Ha riportato nel Suo scritto “A proposito del sacro” – sul settimanale
“D” del 16 di aprile dell’anno 2011 – il professor Umberto Galimberti quanto ha
annotato Carl Gustav Jung a proposito del “sacro”: Il sacro è stato presentito
dall'umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti,
nel sacro è arrivato con molto ritardo. Il “sacro” sembra quindi connaturato
alla vicenda umana. Ed a proposito del mistero del “sacro”, a detta del
grande studioso svizzero che è stato uno psichiatra sì ma anche uno psicoanalista
ed un antropologo, la sua nascita nel cuore dell’uomo sembra abbia abbondantemente
anticipato la “creazione” di una qualsivoglia figura di Dio. Una storia che
sconfina per l’appunto nel mistero più assoluto del “sacro” da me vissuta è allora
da raccontarsi tutta. S.V. ne è il protagonista assoluto ed il “sacro”
ne è lo scenario inquietante – almeno per chi come lo scrivente non è incline
ad una accettazione che faccia a pugni con il senso del reale - all’interno del
quale tutta la storia si è svolta. S.V. acquista tempo addietro da un
rigattiere un quadro raffigurante l’arcangelo Michele nell’atteggiamento suo di
indomito cavaliere che affronta il male per sconfiggerlo. La mia incredulità
per angeli ed arcangeli, serafini e cherubini è prossima sempre, senza se e
senza ma, a toccare nel merito valori assoluti. Tanto più ed a maggior ragione per
la rappresentata nel dipinto cruenta battaglia di quell’indomito cavaliere
contro il male in difesa della fede in Dio contro le scatenate orde del principe
dei demoni, ovvero quel Lucifero divenuto il Satana che con Michele rappresentava,
nel celeste empireo, la coppia angelica per definizione, battaglia da ritenersi
persa in considerazione del fatto che oggigiorno la fede in Dio delle umane
genti lascia molto a desiderare. Orbene S.V. acquista il quadro ignaro di
quanto gli potrà accadere. Ed accade che S.V. abbia una visione di quell’invincibile
arcangelo – anzi più visioni, almeno tre se non erro – che gli impongono di dare
un luogo che sia di venerazione a quell’immagine dipinta, un luogo peraltro ben
definito. Non resta a S.V. che rintracciare quel tale luogo le cui uniche
coordinate ricevute indicano di una fontana e dei resti di antichi manufatti. La
ricerca affannosa conduce S.V. in un luogo inesplorato che oggigiorno è
possibile determinare essere all’interno del maestoso, pietroso Parco delle Madonie
nelle contrade del borgo di Petralia Sottana, nella terra del Mongibello e del
Lilibeo. È in questo luogo aspro e brullo che S.V. ha dato “casa” al dipinto del
suo arcangelo Michele.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 31 ottobre 2015
martedì 27 ottobre 2015
Oltrelenews. 66 “Das auto”.
Da “La fine
dell’auto di massa? Ora non è più fantaeconomia” di Enrico Deaglio, su
"Il Venerdì di Repubblica" del 16 di ottobre 2015: La
storia funziona meglio – è più drammatica, ma anche più grottesca – se si parte
con un fermo immagine dell’attimo prima. Settembre 2015: Volkswagen è ancora
Das Auto, lo splendido sole della meccanica tedesca che illumina il mondo. Le
sue automobili perfette, scattanti, pulite sono il simbolo vincente della
Germania, frutto della sua disciplina, base della forza politica della signora
Angela Merkel e del peso economico-morale che esercita. Davvero, il popolo ha
imparato ad amarle, le auto tedesche. E poi, il «cigno nero», lo tsunami; arma
del delitto, una piccola stringa di bit ben nascosti nel codice informatico
della centralina ha truccato i dati delle emissioni di gas di 11 milioni di
Volkswagen, Audi, Skoda, Seat che montano i più popolari motori diesel (per non
parlare dei camion). L’ad Martin Winterkorn, che aveva portato VW al successo
planetario, virilmente ammette e si dimette; il mondo, intorno a lui, crolla.
