“Pari chi sentii diri…”. Sublime!
Magia di una lingua che è propria di una terra bellissima e solatia. Di
un’isola che è unica ed irripetibile al contempo. E poi, quel “pari…”,
che è di una finezza straordinaria, che nulla ha a che vedere con quel “quì
lo dico e quì lo nego” tanto in voga nel paese dei millantatori e dei
saltimbanco. “Pari…”, che ha il sapore dell’ammissione aperta di non voler
dire più di tanto ma anche del voler esplicitare la propria limitatezza a
fronte di problemi che travalichino la sensorialità degli umani e la finitezza della
loro mente. “Pari chi sentii diri”, dove sembra sia bene affermare di non
essere sicuri del proprio sentire, inteso della facoltà sensoriale dell’udire,
dell’ascoltare. Allora, “pari chi sentii diri” che nell’alto
dei cieli – il cosiddetto “mondo di lassù” - regni trionfante
la distrazione se non la dabbenaggine più profonda. È pur vero che quel “mondo
di lassù”, che non è un qualsivoglia “mondo di mezzo”, è
proprio l’empireo abitato da tutti gli spiriti, tanto dai buoni spiriti quanto
dagli spiriti cattivi. Stento a credere che quel “pari chi sentii diri” possa
essere riferito a quel Lucifero, un tempo in auge nel “mondo di lassù”,
relegato poi negli inferi che seppur infernali fanno sempre parte di quel
celestiale – nel senso di allocato nell’alto dei cieli - mondo non sempre
comprensibile alla umana ragione. C’è da dedurne che quel “pari
chi sentii diri”, in riferimento alla conclamata distrazione che
sembra affliggere quel “mondo di lassù”, sia da attribuirsi
ad una delle figure di quella che veniva e viene comunemente denominata la “santa
trinità” e, non volendo pensare alla figura massima di quella triade,
sia da intendersi riferita alla figura detta dello “spirito santo”, in
verità terza della triade e quindi sottoposta alle altre due ben note figure,
ma elevata, nei secoli dei secoli, al rango di chi avrebbe dovuto illuminare il
sentiero impervio della chiesa di Roma e dettarne i pensieri più casti, più caritatevoli
e guidarne le terrene opere di pace e d’amore. Oggigiorno se ne evince
della inadeguatezza di quello “spirito” che per millenni,
distrattamente, ha abbandonato – distrattamente? O affinché si realizzassero le
profezie - la creatura che gli era stata affidata con i miserevoli risultati
che si è chiamati impietosamente a verificare e denunciare.
Lo ha fatto da par
Suo il teologo Vito Mancuso - “I 15
peccati della Chiesa secondo Francesco” – sul quotidiano la Repubblica del
22 di dicembre ultimo. Scrive l’illustre pensatore che si professa di
confessione cattolica: La Curia romana è una creatura dei Papi, è
l’espressione di ciò che per secoli è stato il Papato, governata dagli
infallibili successori di Pietro dei quali tra l’altro quasi tutti coloro che
hanno regnato nel ‘900 sono stati proclamati santi o beati. Com’è quindi
possibile il paradosso di papi così vicini a Dio e tuttavia incapaci di
mettere ordine tra i più stretti collaboratori, scelti da loro stessi? Come si
concilia lo splendore dei pontefici canonizzati con una curia che dipende da
loro direttamente e che è così tanto malata? La Curia romana non è piovuta
in Vaticano dal cielo, né è stata messa lì da qualche potentato straniero,
ma è sorta quale logica emanazione della politica ecclesiastica papale che ha
fatto del Vaticano un centro di potere assoluto, e non un organo di servizio
come vorrebbe oggi papa Francesco. Se si vuole la coerenza del ragionamento,
indispensabile alla coerenza della vita giustamente tanto cara a papa
Francesco, occorre concludere che i mali della Curia romana non possono non
essere esattamente i mali dello stesso potere pontificio. Il papato per secoli
ha concepito se stesso come potere assoluto senza spazio per una minima forma
di critica e meno che mai di opposizione, traducendo fisicamente questa
impostazione in precisi segni di spettacolare effetto quali il bacio della
pantofola, la sedia gestatoria, e la tiara pontificia detta anche triregno
tempestata di pietre preziose. Chi lavorava in Curia respirava quotidianamente
quest’aria e non c’è nulla da meravigliarsi se poi, nella sua vita privata,
tendesse a riprodurne la logica circondandosi a sua volta di lusso e di potere.
