Da “Mass media e contraddizioni esistenziali” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del 31 di luglio dell’anno 2010: Diceva
Pascal: - Burlarsi della filosofia è già fare filosofia -. Sappiamo
tutti che il pensiero, la riflessione, l'atteggiamento critico non trovano
molti seguaci, perché i più hanno disertato quella curiosità infantile che,
nell'età dei "perché", formula domande che senza difficoltà possiamo
chiamare "scientifiche" o "filosofiche": "Perché se la
terra è rotonda e gira, noi non cadiamo", "Perché le stelle stanno
appese in cielo?", "Come fa Dio a esistere se non ha una mamma".
Nel tentativo di orientarsi nel mondo i bambini, anche senza saperlo, cercano
di eliminare le contraddizioni, di trovare nessi di causalità e, non
accontentandosi delle risposte fugaci e frettolose degli adulti, insistono.
Questo per dire che il pensiero, la riflessione, l'atteggiamento critico non
sono prerogative dei filosofi o degli scienziati, ma esigenze di tutti gli
uomini che rifiutano di vivere a propria insaputa o in un mondo confezionato da
altri. Accade però che il pensiero comporta una certa fatica, per cui molti si
stancano di domandare e preferiscono muoversi in un mondo costruito dalle
risposte degli altri. Chiamano queste risposte confezionate "realtà"
e "masturbazioni mentali" ogni spunto di riflessione. Fu per questo
che Talete, il primo filosofo, suscitò il riso di una servetta trace quando
cadde in un fosso mentre era intento a scrutare le stelle, e fu per il suo
atteggiamento critico, per la sua insistenza a mettere in questione l'ovvio che
Socrate fu condannato a morte. Platone, dal canto suo, quando andò a Siracusa
per realizzare il suo Stato ideale, finì in prigione, mentre Aristotele, dopo
la morte di Alessandro Magno, dovette fuggire da Atene per evitare
persecuzioni. Non parliamo poi di Galileo e del suo processo, di Giordano Bruno
arso vivo in Campo dei Fiori, di Cartesio che evita di pubblicare il suo
trattato sull'uomo per timore di fare la fine di Galileo, e via proseguendo.
Nonostante questo, i loro pensieri e le loro riflessioni hanno fatto la storia
dell'Occidente, per cui in quali condizioni, attraverso quali canali, mediante
quali strumenti il pensiero pensa e si propaga, non ha grande rilevanza.
L'importante è che continui ad avere dei seguaci e degli attenti curiosi. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 31 luglio 2017
domenica 30 luglio 2017
Lalinguabatte. 35 “Quel comunistaccio di Keynes”.
Osservo di sottecchi il quadretto
familiare. Giovani i due. Eterosessuali, tal che la coppia è di quelle che
stanno nella norma. Benedetta, quindi, dall’alto dei cieli. Osservo il bimbetto
che li accompagna. Ad un certo punto lei esclama, e capisco che si riferisca al
bimbetto: - Da grande sarà un comunista -. Interroga lui: - Perché? – Risponde
lei: – Guarda un po’ come si vuole vestire! – Trasecolo. Non mi pareva che il
bimbetto avesse nulla di strano nel suo abbigliamento. È che nell’immaginario
collettivo “i comunisti” sono quelli che bivaccano in quel di San Pietro. E che
divorano i rubicondi bimbi del bel paese. Con quell’indecoroso “chiacchiericcio”
si vinsero le elezioni politiche del ‘48. E fu per l’appunto un altro ‘48. Anche
quello di Arcore ha accusato i cinesi di essersi nutriti di bimbetti di quel
paese. Lo ha detto prima di intraprendere affari con l’impero che fu celeste.
Ma sui comunisti sono fiorite le più straordinarie leggende metropolitane.
Torno affettuosamente al mio “Cosmonauta”
di Susanna Nicchiarelli. Luciana, la protagonista nel film ancora non
adolescente, abbandona la chiesa nella quale sta per compiersi il rito della
prima comunione. È tutta vestita di bianco. Come si conviene. Di corsa fa
ritorno a casa per rinserrarsi nell’angusto bagno domestico. La madre,
disperata, la supplica di uscirne, per fare ritorno nel consacrato luogo
convenuto. Alla ostinazione ed al contrapposto rifiuto della bimbetta le pone
la solenne domanda: - Luciana, ma perché? – E Luciana le risponde: - Perché
sono comunista! – Una sequenza straordinaria. Di raro effetto. Un tempo si è
stati “comunisti” in tanti, tantissimi. Una condizione additata come di grande “peccato”.
