Del tempo dei “mediocri” al potere ce ne rendeva
una plastica, pietosa rappresentazione il compianto Alberto Statera che sul
settimanale “A&F” del 10 di aprile dell’anno 2016 andava scrivendo nel Suo intramontabile,
magistrale come sempre, “pezzo” che ha per titolo “Renzi e la scelta di una squadra senza qualità”: È di
pessimo gusto maramaldeggiare, come alcuni stanno facendo, su Federica Guidi
che si è dimessa da ministro dello Sviluppo economico per la desolante vicenda
del petrolio in Basilicata. Ma la sua vicenda è la storia di un modo di
governare invalso negli ultimi due anni con il governo di Matteo Renzi. Non il
governo dei migliori, ma il governo delle personalità deboli, inadeguate,
incapaci, incolte di politica, scelte appunto per la loro mediocrità. Fantasmi
che affollano il personale deserto decisionale del premier senza reali deleghe,
affollato però spesso in ruoli ambigui da vecchi sodali, parenti e affini
toscani, fino a costruire una torre barocca di inefficienza. (…). Ma, (…), il problema non è tanto la
Guidi, quanto il ruolo generalmente docile, a dir poco, di gran parte dei
ministri della repubblica in carica. Fino a pochi giorni fa se telefonavi al
ministero dello Sviluppo economico per qualunque cosa ti sentivi rispondere di
rivolgerti a palazzo Chigi. E chi credete che si sia occupato direttamente di
Alitalia, Ilva, Sblocca Italia e degli altri dossier importanti? Non certo l’ex
ministro dell’Industria. L’unico ministro che all’atto dell’insediamento ebbe
uno sprazzo di sincerità fu Marianna Madia, classe 1980, che – forse aiutata da
qualcuno nella scelta delle parole – certificò: “Porto in dote la mia
straordinaria incompetenza”. Si è visto che aveva ragione. Quanto a Maria Elena
Boschi se ne è parlato pure troppo, per lei bastano perciò due parole
pronunciate da Massimo Cacciari a chi gli chiedeva un giudizio: “Sarò
misericordioso”. E tacque. Tra gli ectoplasmi ministeriali non si può non
citare Stefania Giannini. Ma anche per evitare accuse di sessismo, la lista si
può ben allungare al maschile: per cominciare, da Gian Luca Galletti, ministro
dell’Ambiente, dal ministro dei Beni Culturali Enrico Franceschini, succube di
Salvo Nastasi, vice segretario generale di Renzi a palazzo Chigi e commissario
per Bagnoli, che il premier avrebbe voluto sindaco di Napoli. E che dire del
ministro dell’Interno Angelino Alfano? Viene in mente Diego Della Valle che una
volta disse: “Ho incontrato cinque ministri, di cui due bravi e tre emeriti
deficienti.” Le riunioni del Consiglio dei ministri, se si potesse origliare,
devono essere uno spettacolino da non perdere: cinque minuti e via. Il
presidente pontifica, il povero Galletti prova quasi sempre a dire qualche
parola, ma viene subito zittito. E tutti a casa. Povera Guidi, stavolta è
toccata a lei, ma il problema è un altro: se una squadra senza un leader non è
un bene – ha segnalato Eugenio Scalfari – un leader senza squadra è peggio.
Per non dimenticare mai ad imperitura memoria quel ministro della istruzione,
della università e della ricerca – l’avvocato Mariastella Gelmini - che al
tempo andato dell’egoarca di Arcore era riuscita a scavare con i fondi del suo
ministero – e ne menava vanto sulla Rete: “Alla costruzione del tunnel tra il Cern ed
i laboratori del Gran Sasso attraverso il quale si è svolto l’esperimento, l’Italia
ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di
euro”, riportato su “La Stampa” del 24 di settembre dell’anno 2011 - un
tunnel dalla Svizzera del Cern – l’acceleratore di particelle – al Gran Sasso giusto
per rendere più veloce quell’accelerazione. Cose da matti? No, da inadeguati. O
da “mediocri”?
E poi c’è stato il pietoso caso del Giuliano Poletti che la dice tutta sulla
inadeguatezza del personale politico al tempo dei “mediocri” al potere. Ma
dov’è che la inadeguatezza di quella “accozzaglia”, così accuratamente e
colpevolmente scelta, si salda con la mediocrità dei restanti esseri umani? È
pur certo che al potere “tout court”, come il “potere” vissuto nel ventennio
dell’egoarca di Arcore sino al “potere” imposto dall’uomo venuto da Rignano
sull’Arno, circondarsi di inadeguati ma ancor più di “mediocri” è stato funzionale
ed ha rappresentato l’esatta immagine della mediocrità che sembra
universalmente dominare e che è molto utile al “mediocre” dominante. È per tale
motivo che i Poletti e soci – ed in passato i già nominati - trovano gli spazi
per occupare indebitamente gli scranni del “potere” del “mediocre-capo” di
turno.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 31 gennaio 2017
lunedì 30 gennaio 2017
Paginatre. 65 “Profezie. L’eurozona in dieci anni sparirà”.
Da “L’eurozona
in dieci anni sparirà se ora non siamo capaci di agire”, intervista di
Carlos Yarnoz al ministro francese titolare dell’Economia Emmanuel Macron, pubblicata
sul quotidiano la Repubblica del 10 di luglio dell’anno 2015: (…). Dopo
11 mesi al ministero dell’Economia, e con i suoi 37 anni di età, pensa che
continuerà a far politica? «Mi piace quello che faccio, che è cambiare tante
cose. Questa tappa mi dà l’opportunità di cambiare linee di lavoro, di
riformare e di tentare anche una rinnovazione ideologica della sinistra in
Europa. Mi interessa un’apertura, una modernizzazione, una trasformazione
ideologica della sinistra».
Qual è oggi il ruolo di questa sinistra? «Essere
di sinistra, essere socialdemocratico, significa essere in grado di
modernizzare l’economia dando importanza alla giustizia sociale. Nel caso della
Francia apportare investimenti adeguati, mantenere l’occupazione, eliminare i
blocchi».
Il Partito socialista sta cambiando? «È
quello che spero».
Da socialdemocratico a social-liberale? «Io
spero che si trasformi in socialdemocratico ».
I suoi critici dicono che lei è liberale. «Le
etichette contano poco, mi lasciano indifferente. E io mi assumo le
responsabilità fino in fondo. Non bisogna stare nell’ambiguità. Il liberalismo
politico è un elemento della sinistra. La sinistra è il partito
dell’emancipazione e della libertà, in coordinamento con la solidarietà.
