Da “Meno
frontiere per sostenere il welfare” di Ferdinando Giugliano - editorialista
di Bloomberg View – pubblicato sul settimanale A&F del 3 di luglio 2017: (…). La
premessa è che l'Unione ha bisogno di immigrazione per mantenere la
sostenibilità del suo sistema di welfare. Oggi all'interno dell'Ue ci sono
quasi quattro cittadini in età lavorativa per ogni persona con più di 65 anni.
A partire dal 2050, questa proporzione dovrebbe essere soltanto di due a uno,
secondo le proiezioni di Eurostat. A meno di ipotizzare un improvviso quanto
improbabile boom delle nascite, l'unico modo per mantenere sotto controllo la
spesa sanitaria e pensionistica è quello di aprire le frontiere a giovani
provenienti da altre parti del mondo. Non ci si può illudere, però, che questo
sia un processo semplice. Come dimostrato dai primi studi condotti sui
rifugiati che si sono stabiliti in Germania, il loro inserimento nel mercato
del lavoro è tutto tranne che agevole. Secondo dati dell'Agenzia Federale del
Lavoro tedesca, il tasso di occupazione fra i rifugiati è di appena il 17%. In
una recente intervista al Financial Times, Aydan Özo?uz, commissaria per
l'immigrazione del governo tedesco, ha ammesso che tra cinque anni fino a tre
quarti dei rifugiati presenti in Germania saranno ancora senza lavoro. E'
pertanto necessario un investimento molto copioso e di lungo periodo per
gestire la transizione. Questo va in direzioni molteplici: prima di tutto, il
salvataggio di coloro i quali scelgono di attraversare il Mediterraneo, spesso
in condizioni disumane. Poi la difficile identificazione, per stabilire ad
esempio se l'immigrato sia un rifugiato a cui va dato asilo politico, oppure un
migrante economico, che i governi possono decidere di non accogliere. Infine le
spese di integrazione, che vanno dai corsi di lingua a uno spesso lontano ma
necessario programma di inserimento nel mondo del lavoro. Fino ad ora la
strategia europea è stata quella di finanziare collettivamente solo una minima
parte di queste spese. Il budget dell'agenzia Frontex, che si occupa di gestire
le frontiere comuni dell'Europa, è cresciuto in questi anni ma si fermerà nel
2017 ad appena 300 milioni. La maggior parte degli oneri continueranno ad
essere invece a carico degli Stati membri. Se di solidarietà si può parlare,
essa si manifesta soltanto nel permettere ai Paesi con i conti pubblici non in
ordine, come l'Italia, di aumentare il loro deficit oltre quanto previsto dalle
regole. Il debito, però resta sulle spalle dei loro contribuenti.
Un'alternativa migliore sarebbe quella di creare un fondo comune a cui
attingere per le spese legate alla crisi migratoria. Per esempio, come ha
proposto un gruppo di accademici tra cui Lucrezia Reichlin nel rapporto
"Making the Eurozone More Resilient", si potrebbe pensare a delle
obbligazioni comuni emesse esclusivamente per finanziare questo tipo di
progetti. Dalla Germania all'Italia, chiunque potrebbe attingere a questi
fondi, mentre toccherebbe alla Commissione Europea monitorarne utilizzo. Chi
non volesse accogliere rifugiati si prenderebbe parte del debito senza però
spendere le risorse. Queste obbligazioni comuni sarebbero il modo migliore per
riconoscere che l'immigrazione è realmente un problema europeo. La loro buona
gestione potrebbe essere un modello anche per altre aree di bilancio,
contribuendo così indirettamente al rafforzamento dell'unione monetaria.
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