Da quel “peccato” ne sono stati – ne siamo stati - toccati in molti. In
milioni di esseri umani. Prima che il mostro della globalizzazione fagocitasse
ogni cosa, idee ed ideologie, ad Oriente come ad Occidente. Ché sono morte
definitivamente quest’ultime, le grandi ideologie. O così sembra oggigiorno. Anche
John Maynard Keynes, grande economista, fu toccato da quel “peccato”? Ne ha
scritto Vladimiro Giacchè con una
recensione al volume di quel grande che ha per titolo "Laissez-faire e comunismo", edito per l’editore
DeriveApprodi ed in edizione integrale curata da Giorgio Lunghini e Luigi
Cavallaro. Bisognerà tornare a rileggerlo. Oggi che non si ha idea di cosa stia
avvenendo nel mondo dell’economia e della finanza. Se non di un impoverimento
globale e collettivo. La recensione di Vladimiro Giacchè è stata pubblicata su
“il Fatto Quotidiano” con il titolo “Più
stato e meno mercato” il 25 di maggio dell’anno 2010. Di seguito la
trascrivo in parte:
venerdì 28 luglio 2017
Quodlibet. 11 “Le sovranità statuali spodestate”.
Da “La
tragedia greca e la sovranità spodestata” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 28 di luglio dell’anno 2015: Si parla
di fallimento dello Stato come di cosa ovvia. (…), è “quasi” toccato ai Greci,
domani chissà. È un concetto sconvolgente, che contraddice le categorie del
diritto pubblico formatesi intorno all’idea dello Stato. Esso poteva contrarre
debiti che doveva onorare. Ma poteva farlo secondo la sostenibilità dei suoi
conti. Non era un contraente come tutti gli altri. Incorreva, sì, in crisi
finanziarie che lo mettevano in difficoltà. Ma aveva, per definizione, il
diritto all’ultima parola. Poteva, ad esempio, aumentare il prelievo fiscale,
ridurre o “consolidare” il debito, oppure stampare carta moneta: la zecca era
organo vitale dello Stato, tanto quanto l’esercito. Come tutte le costruzioni
umane, anche questa poteva disintegrarsi e venire alla fine. Era il “dio in
terra”, ma pur sempre un “dio mortale”, secondo l’espressione di Thomas Hobbes.
Tuttavia, le ragioni della sua morte erano tutte di diritto pubblico: lotte
intestine, o sconfitte in guerra. Non erano ragioni di diritto commerciale,
cioè di diritto privato. Se oggi diciamo che lo Stato può fallire, è perché il
suo attributo fondamentale - la sovranità - è venuto a mancare. Di fronte a lui
si erge un potere che non solo lo può condizionare, ma lo può spodestare. Lo
Stato china la testa di fronte a una nuova sovranità, la sovranità dei
creditori. Esattamente come è per le società commerciali. I creditori esigono
il pagamento dei loro crediti e, se il debitore è insolvente, possono aggredire
lui e quello che resta del suo patrimonio e spartirselo tra loro. Nell’Antichità,
i debitori insolventi potevano essere messi sul lastrico e perfino ridotti in
schiavitù dai creditori insoddisfatti. Lo Stato, quando fallisce, si trova in
condizione analoga. Tanto più aumenta la sua “esposizione”, tanto meno è in
condizione di resistere alle richieste espropriative dei creditori, anche le
più pesanti e inimmaginabili. Abbiamo sorriso di Totò che vendeva ai turisti la
Fontana di Trevi. La realtà supera la fantasia, se è vero che, tra le possibili
garanzie dello Stato debitore, i creditori considerano imprese pubbliche,
isole, porti, ferrovie, monumenti, ecc. Quanto sarà valutato il Partenone e,
forse, per l’appunto la Fontana di Trevi? Le armi dei creditori sono la
promessa di salvezza e la minaccia di rovina, la carota e il bastone. Lo
scenario immediato è la fine della “liquidità” degli istituti di credito, il
panico tra i risparmiatori, l’impossibilità per lo Stato di pagare debiti,
stipendi, pensioni, la disperazione dilagante; a media scadenza, chiusure e
fallimenti d’imprese, disoccupazione, miseria. Chi potrebbe resistere alla
forza intimidatrice di una simile catastrofe annunciata e alla forza seduttiva
di qualunque prospettiva salvifica, fosse anche accompagnata da condizioni
iugulatorie? È quanto è toccato alla Grecia, con somma drammaticità ed
evidenza. Il premier ha chiesto al Parlamento il voto a favore di un insieme di
provvedimenti impostigli, ch’egli stesso dichiarava essere contrari al
programma politico col quale si era presentato alle elezioni, vincendole. Non
s’era mai vista così chiara, in Europa, una tale contraddizione. Egli era lì in
base alla forza conferitagli dal suo popolo, confermata in referendum, e doveva
smentire se stesso e riconoscere l’esistenza d’un’altra forza, alla quale non
poteva resistere. L’imposizione, che lo Spiegel ha definito “catalogo delle
atrocità”, comprende cose come le proprietà pubbliche, le misure di
alleggerimento del malessere sociale, l’abolizione della contrattazione
collettiva, il licenziamento di gruppo, le ipoteche su beni dello Stato, le
aliquote Iva, le pensioni, perfino il codice di procedura civile (per rendere
più efficace la liquidazione dei beni dei debitori insolventi). S’è detto, con
una certa superficialità: niente di sconvolgente.