Altrimenti, la sinistra si trasforma in un partito conservatore».
Come descriverebbe la situazione in Europa? «L’Europa
vive un momento di verità storica. Nei nostri Paesi, perché dobbiamo fare
riforme. Per noi stessi e per l’Europa. In Francia certamente. Senza una
Francia forte, non ci sarà una politica europea costruttiva di livello. È il
momento della verità perché la zona euro mette a nudo le ambiguità che furono
accettate dieci anni fa».
Le ambiguità della moneta unica. «Sì,
abbiamo condiviso una moneta mentre le divergenze economiche si allargavano. Le
nostre economie si sono allontanate, così come i nostri popoli. Dopo il no di
Francia e Olanda alla Costituzione europea, dieci anni fa, non ci sono stati
progressi significativi nell’Unione Europea. La crisi greca è il sintomo di un
problema molto più profondo. Il sintomo che la zona euro non ha i mezzi per
arrivare fino in fondo. Non ha creato i meccanismi di solidarietà che devono
accompagnarsi a una zona monetaria. È un progetto politico che ha finito per
essere solo un’area valutaria. Abbiamo messo in grande pericolo l’Eurozona.
L’uscita dall’euro della Grecia non sarebbe solo un errore economico, ma anche
politico. Non fare tutto il possibile perché la Grecia resti nella zona euro
equivale ad accettare una retrocessione dell’Europa».
E Syriza come ha gestito il problema? «In
Francia c’è una visione romantica. Il discorso della solidarietà dev’essere
accompagnato da quello della responsabilità. Dobbiamo affrontare le radici,
l’origine del problema della moneta unica. Per questo ho fatto delle proposte
insieme al ministro tedesco Sigmar Gabriel. Abbiamo proposto dei percorsi.
Soprattutto c’è bisogno di un programma di convergenza dell’economia, del
fisco, del mercato del lavoro, c’è bisogno di un modello sociale, di politiche
di solidarietà».
domenica 29 gennaio 2017
Primapagina. 25 “Porcellinum et Consultellum”.
Da “Vade
retro porcellinum” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
del 28 di gennaio 2017: (…). Da prevedibile, il risultato (elettorale
n.d.r.) divenne matematicamente certo nel 2006 con il Porcellum, che consegnò a
quattro-cinque leader il potere di vita o di morte sugli eletti grazie alle liste
bloccate: l’elettore andava alle urne a barrare il simbolo del partito, ma i
parlamentari erano già stati decisi prima, nelle segrete stanze, al momento di
compilare le liste (chi era nei primi posti era eletto di sicuro, senza nemmeno
disturbarsi a far campagna elettorale per raccogliere consensi; chi era in
fondo, anche se popolarissimo, non aveva alcuna chance). Quella sconcezza durò
fino al gennaio 2014, quando la Consulta svuotò il Porcellum, comprese le liste
bloccate, e diede vita a colpi di bisturi al “Consultellum”: un proporzionale
puro a preferenza unica, il sistema più rispettoso del diritto dei cittadini a
scegliersi i propri rappresentanti (al netto dei voti comprati o scambiati, si
capisce). Poi arrivò l’Italicum, che riconsegnava ai capipartito il potere di
nominarsi i deputati più fedeli e di escludere quelli liberi (la legge valeva
solo per la Camera, nella speranza che al referendum costituzionale gli
elettori abolissero le elezioni del Senato). Il partito più votato al primo
turno (se superava il 40%) o al secondo (se vinceva il ballottaggio), portava a
casa 340 deputati su 630, di cui 100 erano capilista bloccati. Cioè non eletti
con le preferenze, ma nominati dai leader piazzandoli al primo posto in
ciascuno dei 100 collegi. Tutti gli altri partiti, dal secondo in giù,
avrebbero portato a Montecitorio quasi solo capilista bloccati (260) e
pochissimi eletti (una trentina). Totale dei nominati: circa 360 su 630 (il
60%). Più, ovviamente, tutti i senatori, che la “riforma” Boschi faceva
nominare ai Consigli regionali. Il 4 dicembre gli italiani han detto no ai
senatori nominati e sì al Senato elettivo (col Consultellum). E ora la Consulta
ha bocciato l’Italicum per la Camera, ma non in tutte le parti platealmente
illegittime in base alla sua sentenza sul Porcellum: via il ballottaggio tra
liste senza soglia (unico al mondo), restano sia i capilista bloccati sia le
pluricandidature (con un comico sorteggio per decidere in quale dei 10 collegi
risulterà eletto il pluricandidato). Una doppia negazione del sacrosanto
diritto degli elettori – sancito dalla stessa Consulta nel 2014 – di scegliersi
i propri rappresentanti. 1) Ai capilista bloccati non si può dare la
preferenza, dunque andranno a Montecitorio anche se nessun elettore li avrebbe mai
votati. 2) Se io voto il partito X che si presenta col capolista bloccato
Tizio, a sua volta piazzato in altri nove collegi, io so che Tizio approderà
alla Camera in automatico, all’insaputa degli elettori; ma non so se il mio
voto al partito X porterà alla sua elezione o se invece il sorteggio lo farà
passare in uno degli altri collegi, propiziando nel mio l’elezione del
candidato Caio con più preferenze. Il risultato, (…), è devastante: col
Porcellinum della Consulta, i deputati nominati saranno ancor più di quelli
dell’Italicum: il premio del 40% non scatterà mai, così si ridurranno i
deputati del primo partito e aumenteranno quelli degli altri. In base ai
sondaggi che li danno appaiati al 30%, M5S e Pd avranno circa 200 deputati
ciascuno (100 capilista bloccati e 100 eletti con le preferenze) e gli altri si
spartiranno i restanti 230 (quasi tutti capilista bloccati). Così i nominati,
dai 360 dell’Italicum, saliranno alla cifra ancor più spaventosa di circa 450
(dal 60 al 75%).
sabato 28 gennaio 2017
Paginatre. 64 “McLuhan, Hugo, Bezos, Buffett e le tigri di carta”.
