"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 1 gennaio 2015

Uominiedio. 16 “Cosa può salvare la chiesa di Roma”.



“Pari chi sentii diri…”. Sublime! Magia di una lingua che è propria di una terra bellissima e solatia. Di un’isola che è unica ed irripetibile al contempo. E poi, quel “pari…”, che è di una finezza straordinaria, che nulla ha a che vedere con quel “quì lo dico e quì lo nego” tanto in voga nel paese dei millantatori e dei saltimbanco. “Pari…”, che ha il sapore dell’ammissione aperta di non voler dire più di tanto ma anche del voler esplicitare la propria limitatezza a fronte di problemi che travalichino la sensorialità degli umani e la finitezza della loro mente. “Pari chi sentii diri”, dove sembra sia bene affermare di non essere sicuri del proprio sentire, inteso della facoltà sensoriale dell’udire, dell’ascoltare. Allora, “pari chi sentii diri” che nell’alto dei cieli – il cosiddetto “mondo di lassù” - regni trionfante la distrazione se non la dabbenaggine più profonda. È pur vero che quel “mondo di lassù”, che non è un qualsivoglia “mondo di mezzo”, è proprio l’empireo abitato da tutti gli spiriti, tanto dai buoni spiriti quanto dagli spiriti cattivi. Stento a credere che quel “pari chi sentii diri” possa essere riferito a quel Lucifero, un tempo in auge nel “mondo di lassù”, relegato poi negli inferi che seppur infernali fanno sempre parte di quel celestiale – nel senso di allocato nell’alto dei cieli - mondo non sempre comprensibile alla umana ragione. C’è da dedurne che quel “pari chi sentii diri”, in riferimento alla conclamata distrazione che sembra affliggere quel “mondo di lassù”, sia da attribuirsi ad una delle figure di quella che veniva e viene comunemente denominata la “santa trinità” e, non volendo pensare alla figura massima di quella triade, sia da intendersi riferita alla figura detta dello “spirito santo”, in verità terza della triade e quindi sottoposta alle altre due ben note figure, ma elevata, nei secoli dei secoli, al rango di chi avrebbe dovuto illuminare il sentiero impervio della chiesa di Roma e dettarne i pensieri più casti, più caritatevoli e guidarne le terrene opere di pace e d’amore. Oggigiorno se ne evince della inadeguatezza di quello “spirito” che per millenni, distrattamente, ha abbandonato – distrattamente? O affinché si realizzassero le profezie - la creatura che gli era stata affidata con i miserevoli risultati che si è chiamati impietosamente a verificare e denunciare.
Lo ha fatto da par Suo il teologo Vito Mancuso - “I 15 peccati della Chiesa secondo Francesco” – sul quotidiano la Repubblica del 22 di dicembre ultimo. Scrive l’illustre pensatore che si professa di confessione cattolica: La Curia romana è una creatura dei Papi, è l’espressione di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro che hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da loro stessi? Come si concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da loro direttamente e che è così tanto malata? La Curia romana non è piovuta in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero, ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento, indispensabile alla coerenza della vita giustamente tanto cara a papa Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio. Il papato per secoli ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il bacio della pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia detta anche triregno tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata, tendesse a riprodurne la logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere. È stato così per secoli (…), è così ancora oggi. (…). L’impietrimento mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è altro che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del successore di Pietro. Quindi la riforma della curia non può che condurre a una riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa strada? La volontà, di sicuro, sì. Eccoci giunti al punto cruciale: cosa potrà e come dovrà essere questa chiesa di Roma nel secolo ventunesimo? Potrà mai l’eroico Francesco abbattere le colossali mura della eterna città che racchiude e conserva gelosamente e pervicacemente “i 15 peccati della Chiesa” con la potenza del Suo parlare, come si abbatterono le mura della mitica