giovedì 27 luglio 2017
Sfogliature. 81 “Della irresponsabilità e dell’ignavia”.
Nell’Italia dell’anno 2017 che
brucia nella “irresponsabilità e nell’ignavia”, che è assetata, che non ha
mezzi per difendersi da piromani ed affini, in questa disastrata Italia si ri-trova
spazio e (dis)interesse per discutere del ventennio nero e della necessità di
difendere quel che nel paese “della irresponsabilità e dell’ignavia”
viene definito la tutela della libertà di pensiero anche degli uomini in “orbace”.
Quale libero pensiero? E quale libertà? È come se si volesse incredibilmente,
oggi, tutelare il pensiero e l’istigazione di chi pensò ed attuò spietatamente
l’Olocausto. Possibile che si voglia tutelare il libero pensiero di chi incita –
o ha incitato - a compiere i misfatti più vergognosi? Ché anche in quel nero
ventennio di misfatti ne furono compiuti a iosa, all’ombra di una ideologia
senza remore e che ha lasciato segni terribili ed incancellabili anche a
distanza oramai di tanto tempo trascorso. Incancellabili dove? Incancellabili per
chi? Del resto è appena passato, nella indifferenza generale, quel “25
di luglio” dell’anno 1943 che sembrava dovesse segnare una
significativa svolta per l’asfittica vita politica e sociale del bel paese. Un nulla,
in verità. Poiché ci si ritrova, nell’Italia dei fuochi, a ridiscutere, come in
una commedia dell’assurdo, di libertà di pensiero, ché meglio sarebbe parlare “della
irresponsabilità e dell’ignavia” che caratterizza il vivere sociale e
politico del nostro tempo. È che l’aria che tira non è delle migliori per le
esauste democrazie dell’Occidente. Poiché riaffiora, in quello spazio di tutela
del pensiero pur che sia, la “voglia” dell’uomo forte, “voglia” che in questo
malandato paese è rimasta sotto traccia ma viva sempre e pronta a manifestarsi,
giusto come in questa torrida estate. Ne è più che convinto Marco Revelli che
in “Comandanti immaginari” di Davide
Turrini – sul mensile “FQ MILLENNIUM”
del mese di giugno – sostiene che “i cosiddetti uomini forti che nella nostra
temperie emergono come riferimenti sono in realtà deboli. Sono il prodotto e la
forma della crisi della politica. Sono figure di crisi, non di soluzione della
crisi. La fine della democrazia dei partiti, che avevano caratterizzato i cosiddetti
Trente gloriosus (1945-1975), un po’ come il sonno della ragione, genera
mostri. Mostri nel senso etimologico, latino del termine, monstrum, figure
spettacolari. La personalizzazione della politica vista come antidoto alla
crisi della democrazia è in realtà la malattia della democrazia. Cercare un dio
con la d maiuscola in cui identificare un noi che non c’è è un’apocalisse
culturale dal punto di vista democratico. Questi pseudo uomini forti si
affermano spettacolarizzando se stessi. Fenomeni da baraccone che compensano la
crisi di autorevolezza. La “sfogliatura” di oggi è del lunedì
31 di maggio dell’anno 2010: (…). «Quando il presidente del Reich si era
macchiato per la terza volta di violazione della Costituzione, molti
socialdemocratici, in gran segreto, si misero in guardia dal parlarne: - non
sfiorate l’argomento, dissero timorosi, altrimenti non esisterà nessuna remora
a violare la Costituzione. Se il popolo, o il Presidente del Reich venissero a
sapere che la Costituzione è già stata violata, non ci sarebbe più alcun monito
che tenga. Così invece noi possiamo ancora mettere in guardia dall’infrangere
la Costituzione -. Ragionando in questo modo e col sudore in fronte ad ogni
nuova violazione sostennero che non si trattava affatto di violazione. E,