Da “Chi ha
paura delle tigri di carta?” di
Umberto Eco, riportato in “Pape Satàn Aleppe” – “La nave di Teseo” Editrice
(2016), pagg. 469, € 20 – alle pagine 374-376: Agli inizi degli anni Sessanta
Marshall McLuhan aveva annunciato alcuni cambiamenti profondi nel nostro modo
di pensare e di comunicare. Una delle sue intuizioni era che stavamo entrando
in un villaggio globale e certamente nell’universo di Internet si sono avverate
molte delle sue previsioni. Ma, dopo aver analizzato l’influenza della stampa
sull’evoluzione della cultura e della nostra stessa sensibilità individuale con
“La galassia Gutenberg”, McLuhan aveva annunciato, con “Understanding Media” e
altre opere, il tramonto della linearità alfabetica e il predominio
dell’immagine - ciò che, ipersemplificando, i mezzi di massa avevano tradotto
come “non si leggerà più, si guarderà la tv (o le immagini stroboscopiche in
discoteca)”. Mcluhan muore nel 1980, proprio mentre
stanno facendo il loro ingresso nel mondo di tutti i giorni i personal computer
(ne appaiono modelli poco più che sperimentali alla fine dei Settanta, ma il
mercato di massa inizia nel 1981 con il Pc Ibm), e se fosse vissuto qualche
anno in più avrebbe dovuto ammettere che, in un mondo apparentemente dominato
dall’immagine, si stava affermando una nuova civiltà alfabetica: con un
personal computer o sai leggere e scrivere, o non combini un gran che. È vero
che i bambini d’oggi sanno usare un iPad anche in età prescolare, ma tutta
l’informazione che riceviamo via Internet, e-mail e Sms, sono basati su
conoscenze alfabetiche. Col computer si è perfezionata la situazione
preconizzata nel “Nostra Signora di Parigi” di Hugo dal canonico Frollo il quale,
indicando prima un libro e poi la cattedrale che vedeva dalla finestra, ricca
di immagini e altri simboli visivi, diceva «questo ucciderà quello». Il
computer certamente si è dimostrato strumento da villaggio globale con i suoi
link multimediali, ed è capace di far rivivere anche il “quello” della
cattedrale gotica, ma si regge fondamentalmente su principi neo-gutenberghiani.
Ritornato
l’alfabeto, con l’invenzione degli e-book si è però profilata la possibilità di
leggere testi alfabetici non sulla carta ma su uno schermo; da cui una nuova
serie di profezie sulla scomparsa del libro e del giornale (in parte suggerita
da alcune flessioni nelle vendite). Così uno degli sport preferiti di ogni
giornalista privo di fantasia è da anni domandare a uomini di penna come vedono
la scomparsa del supporto cartaceo. E non basta sostenere che il libro riveste
ancora un’importanza fondamentale per il trasporto e la conservazione
dell’informazione, che abbiamo la prova scientifica che sono meravigliosamente
sopravvissuti libri stampati cinquecento anni fa, mentre non abbiamo prove
scientifiche per sostenere che i supporti magnetici attualmente in uso possano
sopravvivere più di dieci anni (né possiamo verificarlo, dato che i computer di
oggi non leggono più un floppy disk degli anni Ottanta). Ora
però ecco alcuni avvenimenti sconcertanti di cui hanno dato notizia i giornali,
ma di cui non abbiamo ancora colto il significato e le conseguenze. Ad agosto
Jeff Bezos, quello di Amazon, si è comprato il “Washington Post” e, mentre si
conclama il declino del quotidiano di carta, Warren Buffett di recente ha
collezionato ben 63 quotidiani locali. Come osservava recentemente Federico
Rampini su “Repubblica”, Buffett è un gigante della Old Economy e non è un
innovatore, ma ha un acume raro per le opportunità d’investimento. E pare che
verso i quotidiani si muovano anche altri pescecani della Silicon Valley.
Rampini
si chiedeva se il botto finale non lo faranno Bill Gates o Mark Zuckerberg
comprandosi il “New York Times”. Anche se questo non avverrà, è chiaro che il
mondo del digitale sta riscoprendo la carta. Calcolo commerciale, speculazione
politica, desiderio di preservare la stampa come presidio democratico? Non mi
sento ancora di tentare alcuna interpretazione del fatto. Mi pare però
interessante che si assista a un altro ribaltamento delle profezie. Forse Mao
aveva torto: prendete sul serio le tigri di carta.
venerdì 27 gennaio 2017
Eventi. 22 “Il campo Ferramonti”.
Nel ciarpame televisivo imperante
un raggio di luce è spuntato ieri sera, 26 di gennaio, sulla televisione
deputata a servizio pubblico. Si proponeva alle ore 20.30, su Rai5-Tv, “Serata colorata”. Ove si narrava del
campo di Ferramonti sito nel comune di Tarsia in provincia di Cosenza. Un “evento”
che straordinario è dir poco, considerato l’inesistente spessore culturale al
quale le televisioni – tutte - si sono votate in massa e da tempo. Poiché in
quel campo, si è narrato, aveva trovato trionfo l’umanità, ovvero l’umanità più
vera, senza particolarismi che siano di religione o di appartenenza a supposte,
inventate “razze” umane. In quel campo lì – che rende onore ad una terra che
continua ad accogliere il “diverso”, lo “straniero” - furono rinchiusi, negli
anni successivi alla entrata in guerra dell’Italia “fascista”, il fior fiore
della intelligenza europea, intelligenza viva e creatrice soprattutto nel campo
musicale. E la serata proposta prendeva a titolo quello di una composizione musicale
ritrovata, alla fine di quella guerra, in quel campo, “Serata colorata” per l’appunto.
Ne è venuta fuori, dalle letture
di Peppe Servillo, la rappresentazione di una umanità autoctona – contadini,
braccianti, sacerdoti, guardie carcerarie, burocrati, medici - che in barba ad
un ventennio di soffocante indottrinamento è stata, pur nelle sue miserevoli
condizioni economiche e sociali, dalla parte dei reclusi, musicisti, ingegneri
e quant’altro l’intelligenza europea era a quel tempo riuscita a far nascere. Un
appuntamento straordinario, dicevo, che di certo non avrà goduto della presenza
del grande pubblico televisivo indirizzato ed attratto per e da ben altro
intrattenimento. Sol che si pensi all’atto eroico ultimo compiuto dal direttore
di quel campo che, all’approssimarsi delle colonne tedesche in disordinata risalita
lungo lo stivale d’Italia, esponeva una bandiera gialla ad indicare una
inesistente epidemia di colera, atto che consentì di salvare il “campo
Ferramonti” ed i suoi preziosissimi, amatissimi “ospiti”. Una straordinaria
storia di varia umanità, nel dilagare dell’orrore e della morte che, nella
giornata odierna, ricordiamo come “Giornata Della Memoria”, “giornata”
che dobbiamo alla tenace azione di Furio Colombo, allora deputato, affinché il
27 di gennaio divenisse momento di attenzione e di necessaria riflessiva “memoria”.