Lo chiamano Dieselgate, lo paragonano al crollo del 1929, oppure al crack di
Lehman Brothers, si calcola che a VW costerà 100 miliardi di euro. Ma
basteranno? O è semplicemente l’inizio della fine dell’automobile? C’è infatti
un dato che pesa più delle multe o delle class action. Lo «sconforto da
tradimento», il disamore. L’affabile concessionario, la pubblicità ecologica,
quelle famigliole felici col cane che partivano per il weekend. Tutti
mentivano: non volevano che si sapesse che le auto diesel buttano nell’aria gas
nocivi e che la sgassata che si prende in faccia il ciclista fermo al semaforo
non è per nulla innocua. La Volkswagen, con il suo dolo, ha associato, in
milioni di persone, l’idea dell’auto ai polmoni, alle bronchiti, al cancro.
Significativo che gli altri costruttori non abbiano immediatamente risposto
«noi siamo puliti»: forse non potevano. Un giorno i nostri nipoti, guardando le
immagini della vita quotidiana nel 2015, con tutto quel traffico e quell’aria
pesante, reagiranno come reagiscono i nostri figli alla vista di Humphrey
Bogart o Lauren Bacall con la sigaretta incollata al labbro. Ma come facevano a
non sapere che si stavano suicidando? E ora? Il nuovo management Volkswagen
tristemente dichiara che la permanenza in vita del colosso non è scontata:
devono riconquistare la fiducia dei consumatori e, nello stesso tempo, contestare
l’entità del danno provocato, una mission quasi impossible per la macchina del
popolo, che pure durava dagli Anni Trenta ed era sopravvissuta alle macerie del
1945. Possibile che si spenga ora? In realtà, non sarebbe la prima volta che il
mondo volta le spalle ad un’industria considerata amica.
martedì 20 ottobre 2015
Oltrelenews. 65 “3.000 € cash”.
Da “Tax
Ruling, se il Fisco ha le porte girevoli” di Fabio Bogo, sul settimanale
“Affari&Finanza” del 12 di ottobre 2015: (…). …in campo fiscale spesso le
porte sono girevoli, e quello che entra da una parte magari esce dall’altra. È il
caso del limite massimo di contanti che è possibile usare per i pagamenti, la
“gabbia” che ha lo scopo di tracciare i flussi di denaro e che costituisce un
forte deterrente all’evasione fiscale. Il governo Berlusconi nel 2008 lo aveva
fissato in 12.500 euro. Il governo Monti nel 2011 lo ha ridotto a 1.000 euro,
livello attualmente in vigore. Adesso è ripartita la corsa al rialzo e l’ultima
proposta presentata in parlamento lo prevede a quota 3.500 euro, soglia oltre
la quale scatta l’obbligo di utilizzare assegni, bonifici o carte di credito.
Oltre la quale, insomma, è necessario essere identificati. Il primo a ventilare
la possibilità di modificare la soglia è stato il premier Matteo Renzi: nel
varco aperto si sono precipitati rari colleghi del Pd e in forze quelli di
Forza Italia e Ncd con il supporto delle organizzazioni del commercio. La
giustificazione è quella di ridare “il giusto sostegno ai consumi” e allinearsi
ai livelli in vigore in altri paesi europei. In effetti Germania e Olanda non
hanno alcun limite al pagamento in contanti, in Spagna il tetto è di 2.500
euro, in Belgio e Francia di 3mila. I sostenitori dell’abolizione del tetto
dimenticano però altre particolarità italiane, e non tutte virtuose. Siamo il
paese europeo con il maggior numero di persone “unbanked”, cioè restie ad usare
canali bancari per le loro transazioni. Questa preferenza per i contanti (il 67
per cento delle transazioni avviene cash) genera costi di gestione pari a 4
miliardi per il canale bancario e a 8 miliardi per il sistema paese. Siamo il
paese europeo con la più ampia economia sommersa, che sfugge ad ogni tipo di
rilevazione perché scorre su canali in “nero”, alimentati appunto dalla non
tracciabilità dei flussi finanziari. Questa anomalia – secondo le stime Istat –
genera un volume che oscilla tra i 255 e i 275 miliardi di euro: vale tra il
16,3 per cento ed il 17,5 per cento del Prodotto interno lordo. Siamo
soprattutto il paese che, a causa dell’imponibile sottratto al fisco dall’economia
in nero, subisce il maggior danno al gettito dell’erario. Questa anomalia fa si
che l’evasione fiscale italiana sia il triplo di quella spagnola, il doppio di
quella inglese, il 30 per cento in più di quella tedesca. Scriveva l‘Agenzia
delle Entrate un anno fa: “Al fine di contrastare fenomeni evasivi ed elusivi
complessi è prioritario incentivare l’uso di strumenti tracciabili per
effettuare pagamenti in ogni ambito. La riduzione del contante è una delle
chiavi per la lotta all’evasione”. E l’evasione sottrae alle casse dello Stato
mediamente 30 miliardi di euro l’anno. Più o meno l’ammontare della manovra
contenuta nella legge di stabilità per il 2016. Sarebbe il caso che qualcuno
non se lo dimenticasse.
