Da “Grazie all'est è Natale” di Giampaolo Visetti, sul settimanale “D”
del 21 di dicembre dell’anno 2011: Negli ultimi cinque anni il 70% dei prodotti
natalizi che si vendono nel mondo sono stati fabbricati in Cina. Yiwu, nello Zhejiang,
è una città costruita per soddisfare la richiesta globale di atmosfere
natalizie. Cinquecento imprese si sono specializzate in addobbi, luminarie,
decorazioni, candele, giocattoli, alberi di plastica, presepi e tutto ciò che
può essere trasformato in un regalo. Nessun cinese sa perché gli occidentali
mettano in scena uno spettacolo tanto costoso e così ripetitivo. Hanno capito
però le opportunità di business spalancate dal Natale e sono presto diventati
la culla di tutte le feste del mondo. In questi giorni, tra lo stupore della
gente di campagna catapultata nelle metropoli, i centri commerciali delle città
sono gremiti da Babbi Natale dal profilo asiatico che distribuiscono doni ai
clienti. Negli incroci principali, abeti bianchi sintetici alti trenta metri
non spengono mai le loro luci rosse. I negozi di lusso hanno sostituito le
armonie dell'Oriente con i classici della musica natalizia. Nessuno sa perché,
ma è Natale anche in Cina, e chi può spende e festeggia. Onorare ricorrenze
occidentali, tra i nuovi milionari, è molto snob. Nei luoghi più eleganti di
Pechino e Shanghai girano fuoriserie con il fiocco sul tetto, diamanti e giade
di dimensioni rispettabili sono esposti nelle vetrine, e i ristoranti offrono
cene che mai un cinese si sarebbe sognato: tacchini, pesci, lenticchie e
addirittura zamponi lessati, cibi che in Asia godono della popolarità riservata
in Europa ai fiori di loto ripieni di pinna di squalo. All'ingresso dei
supermercati riservati ai ricchi, sono posteggiate slitte cariche di inediti
panettoni made in China, e perplesse ragazze travestite da Santa Claus
propongono brindisi a base di champagne, sulle note di valzer viennesi. Davanti
alla Città Proibita la mummia di Mao Zedong si rivolta nel sarcofago, ma con il
diffondersi del virus del consumismo comincia ad essere più Natale in Cina che
in Norvegia. La crisi poi accelera la delocalizzazione delle ricorrenze. Il 2011, a Yiwu, è il Natale
dei record: ordini in crescita del 55% ed esportazioni schizzate a più 75%. Più
l'Occidente si impoverisce e più l'Oriente si arricchisce. "Siete disposti
a rinunciare a tutto - dice Lou Aiju, magnate dell'industria natalizia cinese -
ma non a Natale e a San Silvestro. Con i budget all'osso non vi restiamo che
noi, i migliori a proporre prodotti sempre più economici". In due anni,
cinquantamila operai cinesi sono stati capaci di ideare e lanciare sul mercato
quindicimila articoli natalizi diversi, cambiando il volto dei tradizionali
mercatini dell'Avvento nati nel mondo germanico e dilagati ovunque. In Europa
si taglia su tutto, e così almeno quel paio di giorni di obbligata felicità
devono salvarsi: a patto di essere sempre più low cost e sempre più made in
China. L'Asia? Assorbe e vende tutto, convinta che qualche occasione in più non
guasti nemmeno alle crescite nazionali. La Cina, onorati gli incassi di Natale
e Capodanno, si lancia già sul Festival di Primavera. Il 23 gennaio inizia
l'Anno del Drago, il più fortunato secondo l'astrologia imperiale. Il Drago è
il solo segno dello zodiaco cinese a incarnare una creatura mitologica, e
garantisce coraggio, forza, generosità e ricchezza. È l'emblema della patria e
ogni cinese aspira ad essere come un drago. Si annuncia un baby-boom, con
coppie che hanno atteso anni per generare un figlio nell'anno che promette di
esaudire ogni sogno. La gioia, anche qui, rimane pur sempre un enigma legato
alla nascita.