Una testimonianza di quanto lugubre sia stato quel tempo che oggi si ricorda ci
viene da “Milano-Auschwitz” di Furio
Colombo, pubblicata su “il Fatto Quotidiano“ del 27 di gennaio dell’anno 2010:
mercoledì 25 gennaio 2017
Scriptamanent. 66 “La linea d’ombra del comando”.
Da “La linea d’ombra del comando” di Barbara Spinelli, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica, del 25 di gennaio dell’anno 2012: Ci
viene spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e
quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest'arte ruvida, che in
democrazia è sempre guardata con un po' di diffidenza, quasi fosse arte legale
ma non del tutto legittima.
martedì 24 gennaio 2017
Scriptamanent. 65 “Sentimenti liquidi in tempi duri”.
Da “Sentimenti
liquidi in tempi duri” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D”
del 24 di gennaio dell’anno 2015: (...). Bauman definisce "liquida" la nostra società perché
sono venuti meno i punti di riferimento fondamentali che le davano forma e
struttura, e al loro posto è subentrata una totale libertà dell'individuo che
può scegliere il proprio stile di vita a prescindere da usi, costumi e
tradizioni, fino al nuovo modo di intendere la libertà come possibilità di
revocare tutte le scelte, e di non attenersi ai valori alla base delle società
tradizionali antecedenti alla globalizzazione. Quello che dice Bauman è vero
solo perché il sociologo polacco "constata", senza chiedersi le
ragioni di ciò che constata. Ebbene a mio parere la nostra società s'è fatta
"liquida" perché, senza che nessuno se ne accorgesse, una massiccia
colata di cemento ha imbrigliato tutta l'acqua in una diga, disseccando il
letto del fiume in cui l'acqua scorreva. Questa colata di cemento si chiama
"razionalità tecnica" che prevede si compiano solo azioni capaci di
raggiungere lo scopo con l'impiego minimo dei mezzi. Tutto ciò che fuoriesce da
questo tipo di razionalità è considerato superfluo, insignificante,
improduttivo, inutile quando non fattore di intralcio, e quindi da contenere o,
meglio sarebbe, eliminare. Lo constata chiunque lavori in un apparato sia
pubblico che privato dove il mansionario fissa gli obiettivi, e ogni anno si
alza l'asticella per raggiungere, come si diceva, il massimo dei risultati con
l'impiego minimo dei tempi e dei mezzi. Regolati dalla razionalità tecnica, il
nostro riconoscimento non è più affidato al nostro nome, ma alla nostra
funzione, e la misura ci è data dall'avanzamento in carriera da cui dipende la
stima che gli altri, ma soprattutto noi stessi finiamo per avere di noi. Il
riconoscimento dell'apparato è il fondamento della nostra identità e anche
della nostra libertà, che non è più una libertà personale, ma una libertà di
ruolo. Siamo tanto più liberi quanti più ruoli sappiamo rivestire nello
scenario lavorativo e produttivo che gli apparati hanno dispiegato per noi. La
morale tradizionale che regolava i costumi dei nostri padri e dei nostri nonni
non ha più ragione d'essere, perché è subentrata una regola ben più ferrea della
morale, la regola della razionalità tecnica che, a differenza della morale
tradizionale, non prevede il perdono per le deroghe e le trasgressioni, ma nel
caso del lavoro il licenziamento, la perdita del ruolo, e alla fine
l'emarginazione sociale. La chiamiamo "liquida", questa società dove
ciascuno all'apparenza fa quel che "vuole", quando per cinque giorni
alla settimana fa rigorosamente quel che "deve" e nei giorni festivi
quel che "può"? La razionalità tecnica, che impone uno stile
efficiente, produttivo, utilitaristico, ottimizzante nei suoi risultati,
confligge radicalmente col mondo della vita che si nutre di azioni
all'apparenza inutili ma gratificanti, al limite del superfluo ma ricche di
godimento, sovrabbondanti nell'effusione del linguaggio, come accade nell'amore
dove la razionalità tecnica si limiterebbe a dire "ti amo" e poi più
nulla perché il resto sarebbe pura enfasi. E così, impoveriti nel linguaggio
sempre più funzionale, nei gesti sempre più finalizzati, nelle emozioni da
contenere come fattori di disturbo, nei sentimenti resi atrofici perché
disturbano i processi razionali, dobbiamo dirci "liquidi" o, come
diceva Max Weber già all'inizio del secolo scorso, imprigionati in una
"gabbia d'acciaio", dove i giovani non a caso recalcitrano a entrare?
lunedì 23 gennaio 2017
Scriptamanent. 64 “#lavoltabuonadiJep”.
Da “La volta
buona di Jep” di Alessandro De Nicola, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 23 di gennaio dell’anno 2015: Solo chi è dotato di memoria
formidabile ed ha almeno qualche capello grigio può ricordarsi cosa fosse la
Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali, da tutti chiamata Gepi,
finanziaria pubblica creata nel 1971, con capitale posseduto al 50% dalla banca
pubblica Imi e per il resto suddiviso in parti uguali tra Eni, Iri ed Efim
(altro moloch statale ora scomparso). All'epoca, quella che oggi verrebbe
chiamata la mission di Gepi era di investire in imprese private in difficoltà,
ristrutturarle e poi uscire dal capitale. Nel 1980 si pensò di affidare
un'altra mission alla finanziaria, vale a dire accogliere i dipendenti in
esubero delle grandi società private e o riassegnarli ad altri compiti
produttivi o farli vivacchiare in cassa integrazione. Il numero totale di
cassintegrati Gepi arrivò a 33 mila, per dare un'idea. Cambiamo era geologica e
passiamo al nostro tempo de #lavoltabuona. Il decreto legge del 21 gennaio
("Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti") prevede
all'articolo 7 l'istituzione di una "società di servizio per la
patrimonializzazione e la ristrutturazione delle imprese" che dovrebbe
intraprendere iniziative a favore delle aziende italiane che, nonostante
"temporanei squilibri patrimoniali o finanziari, siano caratterizzate da
adeguate prospettive industriali e di mercato" (valutate in base a
parametri che il decreto, ahimè, non specifica) e necessitino di soldi.
