Osservo di sottecchi il quadretto
familiare. Giovani i due. Eterosessuali, tal che la coppia è di quelle che
stanno nella norma. Benedetta, quindi, dall’alto dei cieli. Osservo il bimbetto
che li accompagna. Ad un certo punto lei esclama, e capisco che si riferisca al
bimbetto: - Da grande sarà un comunista -. Interroga lui: - Perché? – Risponde
lei: – Guarda un po’ come si vuole vestire! – Trasecolo. Non mi pareva che il
bimbetto avesse nulla di strano nel suo abbigliamento. È che nell’immaginario
collettivo “i comunisti” sono quelli che bivaccano in quel di San Pietro. E che
divorano i rubicondi bimbi del bel paese. Con quell’indecoroso “chiacchiericcio”
si vinsero le elezioni politiche del ‘48. E fu per l’appunto un altro ‘48. Anche
quello di Arcore ha accusato i cinesi di essersi nutriti di bimbetti di quel
paese. Lo ha detto prima di intraprendere affari con l’impero che fu celeste.
Ma sui comunisti sono fiorite le più straordinarie leggende metropolitane.
Torno affettuosamente al mio “Cosmonauta”
di Susanna Nicchiarelli. Luciana, la protagonista nel film ancora non
adolescente, abbandona la chiesa nella quale sta per compiersi il rito della
prima comunione. È tutta vestita di bianco. Come si conviene. Di corsa fa
ritorno a casa per rinserrarsi nell’angusto bagno domestico. La madre,
disperata, la supplica di uscirne, per fare ritorno nel consacrato luogo
convenuto. Alla ostinazione ed al contrapposto rifiuto della bimbetta le pone
la solenne domanda: - Luciana, ma perché? – E Luciana le risponde: - Perché
sono comunista! – Una sequenza straordinaria. Di raro effetto. Un tempo si è
stati “comunisti” in tanti, tantissimi. Una condizione additata come di grande “peccato”.
Da quel “peccato” ne sono stati – ne siamo stati - toccati in molti. In
milioni di esseri umani. Prima che il mostro della globalizzazione fagocitasse
ogni cosa, idee ed ideologie, ad Oriente come ad Occidente. Ché sono morte
definitivamente quest’ultime, le grandi ideologie. O così sembra oggigiorno. Anche
John Maynard Keynes, grande economista, fu toccato da quel “peccato”? Ne ha
scritto Vladimiro Giacchè con una
recensione al volume di quel grande che ha per titolo "Laissez-faire e comunismo", edito per l’editore
DeriveApprodi ed in edizione integrale curata da Giorgio Lunghini e Luigi
Cavallaro. Bisognerà tornare a rileggerlo. Oggi che non si ha idea di cosa stia
avvenendo nel mondo dell’economia e della finanza. Se non di un impoverimento
globale e collettivo. La recensione di Vladimiro Giacchè è stata pubblicata su
“il Fatto Quotidiano” con il titolo “Più
stato e meno mercato” il 25 di maggio dell’anno 2010. Di seguito la
trascrivo in parte:
(…). … la gigantesca socializzazione delle perdite che è stata
realizzata per evitare il collasso del sistema finanziario internazionale sta
originando un fenomeno paradossale: la statalizzazione delle colpe. Con gli
stati a fare da capro espiatorio della crisi, e tutti noi a rischio di perdere
i residui benefici di un welfare che è tornato ad essere inefficiente, inutile,
immorale, ecc. a fronte della superiore efficienza dei mercati. Un buon
antidoto a questo ritorno di fiamma del liberismo è rappresentato dalla prima
traduzione italiana integrale di un libro di John Maynard Keynes, Laissez faire
e comunismo, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1926 (…) Il
primo dei due capitoli che compongono il volume, La fine del laissez faire, è
dedicato ad un’analisi della genesi storica e delle diverse fonti
dell’ideologia liberistica, avversa a ogni interventismo statale e convinta che
‘l’intrapresa privata liberata da ogni impedimento avrebbe promosso il massimo
benessere per tutti’. Keynes pone in luce come questa convinzione-cardine del
liberismo, secondo cui ‘il comportamento di individui indipendenti, mossi dalla
ricerca del vantaggio personale, produrrà la massima ricchezza aggregata’,
dipenda ‘da una congerie di assunzioni irrealistiche’ e trascuri tutta una
serie di fatti che la smentiscono. I principi metafisici che dovrebbero
fondarla vengono puntigliosamente contestati da Keynes: ‘il mondo non è retto
dall’alto in modo che interesse privato e interesse pubblico siano sempre
coincidenti, né è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non
si può dedurre dai principi dell’economia che l’egoismo illuminato operi sempre
a beneficio dell’interesse pubblico, né è vero che generalmente l’egoismo sia
illuminato: più spesso accade che individui che agiscono separatamente l’uno
dall’altro, in vista del perseguimento dei propri obiettivi, siano troppo
ignoranti o troppo deboli perfino per conseguire questi. L’esperienza non
mostra che, quando costituiscono una entità sociale, gli individui sono sempre
di vista meno acuta rispetto a quando agiscono separatamente l’uno dall’altro’.
Confutati i presupposti teorici del liberismo, Keynes riafferma il ruolo
economico insostituibile dello stato e di enti intermedi ‘il cui criterio
operativo sia soltanto il bene pubblico’, anziché il ‘vantaggio privato’. Non
solo: egli ritiene essenziale, al fine di risolvere le crisi economiche, il ‘controllo
deliberato della moneta e del credito da parte di un’istituzione centrale’, ed
anche un controllo dei flussi di capitale e della destinazione del risparmio
agli investimenti, non più lasciati ‘alle scelte fortuite del giudizio privato
e del profitto privato’. Tutto questo non fa di Keynes un ‘comunista’, come
dimostrano le considerazioni generalmente poco benevole dedicate all’Urss nel
secondo capitolo del libro, nato da una visita compiuta nel settembre 1925
nella Russia sovietica. Keynes resta insomma sempre fedele al suo ideale, che è
quello di un ‘capitalismo saggiamente governato’. (…).
Nessun commento:
Posta un commento