lunedì 19 ottobre 2015
Paginatre. 2 “La solitudine al tempo dell’emoticon”.
Da “Social solitudine” di Jonathan
Franzen, sul quotidiano “la Repubblica" dell’11 di ottobre 2015: Sherry
Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un
passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e
cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una
moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista
ma non luddista: un’adulta. (…). Osservando le interazioni delle persone con i
robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini,
raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando
sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini,
cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a
considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi,
meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per
il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le
persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi,
con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso
modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media
trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una
comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una
profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti,
bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.
martedì 13 ottobre 2015
Capitalismoedemocrazia. 54 “La Storia scritta dai Krupp”.
Chi di Voi non conosce a menadito la storia della
famiglia Krupp? Mi è venuto di pensare a quella ricchissima, tragicissima – tragicissima
per milioni e milioni di altri esseri umani – famiglia dopo aver letto il commento
di Marcello De Cecco - “L'asse del
Pacifico senza la Cina” – sul settimanale “Affari&Finanza” del 12 di
ottobre ultimo. Ha scritto Marcello De Cecco a chiusura dell’interessantissimo
Suo “pezzo”: (…). La crescita del commercio internazionale è ormai da qualche anno
inferiore ai tassi di sviluppo del prodotto lordo globale. Si pensa che
comunque ormai la fase di veloce globalizzazione si sia conclusa e leader come
Shinzo Abe (primo ministro del Giappone n.d.r.) avviano ormai anche in Giappone
la sostituzione del settore del commercio con quello dell’industria degli
armamenti, facendo notare l’appropriatezza della fase storica, quando un paese
come il Giappone deve temere una politica di potenza attiva da parte della
Cina. Nello stesso modo è probabile che in un veloce riarmo cinese la
leadership di Pechino possa anch’essa trovare una risposta alla caduta del
tasso di sviluppo, sceso a tassi ormai ridotti al confronto di quelli dei
decenni precedenti. Allora tutto bene? Abbiamo cambiato modello e non ci
basiamo più sull’economia cinese come grande potenza importatrice ed
esportatrice? Potrebbe essere una nuova autostrada basata su equilibri diversi
dal passato: una più forte domanda interna cinese e uno spostamento di orizzonti
di quella giapponese e in parte anche americana. Può essere che la nuova autostrada
non presenti ostacoli ma potrebbe accadere anche il contrario. Tenendo a mente
che se il prezzo da pagare per il nuovo equilibrio è una nuova corsa agli
armanenti, potrebbe alla fine rivelarsi troppo alto. (…). È la tragedia
irrisolta della storia degli umani. Ché quando commerci e tutto quanto
afferisca alla ricchezza dei pochi languono, non si trovi di meglio che
ri-lanciare il ricchissimo mondo degli armamenti, l’effetto benefico dei quali
è di sfoltire di un bel po’ la numerosissima famiglia umana ed al contempo
rimpinguare le casse debordanti di sonante ricchezza dei soliti noti. Ad
offrire la “carne da macello” è il restante dell’umanità. La storia della famiglia
Krupp è per questo aspetto illuminante. Ricchissima dinastia tedesca con oltre quattrocento
anni di storia, divenne famosa per la produzione di acciaio e per le fabbriche
di munizioni e armi. Krupp, nella lingua tedesca, ha il significato di “forte”.
mercoledì 7 ottobre 2015
Paginatre. 1 “Leggere”.