Insomma, una Gepi rediviva che, in onore alla modernità, potremmo chiamare Jep,
come l'annoiato e fascinoso intellettuale Gambardella, protagonista de "La
Grande Bellezza". Ebbene, Jep è semplicemente "promossa" (come,
non si sa) dal governo che dovrebbe incoraggiare investitori istituzionali a
patrimonializzarla. Jep può fare tutto: affitti di azienda, operazioni di
finanziamento, investimento di capitale proprio, emettere azioni di diversa
categoria (ossia con diritti differenziati) o strumenti finanziari banali
(obbligazioni) o esotici. Ma come attrarre questi benedetti investitori? In
effetti, se l'operazione di ristrutturazione di una società in difficoltà fosse
conveniente, gli operatori di mercato farebbero la fila per entrare
nell'affare, no? Quindi, se bisogna incoraggiarli, vuol dire che gli
investimenti che ha in mente il legislatore qualche rischio in più lo fanno
correre nonostante le "adeguate prospettive". E allora, ecco qui la
clausola per la quale "alcune categorie di investitori" (non si sa
quali, forse quelli pubblici come la Cdp) "possono avvalersi della
garanzia dello Stato" nei limiti di un fondo che per il 2015 è fissato a
300 milioni di euro. Chi si avvale della garanzia riconoscerà però parte degli
utili allo Stato. Ohibò, e per gli azionisti di Jep senza garanzia?
Comanderanno di più in assemblea perché le loro azioni avranno diritti speciali
di voto. E per i concorrenti di Jep che sarebbero stati interessati
all'investimento ma, sprovvisti di garanzia statale, avrebbero riconosciuto
meno soldi ai soci dell'impresa in difficoltà per comprare le loro azioni?
domenica 22 gennaio 2017
Primapagina. 24 “Trump è lì per difendere il capitalismo da se stesso”.
Da “Trump è
lì per difendere il capitalismo da se stesso” di Alberto Bagnai, pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 18 di gennaio 2017: (…). Nel 2011, mentre in Italia
ci veniva chiesto di sottoporci alle cure da cavallo dell’Europa perché “fuori
c’è la Cina”, il surplus tedesco raggiungeva i 228 miliardi di dollari,
sorpassando quello cinese (pari in quell’anno ad appena 136 miliardi). La Cina,
intesa come potenza economica da cui difenderci per non restare schiacciati
nell’arena della globalizzazione, ce l’avevamo in casa, e si chiamava Germania.
Da allora il surplus tedesco ha veleggiato verso i 300 miliardi di dollari,
restando stabilmente al disopra di quello cinese (con l’unica eccezione del
2015), e così è previsto rimanga fino al 2021 e oltre. Ora, spero di non
sorprendervi se vi segnalo che come in tutti i giochi, anche in quello del
commercio internazionale chi guadagna soldi (vendendo) è più contento di chi ne
perde (comprando). Secondo il Fondo Monetario Internazionale i quattro saldi
esteri più grandi nel 2016, a prescindere dal segno, sono stati quelli di
Germania (301 miliardi), Cina (260 miliardi), Regno Unito (-157 miliardi) e
Stati Uniti (-469 miliardi). Il saldo estero si riconferma la variabile più
importante da osservare per comprendere non solo lo stato di salute di un
paese, ma anche l’evoluzione politica internazionale. Guarda caso, i due eventi
più dirompenti per il progetto liberista (la Brexit, che ne intacca il
caposaldo europeo, e l’elezione di Trump, che compromette quello statunitense),
si sono verificati nei paesi con i due deficit esteri più grandi, mentre a
difendere il libero mercato si schierano i paesi che ci guadagnano di più. So
cosa state pensando: “E vedrai che anche stavolta Bagnai ci parla di euro: che
barba!” No, cari lettori, questa volta passo: lascio che a parlarvene sia il
programma economico di Donald Trump.
sabato 21 gennaio 2017
Capitalismoedemocrazia. 59 “La lunga guerra tra capitale e lavoro”.
“(…). Ci è stato rimproverato, a
noi comunisti, di voler sopprimere la proprietà faticosamente acquisita con il
lavoro individuale; quella proprietà che si dice essere il fondamento di ogni
libertà, attività e indipendenza delle persone. Proprietà personale, frutto del
lavoro del singolo! Forse si parla della proprietà del piccolo borghese o di
quella del piccolo contadino, forma di proprietà antecedente a quella borghese?
Non siamo noi che dobbiamo abolirla, l’ha già abolita, o lo sta facendo, lo
sviluppo dell’industria. Ovvero si parla della proprietà privata, della moderna
proprietà borghese? Il lavoro salariato crea forse una proprietà per il
proletariato? Assolutamente no. Esso crea il capitale, vale a dire la proprietà
che sfrutta il lavoro salariato e che non può accrescersi se non a condizione
di produrre nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo nuovamente. Nella sua forma
attuale la proprietà si muove tra due poli antagonistici: capitale e lavoro
salariato”. Così scriveva il “Moro” di Treviri nel Suo “Manifesto” al capitolo secondo che ha
per titolo “Proletari e comunisti”. Si dirà: “cosa passata”, veterocomunismo,
cose di altri tempi. A quel tempo, quel libello si proponeva la realizzazione
di una “rivoluzione” antropologica epocale, stante l’attualità al
tempo della divisione in classi che il moderno capitalismo finanziario non ha
cancellato ma reso più tollerabile, inavvertita, leggera, soporifera, se non addirittura
superata proclamando la fine delle “ideologie”. Ma dietro quel falso proclama
il capitalismo ha continuato il suo “lavoro” di accumulo e di divisione sempre
più feroce in classi con l’affermazione di una sua rivoluzione antropologica
che nessun “manifesto” nel frattempo si è peritato di denunziare con forza ed insistenza e che oggigiorno divide
il mondo intero nell’1% che detiene la grossa fetta della ricchezza planetaria
contro il 99% che vede arretrare pesantemente le sue condizioni sociali e
materiali. Quel “Manifesto” del lontanissimo
’48 ritroverebbe il suo valore e la sua attualità se i suoi estensori potessero
cambiarne i termini della questione non minacciando più l’abolizione della
proprietà privata quanto invece riproporre una “rivoluzione” che inneggiasse
alla equità economica affinché si realizzi una politica di ridistribuzione tra
i tanti esclusi delle ricchezze del mondo. Più avanti il “Moro” di Treviri continuava
a scrivere: “(…). Voi inorridite perché noi vogliamo abolire la proprietà privata.