È stato così per secoli (…), è così ancora oggi. (…). L’impietrimento
mentale e spirituale denunciato da papa Francesco come malattia n. 3 non è
altro che la conseguenza di come nei secoli è stata interpretata la figura del
successore di Pietro. Quindi la riforma della curia non può che condurre a una
riforma del papato. Avrà la forza papa Francesco per intraprendere questa
strada? La volontà, di sicuro, sì. Eccoci giunti al punto cruciale: cosa
potrà e come dovrà essere questa chiesa di Roma nel secolo ventunesimo? Potrà
mai l’eroico Francesco abbattere le colossali mura della eterna città che
racchiude e conserva gelosamente e pervicacemente “i 15 peccati della Chiesa”
con la potenza del Suo parlare, come si abbatterono le mura della mitica Gerico
al suono delle trombe? Eppur s’impone. È su questa ansia e necessità di
salvezza di una religione fattasi chiesa e potere temporale che si misura
l’interesse tanto dei credenti quanto di quegli uomini di buona volontà ma non
credenti, che vedono nel novello vescovo della città eterna la speranza ultima
di salvezza per quella chiesa che ha perduto la missione sua tra gli uomini. Si
chiedeva, per l’appunto, il professor Umberto Galimberti “Cosa può salvare la chiesa” in una Sua riflessione del 4 di maggio
dell’anno 2013 pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica.
Annotava e scriveva l’illustre: Scriveva il teologo Gianni Baget Bozzo:
"Sopravvivrebbe il cristianesimo alla fine dell'Occidente? E viceversa:
sopravvivrebbe l'Occidente alla fine del cristianesimo?". Il vero problema
della Chiesa non sta nella sua ricchezza così lontana dalla povertà evangelica,
(…), perché la Chiesa è un'istituzione che per reggersi ha bisogno anche di
denaro. Se non fosse istituzione, varrebbero le parole che Dostoevskij mette in
bocca al Grande Inquisitore che ricorda a Gesù: "Se non ci fossimo noi,
nessuno avrebbe memoria di te". Valga per tutti l'esempio di San
Francesco, che ha interpretato alla lettera la povertà evangelica abbandonando
le ricchezze della sua famiglia, senza per questo riuscire a modificare in
alcun modo lo stile della condotta ecclesiastica e più in generale della
comunità cristiana. Il problema della Chiesa non è neppure negli scandali
sessuali che derivano esclusivamente dall'imposizione del celibato agli uomini
di Chiesa, su cui il Vangelo non spende una parola. Questo problema può essere
tranquillamente risolto abolendo il celibato, e imponendo ai sacerdoti, in
ordine alla sessualità, solo quelle regole morali che la Chiesa chiede ai suoi
fedeli. Il vero problema della Chiesa è che il cristianesimo, che è il tratto
distintivo dell'Occidente, non ha più presa nel mondo occidentale sempre più
laicizzato, secolare, agnostico, quando non ateo. Per cui, con Baget Bozzo,
vien da chiedersi: che ne sarà dell'Occidente se il cristianesimo si estingue?
E per converso, che ne sarà del cristianesimo se l'Occidente declina? Non è un
caso che oggi il cristianesimo cerca i suoi fedeli e le vocazioni nel terzo e
quarto mondo dove non c'è l'opulenza dell'Occidente. Un tentativo di
salvataggio potrebbe essere la riunificazione di tutti i cristiani: cattolici,
protestanti e ortodossi che estenderebbe il cristianesimo dall'America alla
Russia compresa. Ma a ciò si oppone: il celibato dei preti non contemplato
dagli ortodossi, il sacerdozio delle donne, previsto dai protestanti ma non dai
cattolici, e soprattutto il primato del Papa che non è accettato né dai
protestanti né dagli ortodossi. Su quest'ultimo punto, che è poi quello
decisivo, sì è mosso, con intelligenza e competenza teologica, Benedetto XVI
che ha detto di dimettersi "dal soglio di Pietro" e non da
"Vicario di Cristo", che è un'espressione devozionale che si è
affermata nel tempo, e neppure da "Papa", termine derivato dal greco
páppas, espressione infantile per designare il padre, usata anticamente nella
chiesa d'Oriente come appellativo dei vescovi. Dopo Benedetto XVI, Francesco I
in più occasioni ha ripreso il concetto, chiamando se stesso "vescovo di
Roma" com'era infatti nella prima cristianità. Con queste due mosse
chiarificatrici, che indeboliscono il primato del Papa, Benedetto e Francesco
hanno aperto finalmente la via per un dialogo, questa volta fruttuoso e non
retorico, tra cattolici, protestanti e ortodossi che consente di superare gli
scismi e pervenire all'unità dei cristiani. Perché questo è il vero problema
della Chiesa. Non la ricchezza, che Francesco I con la sua biografia, le sue
parole e i suoi gesti depotenzia, e neppure la condotta sessuale dei sacerdoti
che con l'abolizione del celibato si potrebbe facilmente risolvere. La Chiesa
non troverà mai soluzione ai suoi problemi fondamentali se laici e cattolici
continuano ad insistere su quelli marginali, che hanno senz'altro un forte
impatto emotivo, anche per l'amplificazione mediatica, ma che non sono in alcun
modo decisivi per la riunificazione della cristianità, come invece lo è il
primato pontificio. Buon anno a tutti noi.
Tanti auguri e un abbraccio. Franca.
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