Da “Un
minimo sapere: imparare a leggere” di Giorgio De Rienzo – ordinario di
letteratura italiana – su il “Corriere della sera” del 29 di maggio dell’anno
2001: (…). …la lettura di un libro si può legittimamente assimilare a una
storia d’amore perché il leggere, se è riflessivo, comporta un incontro e una
intensa frequentazione. E una storia d’amore è sempre, o meglio dovrebbe essere
sempre, di per sé, un’avventura della conoscenza. In amore si può adorare
ciecamente una donna oppure sovrapporre il proprio “ io “ a lei. Così nel
leggere si può diventare aggressivi e cercare in un libro soltanto ciò che ci
appaga ed entra in sintonia con noi, ovvero ci si può abbandonare a una sorta
di mistica contemplazione. Il pericolo è l’annullamento dell’altro oppure di
sé. (…). …c’è il libro che traduce una complessa interpretazione del mondo
propria di chi l’ha scritto e l’ha consegnato agli altri, affidando a loro con
questa sua interpretazione anche la propria cultura, e ci siamo noi che
leggiamo, ricchi a nostra volta di una cultura, di un desiderio di domande, di
un’attesa di risposte. (…). …attraverso la lettura attenta , noi seguiamo per
decifrare il modo in cui l’autore del libro esprime la propria visione della
realtà, ci porterà dentro ai suoi progetti e alle sue attese, ci coinvolgerà
nei gusti e nei comportamenti, nei problemi e negli interessi che gli
appartengono, ci svelerà le sue ricchezze e le sue miserie. La nostra
partecipazione a tutto ciò finirà con l’arricchire il nostro personale modo di
porci di fronte al mondo: potrà insegnarci altre prospettive da cui
affacciarci, altre angolature da cui osservare ciò che accade intorno a noi.
Nel corso della lettura potrà accaderci di riconoscere coincidenze tra i nostri
sentimenti e quelli che il libro espone, tra i
nostri pensieri e i pensieri altrui. Sarà di certo una grande gioia. Ne
verrà un impagabile senso di compagnia. Ma sarà altrettanto esaltante scoprire
sentimenti di cui noi non siamo stati finora capaci, incontrare pensieri che
non ci sono mai appartenuti. È questo il senso di qualsiasi avventura della
conoscenza.
martedì 6 ottobre 2015
Oltrelenews. 64 “Politica&talk-show”.
Da “Il wrestling del talk show” di Curzio Maltese, sul quotidiano la
Repubblica del 13 di settembre dell’anno 2013: Poche cose come i talk show hanno
contribuito in questi anni ad arricchire gli impresari televisivi e a far
crollare a zero la stima nei politici. In qualche caso, com'è noto, si tratta
delle stesse persone. Da anni non riesco, come molti italiani, a vedere per
intero uno di questi incontri di lotta greco-romana verbale, chiaramente
studiati per non far capire nulla. (…). In genere si tratta di una lunga rissa
a colpi di «vaffa» e insulti assortiti, spesso a sfondo sessuale, scambiati fra
parlamentari e ministri, per quanto compagni di governo, o firme del
giornalismo, sotto lo sguardo felice del conduttore di turno. Per quanto
improbabile, è possibile che nelle tre ore di trasmissione gli illustri ospiti
in studio abbiano detto anche cose intelligenti. (…). Perché si va avanti con
questo livello infame di dibattito pubblico, sconosciuto nel resto del mondo
civile e democratico? Perché comunque in Italia lo spettacolo piace. Non più
come prima, ma abbastanza per giustificarne la replica infinita. Per quanto se
ne riesce a capire, pochissimo, la faccenda funziona come un fenomeno tv di
qualche tempo fa, il wrestling. Compagnie itineranti organizzano incontri di
lotta truccati, in apparenza truci e sanguinari, dove alla fine però nessuno si
fa male davvero e tutti sono d'accordo. I nemici che si sono scannati fino a
dover ricorrere all'autoambulanza, si ritrovano la sera dopo in un'altra
piazza, un altro ring, a ripetere il combattimento mortale. Ecco, la
telepolitica all' italiana è la risposta del nostro paese al wrestling
americano. Senza offesa, s'intende. Soprattutto per gli appassionati di wrestling,
dove negli ultimi anni si sono applicati severissimi controlli anti doping per
debellare il fenomeno degli atleti drogati. Una misura che nei nostri talk
show, visibilmente, non è applicata. (…). Oggi sul ring tele politico vanno di
moda altri campioni, sempre con soprannomi e atteggiamenti da guerrieri molto
kitsch. Per esempio, Daniela Santanchè, detta la Pitonessa. È capace di insultare
l'avversario per mezz'ora di fila, senza prendere fiato. Il bello è che la
vittima torna a sfidarla la sera successiva, tanto è un gioco. Anche nel caso
del wrestling politico, la platea si divide a metà. Da una parte, i tifosi
ingenui, i Mark, che prendono per vero tutto ciò che accade, le botte, gli
insulti e il resto. Dall'altra vi sono gli spettatori più avveduti, gli Smart,
consapevoli dell'inganno, ma divertiti dalla pagliacciata. Esiste poi una
piccola minoranza che considera lo spettacolo semplicemente indecente. Ma la
dignità non è più un valore e in ogni caso non ha mai fatto audience.