Gerico al suono delle trombe? Eppur s’impone. È su questa ansia e necessità di salvezza di una religione fattasi chiesa e potere temporale che si misura l’interesse tanto dei credenti quanto di quegli uomini di buona volontà ma non credenti, che vedono nel novello vescovo della città eterna la speranza ultima di salvezza per quella chiesa che ha perduto la missione sua tra gli uomini. Si chiedeva, per l’appunto, il professor Umberto Galimberti “Cosa può salvare la chiesa” in una Sua riflessione del 4 di maggio dell’anno 2013 pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica. Annotava e scriveva l’illustre: Scriveva il teologo Gianni Baget Bozzo: "Sopravvivrebbe il cristianesimo alla fine dell'Occidente? E viceversa: sopravvivrebbe l'Occidente alla fine del cristianesimo?". Il vero problema della Chiesa non sta nella sua ricchezza così lontana dalla povertà evangelica, (…), perché la Chiesa è un'istituzione che per reggersi ha bisogno anche di denaro. Se non fosse istituzione, varrebbero le parole che Dostoevskij mette in bocca al Grande Inquisitore che ricorda a Gesù: "Se non ci fossimo noi, nessuno avrebbe memoria di te". Valga per tutti l'esempio di San Francesco, che ha interpretato alla lettera la povertà evangelica abbandonando le ricchezze della sua famiglia, senza per questo riuscire a modificare in alcun modo lo stile della condotta ecclesiastica e più in generale della comunità cristiana. Il problema della Chiesa non è neppure negli scandali sessuali che derivano esclusivamente dall'imposizione del celibato agli uomini di Chiesa, su cui il Vangelo non spende una parola. Questo problema può essere tranquillamente risolto abolendo il celibato, e imponendo ai sacerdoti, in ordine alla sessualità, solo quelle regole morali che la Chiesa chiede ai suoi fedeli. Il vero problema della Chiesa è che il cristianesimo, che è il tratto distintivo dell'Occidente, non ha più presa nel mondo occidentale sempre più laicizzato, secolare, agnostico, quando non ateo. Per cui, con Baget Bozzo, vien da chiedersi: che ne sarà dell'Occidente se il cristianesimo si estingue? E per converso, che ne sarà del cristianesimo se l'Occidente declina? Non è un caso che oggi il cristianesimo cerca i suoi fedeli e le vocazioni nel terzo e quarto mondo dove non c'è l'opulenza dell'Occidente. Un tentativo di salvataggio potrebbe essere la riunificazione di tutti i cristiani: cattolici, protestanti e ortodossi che estenderebbe il cristianesimo dall'America alla Russia compresa. Ma a ciò si oppone: il celibato dei preti non contemplato dagli ortodossi, il sacerdozio delle donne, previsto dai protestanti ma non dai cattolici, e soprattutto il primato del Papa che non è accettato né dai protestanti né dagli ortodossi. Su quest'ultimo punto, che è poi quello decisivo, sì è mosso, con intelligenza e competenza teologica, Benedetto XVI che ha detto di dimettersi "dal soglio di Pietro" e non da "Vicario di Cristo", che è un'espressione devozionale che si è affermata nel tempo, e neppure da "Papa", termine derivato dal greco páppas, espressione infantile per designare il padre, usata anticamente nella chiesa d'Oriente come appellativo dei vescovi. Dopo Benedetto XVI, Francesco I in più occasioni ha ripreso il concetto, chiamando se stesso "vescovo di Roma" com'era infatti nella prima cristianità. Con queste due mosse chiarificatrici, che indeboliscono il primato del Papa, Benedetto e Francesco hanno aperto finalmente la via per un dialogo, questa volta fruttuoso e non retorico, tra cattolici, protestanti e ortodossi che consente di superare gli scismi e pervenire all'unità dei cristiani. Perché questo è il vero problema della Chiesa. Non la ricchezza, che Francesco I con la sua biografia, le sue parole e i suoi gesti depotenzia, e neppure la condotta sessuale dei sacerdoti che con l'abolizione del celibato si potrebbe facilmente risolvere. La Chiesa non troverà mai soluzione ai suoi problemi fondamentali se laici e cattolici continuano ad insistere su quelli marginali, che hanno senz'altro un forte impatto emotivo, anche per l'amplificazione mediatica, ma che non sono in alcun modo decisivi per la riunificazione della cristianità, come invece lo è il primato pontificio. Buon anno a tutti noi.


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