Da “Il regime plutocomunista” di Thomas Piketty, sul quotidiano la Repubblica dell’11 di novembre dell’anno 2014: Per analizzare il sistema che il Partito comunista cinese (Pcc) sta tentando di istituire a Hong Kong potremmo inventare un nuovo termine: il “plutocomunismo”. Un sistema che formalmente autorizza libere elezioni, ma con solo due o tre candidati previamente approvati, a maggioranza, da un apposito comitato costituito da Pechino, egemonizzato dagli ambienti affaristici di Hong Kong e da altri oligarchi filocinesi. Si tratta di uno stupefacente mix tra la logica comunista del partito unico (nella Rdt i cittadini erano chiamati a votare, ma solo per candidati dichiaratamente ligi al potere) e quella delle tradizioni europee incentrate sull’aristocrazia e sul censo (…). L’essenziale per Pechino è l’unità politica del vasto territorio cinese, condizione di un armonico sviluppo economico e sociale sotto la guida del partito comunista cinese, garante dell’interesse generale e del lungo termine. Di fatto, a confronto con altri Paesi emergenti — in particolare con l’India — il successo della Cina si spiega in parte con l’accentramento politico e la capacità dei pubblici poteri di finanziare le infrastrutture collettive, le imprese di proprietà mista e gli investimenti nell’istruzione e nella sanità, indispensabili allo sviluppo. Nonostante le privatizzazioni, il pubblico rappresenta ancora il 30-40% del capitale nazionale cinese, contro il 25% circa nell’Europa dei “trenta gloriosi” (gli anni dal 1945 al ‘75). Oggi nella maggior parte dei Paesi ric- chi l’incidenza del capitale pubblico è praticamente pari a zero (gli attivi pubblici sono appena superiori ai debiti) se non addirittura negativa in certi casi, come in Italia, per l’impatto preponderante del debito pubblico. Mentre il capitale privato — espresso in anni di Pil — è tornato alle vette del periodo precedente la Prima guerra mondiale. Visto da Pechino, sembrerebbe che il modello cinese fosse più idoneo a regolare il capitalismo e ad evitare la pauperizzazione dei poteri pubblici: un’idea confortata anche dai condizionamenti che bloccano la politica americana, e dall’impressione che l’Unione europea stia attraversando un marasma irrimediabile, col suo territorio spezzettato in 28 piccoli Stati-nazione in accanita concorrenza tra loro, invischiati ciascuno nel suo debito pubblico, con istituzioni comuni inefficienti, incapaci di modernizzare il proprio modello sociale e di proiettarsi nel futuro. (…). Il problema è che in buona parte le élite politiche cinesi non hanno granché da guadagnare dalla trasparenza sui patrimoni, da un sistema di imposte progressive e dallo Stato di diritto. E anche tra chi sarebbe disponibile a rinunciare ai propri privilegi in nome del bene comune sembra prevalere il timore che l’unità del Paese sia irrimediabilmente minacciata dall’affermarsi della democrazia politica, che pure dovrebbe procedere di pari passo con l’avvento di quella economica, e con la trasparenza fiscale e finanziaria. Una sola cosa è certa: da queste contraddizioni finirà per emergere una via unica, decisiva sia per la Cina che per il resto del mondo. E in questo processo, una tappa determinante è costituita dalle lotte in atto a Hong Kong.
Da “Le nozze
vip e l’uomo-casa le due Cine indignano il web” di Giampaolo Visetti, sul
quotidiano la Repubblica del 2 di dicembre dell’anno 2014: Per il matrimonio della figlia,
il segretario del partito comunista di Tangshan, nello Hebei, non ha badato a
spese. La sposa è stata condotta in un hotel di lusso da un corteo non
esattamente di basso profilo. Era composto da trenta Rolls Royce Phantom, sei
Ferrari e sei Bentley, oltre che scortato da otto motociclisti in sella ad
altrettante Harley Davidson. Cerimonia da oltre un milione di dollari. Bay
Yanchun, proprietario di miniere di carbone, imprese edili e agenzie
import-export, ha riservato quattro piani per i 400 invitati, tra cui star di
cinema e tivù. Pranzo abbondante: valore delle portate, circa 1500 euro a
coperto. A sfidare il divieto di «stili di vita stravaganti», emesso dal
presidente Xi Jinping, non è un nuovo milionario qualunque. Bay Yanchun vive in
una reggia da 2200 metri quadri nel mezzo di uno zoo privato e vanta una delle
collezioni d’arte più ricche dell’Asia. Le immagini del «matrimonio del secolo
della piccola imperatrice» hanno indignato il web cinese. Alti funzionari del
partito prevedono che il magnate sarà la prossima vittima della campagna «contro
eccessi e corruzione» scatenata da Xi Jinping. Nelle stesse ore il China Daily
ha infatti raccontato una delle tante storie dell’altra Cina, quella ancora
sulla soglia della fame. Liu Lingchao ha 39 anni ed è un migrante della contea
di Rongan, nel Guangxi. Come oltre 300 milioni di cinesi, per sopravvivere si
sposta seguendo le offerte di lavoro. Da sei anni vive un guscio che si porta
sulle spalle, costruito con rami e stracci. Ha scelto di dormire e mangiare in
una conchiglia mobile, come una tartaruga o un mollusco, per risparmiare pochi
yuan da inviare alla famiglia. La volgarità del matrimonio di Tangshan e la
dignità della casa-conchiglia del migrante del Guangxi in queste ore scuotono
la Cina: pochi ricchi e molti poveri, un abisso rispetto agli ideali di
uguaglianza della rivoluzione di Mao Zedong.
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