lunedì 5 ottobre 2015
Uominiedio. 19 “Alla ricerca di un dio che sia”.
Ha scritto il professor Umberto Galimberti sul
settimanale “D” del 10 di gennaio 2015 “Di
cosa parliamo quando parliamo di Dio”, che di seguito propongo. Un tema
arduo, un’impresa improba. Non certo per l’illustre Autore avvezzo a sì
scottanti argomenti dell’esistenza umana. Io la prendo alla larga. E racconto
una storiella sentita – come altre - da G. B. È bene immaginarne lo scenario.
La collocazione più rispondente sarebbe di un giardino pubblico all’interno del
quale si aggirano i protagonisti della storiella. Li indicherò, per obiettiva
convenienza ed opportunità, come l’“uomouno” e l’“uomodue”. “Uomouno” si è
appena sollevato dalla panchina sulla quale ha provato, stravaccato, a dare uno
sguardo fuggevole al suo quotidiano sportivo consueto. Sollevatosi stancamente
dalla panchina si avvia con passo tardo per gli stretti sentieri del giardino
pubblico. Nell’incedere suo, quasi indolente, scorge in lontananza “uomodue”,
amico carissimo da tanto tempo non più incontrato. Lo attira il gesticolare di
“uomodue” che, avanzando per lo stesso stretto sentiero, agita forsennatamente
in alto ambedue gli arti superiori. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad una più
ravvicinata distanza, “uomouno” s’avvede come “uomodue” descriva per l’aere
circostante archi divergenti di circonferenze con ambedue gli arti superiori
puntando entrambi gli indici in alto come ad indicare un qualcosa, un cielo,
solamente a lui resisi visibili. “Uomouno” è preso da un ragionevole
sbigottimento. Quell’agitarsi di braccia per l’aere mette “uomouno” in una inevitabile, vivissima
agitazione. Vie d’uscite da quella imbarazzante situazione non si intravedono.
Come suol dirsi, “il dado è tratto”. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad un tiro
di voce il primo non trova di meglio che esordire con un - Come va? -.
“Uomodue”: -Va! -, con l’incessante agitarsi degli arti inferiori e gli
immancabili indici puntati verso il cielo terso. - Va come – riesce a proferire
“uomouno”. E fu a questo punto che da “uomodue” proruppe un inarrestabile profluvio di parole e parole sulle sue
personali e familiari disavventure. Un’atrocità. Da lasciare “uomouno”, come
suol dirsi, senza parole. Accennò solamente “uomouno”: - E con la salute? -.
“Uomodue”: - Va! -. “Uomouno”: - Mi pareva che…Mi pare che tu sia un tantino
inquieto -. “Uomodue”: - Ti sembro agitato? -. “Uomouno”: - Non saprei… -.
L’imbarazzo di “uomouno” era divenuto traboccante. “Uomodue”: - Per via che
agito per l’aere le braccia? -. “Uomouno”, con immenso imbarazzo: - Non saprei…
-. “Uomodue”: - È che cerco dio -. – Bene – fa “uomouno” rinfrancato. – È una
buona cosa cercare dio. Ma perché lo fai con quel tuo agitare le braccia? -. Ed
“uomodue”: - È vero o non è vero che dio sta in ogni luogo, in cielo in terra?