quando la Costituzione non esistette più, violazioni costituzionali non erano
comunque ancora avvenute» (...). Così
ci ha lasciato scritto quel grande a nome Bertold Brecht nel Suo volume “ Le storie del signor Keuner “. La
cecità, la faciloneria, l’indifferenza dei tanti, tantissimi di questi giorni, il
pressapochismo familistico proprio di una larghissima fetta di italioti, potrebbero
costarci tanto, tantissimo, caro, carissimo. Allora, il tutto sfociò nella
tragedia orrenda del nazismo. Oggi, potrebbe il tutto sfociare in una nuova
farsa dagli esiti imprevedibili. Di seguito trascrivo, nella quasi sua
interezza, il colloquio tra il giornalista del quotidiano l’Unità Oreste
Pivetta e lo scrittore Marco Belpoliti. Tema del colloquio: le letture del
signor B – che benché padrone della più grande casa editrice del bel paese ha
avuto modo di bearsi e glorificarsi nel non aver letto, da un decennio almeno,
un libro che sia -, letture candidamente, si fa solo per dire, confessate in
quel di Parigi:
lunedì 24 luglio 2017
Quodlibet. 10 “Una lunga regressione politica”.
Sostiene Marco Revelli in “Comandanti immaginari” di Davide Turrini – sul mensile “Millennium”
del mese di giugno 2017 - che “la spinta populista accompagna e accelera
la rottura dei grandi contenitori politici che erano i partiti di massa: da un
lato gli ex dirigenti dei partiti popolari o di sinistra si sono identificati
con le élite del capitale, dall’altro la fluidità dell’elettorato accelera lo
sfarinamento delle culture politiche che stabilivano valori comuni e
responsabilità condivise”. Da “L’ultimo
atto di una lunga regressione politica”, colloquio di Silvia Truzzi con il
professor Gaetano Azzariti, professore di
Diritto costituzionale alla Università Sapienza di Roma, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 24 di luglio dell’anno 2014: (…). - M’infastidisce molto che
le obiezioni dei ‘professoroni’ non vengano mai prese in considerazione nel
merito. C’è una strategia di delegittimazione di tutte le riflessioni critiche.
Chi prova ad alzare la mano e obiettare, è liquidato come gufo, professorone,
conservatore, o addirittura come allucinato. Ma come si fa a discutere di
riforme costituzionali in questi termini? L’opinione pubblica dovrebbe essere
messa nelle condizioni di capire e decidere. Non ha alcun senso porre i termini
della questione come una contrapposizione tra bene e male. Questa logica è
contraria ai principi liberali. Hans Kelsen – il più grande giurista del
Novecento, il maggiore studioso del sistema parlamentare – ha detto che il
Parlamento è il luogo del compromesso. Dove per compromesso s’intende un
accordo che nasce dal confronto e dalla mediazione. Qui il punto è che non si
cerca alcun compromesso, si vuol semplicemente fare una prova di forza,
contrapporre una parte a un’altra -.
Metodo sbagliato: le riforme costituzionali
sono il compromesso più alto. - Renzi dice: abbiamo allargato la maggioranza. È
certamente vero, visto che i pilastri di questa riforma sono il Pd e Forza
Italia. Ma ciò non toglie che questa, per come stanno procedendo i lavori, è la
riforma dei vincitori contro i vinti. Un altro grande, maledetto, giurista del
Novecento, Carl Schmitt, diceva: la Costituzione è l’atto dei vincitori sui
vinti. Ecco, qui si sta facendo una guerra cercando di imporre una Costituzione
di alcuni contro altri. Non è accettabile -.
Parliamo del merito. - Non piace il termine
“svolta autoritaria”? Bene usiamo allora questa formula: lunga regressione.