Ma nella vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi
membri. Ed esiste per voi, proprio perché essa non esiste per quei nove decimi.
Ci rimproverate dunque di voler abolire una forma della proprietà che non può
esistere, se non alla condizione di privare di qualsiasi proprietà l’immensa
maggioranza della società. Insomma, ci accusate di voler abolire la vostra
proprietà. È vero: la nostra intenzione è proprio quella. (…)”.
venerdì 20 gennaio 2017
Paginatre. 63 “Trump e populismo, forma politica di lotta di classe”.
Ha scritto Federico Rampini in “Capitalismo predatore, ultima fermata” pubblicato sul settimanale “D”
del 3 di dicembre dell’anno 2016: (…). …ho avuto il privilegio di vivere per
otto anni nell'America di Obama. Oggi quest'America sembra alla retroguardia.
Con Trump non ha inventato nulla, ha importato ingredienti di un'insurrezione
populista già presenti da anni nella vecchia Europa; ha aggiunto solo una
dimensione spettacolare, un kitsch da reality tv, ma la sostanza non è davvero
originale. (…). …ora che in America abbiamo toccato il fondo, è proprio a noi
che spetta il compito di diventare il laboratorio di una ricostruzione. Penso a
una ricostruzione economica: Obama ci tirò fuori dalla spaventosa recessione
del 2008 ma per tante ragioni non riuscì a modificare il modello di sviluppo
fortemente diseguale. Penso alla ricostruzione di un American Dream dove una
laurea di qualità non costi mezzo milione di dollari. Penso alla ricostruzione
di un'idea di nazione, di comunità solidale, perché il livello di odio
reciproco, delegittimazione, insulto, faziosità, è ormai patologico. Se non ci
riusciamo in America, a ripartire verso un futuro diverso, temo che non ci
riuscirà nessuno. Per una ragione semplice. La causa strutturale del fenomeno
Trump è un capitalismo feroce, oligarchico, che ha dirottato e manipolato la
globalizzazione per metterla al servizio di pochi. È stata l'America la cabina
di regia di quel capitalismo predatore, ed è qui che bisogna intervenire per
cambiare le regole. Nessun altro paese al mondo ha abbastanza forza per farlo
da solo. È l'America ad avere le risorse per inventare un'economia nuova: le
idee ci sono, c'è una società giovane, multietnica, i talenti più creativi sono
venuti qui dal mondo intero. Sulle due coste, nella mia California e nella mia
New York, così come in tante altre roccaforti progressiste che l'8 novembre
votarono massicciamente contro Trump, c'è una società civile che deve
rimboccarsi le maniche, capire dove abbiamo sbagliato, imparare a parlare con i
delusi e gli impoveriti, gli umiliati e i declassati che hanno cercato nel
populismo una vendetta e una speranza. Sarà una battaglia dura, ma sia chiaro:
non solo contro Trump. I problemi che ci affliggono sono ben più antichi di
lui. È dagli anni ‘80 di Ronald Reagan che, insieme all'egemonia culturale e
politica del neoliberismo, è iniziata una deriva: diseguaglianze sempre più
estreme, lobby sempre più potenti, la democrazia intossicata dal denaro. È un
male che viene da lontano ed è bipartisan: la deregulation finanziaria che
consegnò carta bianca a Wall Street la firmò Bill Clinton. I privilegi fiscali
per le multinazionali sono stati votati da repubblicani e democratici. Quel
modello si è esteso in Europa, e anche voi avete le vostre battaglie da fare.
Ma se non cambia il centro dell'impero, è difficile che ci riesca la periferia. Ore 18.00 (ore 12.00 di quel mondo) di oggi 20 di gennaio: Trump è il Presidente
degli Stati Uniti d’America. L’era di Trump ha inizio. Tratto da “Trump, la rabbia antisistema e l'eutanasia
delle sinistre” di Carlo Formenti, postato il 9 di novembre dell’anno 2016
sul sito di “MicroMega.net”:
mercoledì 18 gennaio 2017
Scriptamanent. 63 “Alienazione e lavoro”.
Da “Perché insieme al lavoro si perde l’identità” di Umberto
Galimberti, sul settimanale “D” del 18 di gennaio dell’anno 2014: Scriveva
il filosofo Günther Anders: «La vera domanda non è cosa possiamo fare noi con
la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi». Siamo nell'età della
tecnica, anche se la maggior parte delle persone non ne è del tutto consapevole
e pensa di vivere ancora in un mondo umanistico, dove l'uomo è il soggetto e il
responsabile delle proprie decisioni e delle proprie azioni. (…). …l'età
umanistica è definitivamente conclusa. La tecnica non è l'insieme degli
strumenti, come solitamente si crede. Questa semmai è la tecnologia. La tecnica
è la forma più alta di razionalità raggiunta dall'uomo, più alta ancora della
razionalità dell'economia, che soffre ancora di una passione umana, la passione
per il denaro, da cui la tecnica è esonerata. La razionalità della tecnica è
stata definita "strumentale" perché consiste nel raggiungere il
massimo degli scopi con l'impiego minimo dei mezzi. A questa razionalità sono
sottomessi, per usare un'espressione hegeliana, sia il "signore" sia
il "servo", che non sono più due volontà contrapposte, perché hanno
entrambi come controparte la razionalità del mercato. Questa è la ragione per
cui non si dà più lotta di classe e tantomeno rivoluzioni. In un sistema
regolato dalla razionalità tecnica l'identità di ciascuno è data dal proprio
ruolo. Non è un caso che quando incontriamo una persona sappiamo qualcosa di
lui non quando ci dice il suo nome, ma quando ci dà il suo biglietto da visita
in cui è scritta la sua funzione. Infatti tra i valori della tecnica, oltre
all'efficienza e alla produttività, troviamo la funzionalità, cioè l'idoneità
di una persona a ricoprire al meglio la funzione che gli è stata assegnata,
finché quella funzione è ritenuta indispensabile.
lunedì 16 gennaio 2017
Scriptamanent. 62 “L’Illuminismo ed il diritto alla libertà”.
Da “Ma il
diritto alla libertà non conosce limiti” di Stefano Rodotà, sul quotidiano
la Repubblica del 16 di gennaio dell’anno 2015: (…). Riprendendo un discorso di
Benedetto XVI, Papa Bergoglio è tornato sulle presunte colpe dell'Illuminismo.