Ecco, se questo è vero un giorno mi riuscirà sicuramente di infilargli un dito
in quell’occhio che tutto vede e che non ha visto le mie sventure, per
accecarlo -. Fine della storiella. Ecco, “uomodue” aveva un ben distinta idea e
raffigurazione di quel dio dal quale si sentiva ingiustamente abbandonato e
lasciato solo al suo misero destino. Un “occhio” solo a rappresentare uno dei
misteri più insondabili ed indecifrabili dell’essenza umana. Per l’ostico argomento
“alla ricerca di un dio” ne ha scritto per l’appunto, forte della Sua scienza,
il professor Galimberti:
venerdì 2 ottobre 2015
Oltrelenews. 63 “Migranti economici”.
Da “Comodo
dire migranti economici” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 19
di settembre 2015: (…). …nell'impostazione proposta e imposta dalla Merkel nei confronti
dei migranti c'è un tarlo. I cosiddetti 'migranti economici' devono essere
rispediti nei loro Paesi. Chi sono i cosiddetti 'migranti economici'? Sono neri
dell'Africa subsahariana che non fuggono da nessuna guerra ma dalla fame. Nella
generale ignoranza che ormai contraddistingue il mondo occidentale si pensa che
l'Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Ai primi del Novecento
era alimentarmente autosufficiente, lo era ancora in buona sostanza (al 98%)
nel 1961. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978 e così
via precipitando. La situazione di oggi è sotto gli occhi di tutti. Cos'è
successo nel frattempo? Che i Paesi industrializzati, sempre alla ricerca di
nuovi mercati, per quanto poveri, perché i propri sono saturi, hanno introdotto
in Africa Nera il loro modello di sviluppo, disarticolando la cultura, la
socialità e l'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui
quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e
millenni. E quindi la fame. E' uno dei tanti effetti perversi della
globalizzazione. E qui si pongono due questioni. Una è teorica. Se il capitale
ha diritto ad andarsi a cercare il luogo della terra dove ritiene di poter
essere meglio remunerato, lo stesso diritto non dovrebbero averlo gli uomini?
Il denaro vale quindi più degli uomini? Questo nemmeno il vecchio Adolfo
avrebbe osato sostenerlo. Questione pratica. I neri africani (escludendo il Sud
Africa che fa caso a sè) sono 700 milioni. Se solo una quota significativa di
questa gente viene da noi ne saremo sommersi. Aiutarli economicamente? Sarebbe
'un tacon peso del buso' perché li integrerebbe ancor più strettamente in un
sistema che è destinato inesorabilmente a stritolarli. Dar loro «non il pesce
ma gli strumenti per pescarlo» come dicono molte anime pie? Nel padiglione Onu
all'Expo c'è un comico filmato il cui senso è che noi dovremmo insegnare agli
africani come si fa l'agricoltura. Ma se sono millenni che quelli hanno vissuto
di agricoltura! Semmai dovrebbero essere loro a insegnarla a noi. Ai tempi di
un G7 di molti anni fa ci fu un controsummit dei sette Paesi più poveri del
mondo, con alla testa l'africano Benin, al grido di «Per favore non aiutateci
più!». La sola cosa che dovremmo fare è andarcene da quei mondi, con le nostre
aziende assassine e la nostra cultura paranoica. Via, raus, 'foera di ball'. Ma
a parte che non lo faremo mai (e adesso ci si sono messi anche i cinesi che si
comprano l'Africa Nera e la sua terra a regioni) nemmeno questo sarebbe
risolutivo. I neri africani sono in una posizione di non ritorno. Non possono
ritornare alle loro economie perché le terre che, sotto il nostro impulso o
imposizione, hanno abbandonato si sono desertificate e non ci sono più nemmeno
le comunità che, col loro reticolo di solidarietà, consentivano a quel mondo di
esistere. Non possono che andare avanti. Cioè non possono che venire verso di
noi. E verranno e ci distruggeranno come noi abbiamo fatto con loro. È la sorte
che ci siamo meritati.
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