Continuano a sottolineare l’innovazione, la svolta, il presunto cambio di
passo. In realtà questa riforma è fortemente conservatrice: tende a dare una
forma stabile – a livello costituzionale – alla lunga regressione che ha
qualificato l’ultimo ventennio politico, contrassegnato da una forte
verticalizzazione del potere. Non è questo un punto di vista, la lunga
regressione è rilevabile nei fatti. Basta pensare all’abuso della decretazione
d’urgenza e quindi alla concentrazione del potere nelle mani del governo a
scapito del Parlamento. Il Parlamento è stato svuotato, ridotto ai minimi
termini, posto al servizio del governo. Gran parte del lavoro delle Camere si
realizza nella conversione dei decreti governativi e nella ratifica dei
trattati internazionali. In Parlamento il governo, grazie anche ai regolamenti
d’aula, ha assunto un potere esorbitante -.
sabato 22 luglio 2017
Primapagina. 42 “Lo strabismo di Renzi”.
Da “Il
sentiero stretto e i consigli strabici” di Fabio Bogo, pubblicato sul
settimanale “A&F” del 17 di luglio 2017: Abbandonato il posto di comando a
Palazzo Chigi, Matteo Renzi si muove da azionista di maggioranza dell’azienda
guidata da Paolo Gentiloni: come segretario del Pd l’ex premier traccia linee
guida in campo economico e tira le orecchie a tutti . È stato il caso del
Fiscal Compact, che Renzi vuole ridiscutere minacciando veti. Le risposte di
Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda: «È materia della prossima legislatura».
Pensiero implicito: e quindi del prossimo capo del governo. La pensa così anche
Bruxelles, che ha fatto sapere che le trattative su questo e altre proposte
avvengono comunque a livello di istituzioni. Il segretario di un partito ancora
non lo è. Ed è il caso anche dell’ipotesi di ridurre le tasse, tema caro a
Renzi. Sempre Padoan ha sillabato: «Se lo spazio fiscale è limitato bisogna
valutare come usarlo; non sempre le tasse hanno gli stessi effetti su crescita
e occupazione», perchè «il sentiero è stretto». Altro intervento a gamba tesa,
rivolto al passato ma con riflessi per il futuro, contro la Banca d’Italia.
«Sulla vicenda delle banche – ha detto Renzi - ho commesso degli errori, uno
dei quali è stato quello di affidarmi quasi totalmente alle valutazioni e alle
considerazioni della Banca d’Italia, rispettosi della solida tradizione di
questa prestigiosa istituzione». Si poteva fare meglio, in sostanza. E sul
capitolo banche forse – ha detto ancora l’ex premier - «avremmo dovuto fare
qualche cosa di diverso, facendo un team ad hoc appena arrivati al governo».
Tra tutte l’ultima indicazione è la più singolare, sintomo di uno strabismo
nelle valutazioni. Perchè di team in realtà Renzi a Palazzo Chigi ne ha avuti
diversi, ma non hanno resistito a lungo. Andrea Guerra, uno dei nomi spesi
all’inizio del mandato, è durato pochi mesi e poi ha preferito tornare ad
occuparsi di aziende con Eataly. Tommaso Nannicini, sottosegretario e responsabile
del programma economico del Pd, è emigrato da Palazzo Chigi ad Harvard, e lo
stesso ha fatto Filippo Taddei che ha lasciato il partito del segretario per
andarsene alla Columbia University. Prima avevano mollato gli ormeggi Carlo
Cottarelli, ereditato dal precedente governo come commissario alla spending
review (destinazione Fmi) e il suo successore Roberto Perotti, che nel novembre
2015 è tornato deluso agli incarichi universitari. Un esodo di cervelli che ha
assottigliato la schiera dei risolutivi consulenti. Perché gli economisti sono
gente concreta. Esperti di teorie e scenari, se chiamati dalla politica
gradirebbero magari provare a tradurre le loro ricette in fatti, ed evitare le
facili suggestioni. Tipo quelle che davano Jp Morgan padrone della situazione
del Monte dei Paschi o il Qatar pronto a intervenire nello stesso Mps e poi in
Alitalia. Per la cronaca, Mps è stato nazionalizzato dopo che si è perso tempo
prezioso e Alitalia, commissariata, sta ancora aspettando il partner-salvatore.
Se in questi casi sono intervenuti consulenti, vuol dire che il loro consiglio
valeva davvero poco.
lunedì 17 luglio 2017
Paginatre. 93 “Fellini visto da Villaggio”.