È bene ricordare, allora, che proprio lì ha le sue radici la frase attribuita a
Voltaire (ma in realtà costruita da Evelyn Hall) infinite volte citata in
questi giorni: «Non sono d'accordo con quel che dici, ma mi batterò fino alla
morte perché tu abbia il diritto di farlo». Una indicazione forte, che ci ha
accompagnato tutte le volte che si era di fronte a regimi totalitari e
autoritari e che non possiamo perdere di vista, perché libertà e diritti esigono
una continua e intransigente difesa. La letteratura da sempre ci racconta il
futuro, e talvolta ci ammonisce sui suoi pericoli. Il secolo passato è stato
segnato da due grandi distopie, da due utopie negative sui rischi dell'uso
della biologia e della società della sorveglianza, consegnata a due libri - Il
mondo nuovo di Aldous Huxley - e 1984 di George Orwell. Oggi altri due libri
sono davanti a noi. Il cerchio di Dave Eggers ci parla di una società della
trasparenza totale, resa possibile dalla costruzione di una grande impresa
planetaria che si impadronisce della vita di tutti, nella quale si può
riconoscere la proiezione nel futuro di una combinazione di Google, Facebook,
Twitter. (…). Vi sono nelle nostre culture utopie positive alle quali fare
appello perché il futuro comune sia sottratto a questo orizzonte pessimistico?
Qui deve innestarsi la riflessione storica, che ci fa scoprire radici profonde
e le connette con il presente. (…). Oggi la libertà è minacciata, le
diseguaglianze ci sommergono, ma in questo momento la parola più difficile da
pronunciare è "fraternità" o, come più spesso si dice,
"solidarietà". Ma solidali con chi, verso chi? Soltanto verso chi ci
è vicino, costruendo così una solidarietà "escludente" ogni altro,
che ci spinge verso identità oppositive, destinate ad alimentare conflitti
sempre più acuti? Riflettendo sulla condizione europea, Jurgen Habermas aveva affermato
che solo la solidarietà può liberarci dall'odio tra paesi creditori e paesi
debitori. Mentre diverse forme di odio montano in maniera che a qualcuno pare
irresistibile, la pratica difficile e impegnativa della solidarietà non è forse
una via che sarebbe cieco abbandonare? Questi casi, insieme ad altri
altrettanto eloquenti che potrebbero essere richiamati, mostrano come le stesse
concrete difficoltà presenti possano essere affrontate solo con una adeguata
riflessione culturale. Voltaire e la triade rivoluzionaria - libertà,
eguaglianza, fraternità - evocano direttamente l'Illuminismo, la sua lunga
storia, i riconoscimenti e le trasformazioni di libertà e diritti che da lì
hanno avuto origine. E proprio su questa eredità non da oggi ci stiamo
interrogando, (…). Il modo in cui Alessandro Magno recise l'inestricabile nodo
di Gordio, come vuole la leggenda, ben può apparire oggi come metafora di un
tempo in cui si contempla quasi esclusivamente il bene della decisione.
Decisione subitanea, immediata, magari non meditata, ma rapida e definitiva.
domenica 15 gennaio 2017
Primapagina. 23 “Governo: uno sberleffo dopo il 4 dicembre”.
Da “Il
governo Gentiloni, una presa in giro per 20 milioni di italiani”,
intervista di Marco Travaglio al professor Gustavo Zagrebelsky pubblicata su
“il Fatto Quotidiano" del 13 di gennaio 2017: (…). Cosa hanno voluto dire i 20
milioni di elettori del No? - Voltiamo pagina dalle politiche neoliberiste e
dalla svendita del patrimonio pubblico che monopolizzano il dibattito
culturale, accademico, giornalistico e politico da 30 anni e hanno prodotto
tanti disastri sociali. Operazione completata con la riforma costituzionale
dell’articolo 81, cioè dell’equilibrio di bilancio sotto l’egida della
Commissione europea, approvata in fretta e furia sotto il governo Monti da
centrodestra e centrosinistra nel silenzio generale. Ecco: proponeteci un’altra
politica -.
Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine? - L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima -.
Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine? - L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima -.
Si spieghi meglio. - Fare politica significa
scegliere liberamente tra opzioni: se tutto è obbligato da istituzioni esterne,
grandi banche e fondi d’investimento, la politica sparisce. È la dittatura del
presente, un presente repulsivo per molte persone. Nella dittatura del presente
la politica sparisce e la democrazia diventa una farsa. Le elezioni diventano
un intralcio, a meno che le oligarchie non siano sicure del risultato. Il sale
della democrazia è l’incertezza del responso popolare. Invece si preferisce uno
sciapo regime del consenso -.
E, dopo il referendum, ecco il
governo-fotocopia. – (…). Uno statista deve dire che il futuro non è oggi, ma
va costruito da oggi con enormi sacrifici, e che i sacrifici devono
distribuirsi tra coloro che possono sopportarli e, spesso, hanno vissuto finora
da parassiti alle spalle degli altri -.
Vedo che Renzi lei non lo nomina proprio… E
del governo Gentiloni che dice? - È il rifiuto di guardare la realtà, una
riprova dell’autoreferenzialità del politicantismo. Quasi uno sberleffo dopo il
4 dicembre. Era troppo sperare che si prendesse atto dell’enorme significato
politico del referendum, del colossale voto di sfiducia che l’elettorato ha
espresso nei confronti degli autori della tentata “riforma”? Non è una
questione personale: saranno tutte ottime persone. Ma è una questione politica.
Invece, Maria Elena Boschi, la madrina della “riforma”, è stata promossa in un
ruolo-chiave nel governo e la coautrice e relatrice, Anna Finocchiaro, è
diventata ministro. Mah! L’unica novità è la ministra dell’Istruzione, subito
caduta sul suo titolo di studio. Per il resto, uno scambio di posti. Ma per i
nostri politici, forse perché sospettano di contare poco o nulla, chiunque può
fare qualunque cosa -.
sabato 14 gennaio 2017
Scriptamanent. 61 “#noiquelliditelemaco”.
