guardare in faccia il dolore». I Greci erano tragici, non
perché pessimisti, ma perché avevano colto l'aspetto tragico dell'esistenza
umana che, a differenza di quella animale, per vivere ha bisogno di costruire
un senso, in vista della morte che di ogni senso è l'implosione. Per questo, a
Re Mida che chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile nella
vita, il saggio Sileno risponde: «Stirpe miserabile ed effimera, figlio del
caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non
sapere? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile. Non esser nato, non
essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è morire presto». Per
questo, scrive ancora Nietzsche, la tragedia non è un genere letterario, ma la
perfetta descrizione della condizione umana, la cui consapevolezza si estinse
con la fine della grecità. E Karl Jaspers, di rincalzo: «Neppure Shakespeare è
un tragico, perché ormai vive nell'era della speranza cristiana». (…).
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