Da “Io, da
Fantozzi a Fellini”, incontro di Ottavio Cirio Zanetti con Paolo Villaggio pubblicato sul
settimanale “L’Espresso” del 9 di luglio 2017: «C’è una sola persona al mondo che
io ho conosciuto e che è riconoscibile solo per il nome. Dovunque nel mondo,
basta dire Federico, è lui, l’unico, irripetibile: Federico non può che essere
Federico Fellini. Scola ci ha fatto anche un film, Che strano chiamarsi
Federico. Quando ho conosciuto Federico, non ho conosciuto una persona, ma ho
riconosciuto quello che potevo immaginare e sapevo di Federico Fellini. Cioè un
grande affabulatore, molto simpatico, vanitoso, bugiardo, e ne è nata subito
un’amicizia. Cioè, sia chiaro, c’è stato uno scontro tra due logorroici
incredibili; alla fine però ho capito per la prima volta nella vita (io sono
presuntuoso, ho sempre avuto la quasi certezza di essere superiore per quello
che riguarda la brillantezza del discorso, anche l’ironia cattiva di tipo anglosassone)
beh, ho capito che lui dopo in po’ mi distanziava e rimanevo a bocca aperta ad
ascoltare quella frenesia che lo prendeva quando cominciava ad affabulare». (…).
A ognuno il suo Rex. «In 8 1/2 c’è ad un
certo punto una frase magica: “Asa Nisi Masa”. Era una cosa che diceva la nonna
di Federico che mi ricordato con violenza che c’erano delle cose che anche la
mia nonna diceva: una frase veneziana, per esempio, mia nonna era veneziana:
“alla moda del piombo”. Questa frase ha un significato preciso: fare al meglio
le cose che devi fare. “Alla moda del piombo” voleva dire: nel modo migliore.
Ma tutto in Fellini è evocazione dell’infanzia. Nella notte in cui in Amarcord
aspettano di fronte a Rimini, nelle barche, il passaggio del Rex che da Trieste
andava fino a Genova e poi in America vincendo il famoso nastro azzurro (che
era la decorazione per l’attraversamento dell’ Atlantico) il Rex è visto in una
maniera che avevo dimenticato completamente. Una mattina verso le 11 con la
nonna veneziana e con mio fratello gemello sono alla foce del fiume Foce di
Genova. Ad un certo momento sento “uuuuuuuuuh” (fa il l’imitazione della sirena
di una nave) come degli strani nitriti. A quei tempi le reti si portavano al
largo con i gozzi, si buttavano le reti e poi dato che era un lavoro faticoso,
da terra due cavall,i uno da una parte e uno dall’altra, trascinavano le reti fino
sulla spiaggia. Sulla spiaggia si vedevano le donne e c’era questo odore di
pesce e di cavallo. E qui comincia il momento del ricordo che avevo
completamente accantonat : la misura del Rex. Nel film si sente urlare “il Rex,
il Rex !”, si svegliano tutti perché era l’alba, il sole non era ancora sorto.
Invece nel mio passaggio del Rex il sole stava calando, c’era la stessa luce
magica , da sogno, che non è la realtà, e mentre annusavo quell odore ho
sentito gridare: “il Rex, oh belin, c’è il Rex!” e tutti a correre verso il
bagnasciuga con i sandali, erano dei sandali con dei buchi, io mio fratello e
la nonna rimasta un po’ indietro che gridava: “Attenzione alle scarpe!”. Noi
invece siamo entrati quasi con i piedi in acqua ed è comparso il Rex, lo stesso
Rex che avevo dimenticato. Compare improvvisamente da dietro la diga foranea
(la grande diga protettiva dei porti italiani e francesi del Mediterraneo),
compare una montagna nera, alta mille metri, questa è stata l’impressione,
questo è il ricordo ed è quello che mi ha restituito Fellini. Quell’immagine
dimenticata lui me l’ha fatta rivedere e riscoprire». (…).