Disse: “la generazione nuova che abita oggi
l’Europa”. E Poletti allora? Disse pure: “Is e veri gud italian”. Ma
si riferiva ad Antonio Meucci, mica a Poletti. Che resta, purtroppo per noi
tutti, ministro. Furbo lui! Da “La pro
loco Renzi e l’Ulisse tour” di Daniela Ranieri, su “il Fatto Quotidiano”
del 14 di gennaio dell’anno 2015: Mi sa che gli spin doctor che lavorano alla
costruzione del mito “Renzi grande comunicatore” stanno cercando di superare i
record stabiliti da quell’altro, il premier tycoon delle tv guardato con
imbarazzata pietà da tutto il mondo ogni volta che apriva bocca. Altrimenti
perché consigliargli, o non sconsigliarlo, di chiudere il suo gassoso semestre
di presidenza europea con un’altra metafora, dopo quella già imbarazzante con
cui l’aveva aperto? Forse la scommessa del semestre italiano è stata persa
perché “la generazione nuova che abita oggi l’Europa” non si è “riscoperta Telemaco”,
non si è fatta erede, prendendo “la tradizione da cui veniamo e darla ai nostri
figli”, come disse nel suo intrepido discorso d’esordio? Sarà per quello. “Ho imparato
cosa fosse l’Europa nello studiare la storia della mia città”, ha detto rivolto
a un’aula semivuota, “e nella mia città c’è un grande personaggio che quando
mette in bocca una piccola orazione a Ulisse fa un riferimento che trovo
estremamente efficace oggi”. Il grande personaggio è Dante, e la piccola
orazione è quella di Ulisse nell’Inferno che Renzi recita a memoria: “Fatti non
foste a viver come bruti, ma per seguir virtute, cioè virtù, e conoscenza”. A parte
che Dante dice “canoscenza”, l’impressione , per noi “che seguiamo da casa” e
che siamo il target privilegiato di Renzi, è di estremo imbarazzo. Il risultato
è quello di un premier provinciale, saccentone e pittoresco, un ibrido tra il
già citato B. e Balotelli, icona di una italianità un po’ spaccona e molto
cialtrona che va forte all’estero.
venerdì 13 gennaio 2017
Scriptamanent. 60 “La Cina non sta mettendo in crisi il mondo”.
Da “La Cina
non sta mettendo in crisi il mondo: è un po’ vero il contrario” di Alberto
Bagnai, su “il Fatto Quotidiano” del 13 di gennaio dell’anno 2016: (…). Con
la crisi dei subprime (…) i media ci presentarono una Cina salvifica, motore
dell’economia mondiale, che ci avrebbe tirato fuori dalle secche. Ma (…) c’erano
due problemi. Uno (…): nonostante le dimensioni geografiche e demografiche, la
Cina faceva solo il 7% del Pil mondiale ed era difficile che riuscisse a
tirarsi dietro il restante 93%. Inoltre, anche se in Cina la crescita media nel
decennio precedente era stata dell’11%, il paese prima o poi avrebbe
rallentato. Si chiama teoria della convergenza, sta in tutti i libri, e deriva dal
fatto che il capitale è molto produttivo (determinando tassi di crescita
elevati) dove è più scarso (e quindi nelle economie meno progredite). Arriviamo
ad oggi. Il vento è cambiato (…). L’economia mondiale è immersa nella crisi più
prolungata dell’ultimo secolo. I dati mostrano che questa è dovuta, in larga
parte, al suicidio del secondo polo dell’economia globale, l’Eurozona, che dal
2012 in poi sta dando un contributo negativo alla crescita mondiale, a causa di
una ben precisa scelta politica (l’austerità). Torna la tentazione di
prendersela con qualcun altro: il “destino cinico e baro” (che oggi gli
economisti chiamano “ipotesi della stagnazione secolare”), o anche, perché no,
un altro classico, la Cina, colpevole secondo alcuni di smettere di crescere, e
di perturbare i mercati. Ma le cose non stanno esattamente così. Intanto, la
Cina, a differenza dell’Eurozona, ha tentato di remare a favore della ripresa.
Il suo rallentamento è stato inferiore a quello previsto dagli economisti: la
crescita media nel periodo della crisi è stata attorno al 9%, contro il 7% di
molte previsioni. Questo risultato superiore alle aspettative è una conseguenza
paradossale della crisi stessa. Questa da un lato ha indotto i governi
occidentali a politiche monetarie molto espansive, e dall’altro ha reso i paesi
emergenti una meta allettante per la grande massa di liquidità creata. Di
conseguenza, fra il decennio pre-crisi e il periodo successivo gli afflussi
netti di capitali in Cina sono raddoppiati, favorendo il manifestarsi di bolle
come quella del mercato azionario, oggi agli onori della cronaca, ma
soprattutto ostacolando il riequilibrio del modello di crescita cinese. Lo
mostra il rapporto fra investimenti fissi e Pil, ulteriormente cresciuto, fino
a raggiungere il 48%, anche grazie a un flusso crescente di investimenti
diretti dall’estero. Questa massiccia creazione di capacità produttiva risulta
necessariamente eccessiva in un mondo in crisi di domanda, dovuta in larga
parte al fatto che l’Eurozona continua a pretendere di campare sulla domanda
altrui, rimanendo venditrice (anziché acquirente) netta di beni. Un approccio
che riflette la volontà della sua potenza egemone, la Germania, che inoltre,
per interposta Bce, ha anche pilotato al ribasso il cambio dell’euro, in un disperato
tentativo di dare ossigeno alle sue economie satellite (naturalmente, a spese
altrui). La svalutazione dell’euro rispetto al dollaro è stata anche una
colossale svalutazione competitiva rispetto alla Cina, cioè un secondo ostacolo
posto dall’Eurozona sulla pista di “atterraggio dolce” dell’economia cinese.
Una manovra aggressiva, intervenuta in un quadro nel quale il calo del prezzo
del petrolio, se favorisce la Cina dal lato dell’offerta (rendendo più
convenienti le fonti di energia fossili), la sfavorisce dal lato della domanda
(perché mette in crisi tutti i paesi emergenti esportatori di materie prime, in
particolare quelli africani, con i quali la Cina ha intensificato i propri
rapporti commerciali). La ricomposizione pacifica di questi squilibri
richiederebbe che noi per primi ripensassimo il nostro modello di sviluppo,
abbandonando la delirante idea tedesca di competere al ribasso con la Cina sul
costo del lavoro, e riprendendo un percorso di investimenti pubblici che ci
consentisse di tutelare il nostro vantaggio tecnologico. Ma questo, a un paese
che pur di non pagare i suoi operai importa braccia con la spregiudicatezza e i
risultati cui assistiamo, proprio non possiamo chiederlo.
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