Tre inquadrature, ed è subito Fellini. «Ho
cominciato col dirti che basta dire Federico ed è subito Fellini. Per come
raccontava i suoi film, con un segno completamente diverso da tutti gli altri,
era unico, irripetibile. Dunque, tu vai a vedere in un cinematografo di Los
Angeles con effetti speciali, magari con gli odori, forse esagero, lo sbarco in
Normandia, ti siedi e cominciano, già pronto a stupirti, magari è Spielberg e
vedi inquadrature che sono fatte da dieci elicotteri e poi ripetute con effetti
speciali e poi intrappolate da montagne, vedi che ci sono almeno dieci macchine
da presa, non riconosci Spielberg se tu non sai che è Spielberg, lo vedi e
dici: però, insomma,sono americani. Entri e vedi Satyricon, non sai che è un
film di Fellini, ma bastano tre inquadrature, ecco, è lui cioè lui è
riconoscibile sempre e comunque fin dalle prime inquadrature. Dai primi tre
minuti capisci che il suo è un modo di raccontare completamene diverso, viene
da un’altra dimensione, non è quella abituale, non è il mestiere che conosci:
perché lui il mestiere lo viveva in uno stato di semitrance, mentre girava».
giovedì 13 luglio 2017
Quodlibet. 9 “Renzi non era all’altezza di fare il Renzi”.
Dell’appena scomparso Oliviero Beha ri-leggiamo “Vent’anni o pochi mesi: le parabole degli
ultimi premier”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 13 di luglio dell’anno
2016: (…). Renzi che parte per rottamare quattro anni fa non ha nulla
all’apparenza del Renzi traballante di oggi. Forse fin dall’inizio (“Si diventa
solo ciò che si è”, parafrasi personale di Nietzche) era poco più di un fuoco
di paglia, forse la realtà politica e sociale di paglia del Paese gli ha preso
fuoco e lui sentiva solo un po’ caldo. Ossia Renzi non era all’altezza di fare
il Renzi, nel bene come nel male, e questa sua condizione mi pareva chiara da
tempo. Mille volte è stato tradotto nell’erede di Berlusconi per una serie di
ragioni antropodemocristiane che non sto a riassumere, pur essendo Silvio
essenzialmente un uomo d’affari e Matteo un uomo di potere. Differenza che non
avrebbe affatto impedito a Berlusconi di guidare ai tempi i Ds, se
sapientemente glielo avessero chiesto invece di
semplicemente inciuciarci, o a Renzi di fare carriera in Forza Italia o
altro nome in ditta senza farsi appesantire da pregiudizi ideologici. Ma l’arco
discendente del Fiorentino ha moltissimo in comune oggettivamente con la
traiettoria a “pallonetto” di Berlusconi. Certo, la prima si è concentrata in
pochissimo tempo mentre la seconda si è sviluppata in un ventennio un po’
arrotondato, con dentro un paio d’etti di Prodi, una spruzzata di D’Alema, un
pizzico ma proprio poco di Amato. Ascesa folgorante, graduale dissolvimento del
“principio di realtà” per cui si perde il contatto con il Paese, tramonto,
occaso, rotta. Magari con la distinzione nell’analogia che Berlusconi pur
maldestramente ha segnato un pezzo di storia, il Nostro un po’ di mesi di
cronaca. Ma le assonanze non finiscono qui, e proprio da qui dovrebbe iniziare
un’autentica preoccupazione degli italiani, che votino “no” al referendum
costituzionale come vorrebbe non l’antirenzismo calcistico ma un minimo di buon
senso applicato, oppure “sì” per favorire la “governabilità” (ma dove, ma
quando, ma per far che ridotti come siamo?). Durante l’era berlusconiana (…)
abbattere il il Berlusca non sarebbe bastato a risanare il Paese, guasto da
tanti, troppi punti di vista (cfr.per tutti “Dopo di lui il diluvio”, 2011).
Giustamente di tale discorso non è fregato nulla a nessuno. Ci riprovo,
perversamente. Siamo sicuri che dire no al referendum e a Renzi sia sufficiente
a scuotere e riscuotere un Paese in questo coma, per certi aspetti soprattutto
culturale e solo dopo politico e sociale (mentre mancano i soldi, perché chi
può se li ruba, lo so…)? Non varrebbe la pena di prefigurarsi un domani per non
ritrovarsi addirittura peggio, ipotesi che vi scandalizzerà ma è successo con
Berlusconi e a Roma si dice che “il peggio non è morto mai”? Così, un po’ per
celia un po’ per non morire, votiamo “no” ma facciamo anche altro per non
ricadere in un dopo-Renzi che rispecchi il dopo-Berlusconi. Un Titanic dopo
l’altro, non solo come rischio nelle urne…
Iscriviti a:
Post (Atom)