È che il post-elezioni è sempre
difficile da metabolizzare. Finite sono le suggestioni. Di quelli che hanno, a
dir loro, vinto. Di quelli che non ammetteranno mai di aver perso. È che nel
post-elezioni si perde di vista quello che un tempo veniva definito il “bene
comune”. Che nelle democrazie rappresenta il massimo dei traguardi.
Poiché il risultato elettorale non è mai, in verità, il misuratore della buona
salute delle democrazie. La Storia grande sta lì a darcene prove inconfutabili.
Anzi è all’indomani delle elezioni che vengono allo scoperto i malanni che
affliggono le società democratiche. Soprattutto in quelle nella quali la “pialla”
del potere ha ben levigato il pensiero critico. Per la qual ragione montano in
cattedra “Quelli che… ho ragione io e basta”.
Che poi è il titolo del pezzo che Bruno Tinti ha pubblicato su “il Fatto
quotidiano” di oggi.
Scrive l’illustre opinionista: Il pensiero piano e il pensiero
sferico (…) sono i due sistemi con cui le persone affrontano il mondo.
Naturalmente, la prima contrapposizione che viene in mente è quella tra
l’egocentrico e il disinteressato. Ma ve ne sono altre non così caratterizzate
eticamente. Il credente e il laico, per esempio. In ogni modo, al di là delle
classificazioni, sta di fatto che il pensiero piano spinge le persone a
privilegiare ciò in cui credono; e il pensiero sferico le induce al dubbio.
Ovviamente il pensiero piano ha una forza intrinseca che quello sferico non ha:
è aggressivo, semplificatore, divide le persone in alleati e avversari. Ha bisogno
di un nemico. Il pensiero sferico gli è ontologicamente incompatibile: non è
necessario che l’oggetto del pensiero piano non sia condiviso; è sufficiente
che sia analizzato senza un’entusiastica approvazione preventiva. Al momento,
il pensiero piano domina il mondo della politica e dell’informazione. Bisognava
impedire che i comunisti si impadronissero dell’Italia: per questo è nata Forza
Italia; chiedersi se i comunisti esistevano veramente e – se sì – quanto fosse
un male che partecipassero alla vita politica è evidente dimostrazione di
comunismo. (…). Fin qui il nostro, che dà quella compiutezza che
mancava a quella mia percezione di una “scarnificazione” del pensiero
collettivo. È d’uopo che nel
post-elezioni si affrontino le questioni spinose e salienti. Quelle che
dovrebbero innalzare il livello della qualità del pubblico pensare. Tanto le
suggestioni pre-elettorali sono svanite e quelle post-elettorali hanno da fare
il corso loro. Ecco allora che in “quelli
che… ho ragione io e basta”, magistralmente tratteggiati dall’illustre
Autore, spunta fuori la necessità di capire gli stessi eventi elettorali. Per
come si sono dipanati e conclusi. Parlavo di suggestioni. E come non riandare
alla suggestione indotta dal “carisma”, che nella politica
sprigiona il massimo della sua azione. Mi soccorre nell’occasione un “pezzo”
straordinario a firma di Massimo Recalcati pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 26 di novembre dell’anno 2013. Massimo Recalcati è uno
psicoterapeuta della scuola lacaniana. Il Suo “pezzo” ha per titolo “Il carisma orizzontale”. E mi pare
proprio che abbia i requisiti per aiutare a trovare le prime risposte
post-elettorali. Scrive: Non è forse il carisma quella forma di
potere che rende ciechi, che muove le masse suggestivamente, ipnoticamente? Non
è il fascino carismatico del leader a spegnere il giudizio critico celebrando
religiosamente l’Imago del leader come una sorta di idolo pagano? (…). Uno dei
contributi decisivi che la psicoanalisi ha introdotto nel campo della politica
consiste, (…), nel pensare che le scelte degli individui — anche quelle
elettorali — siano sempre mobilitate non solo dal giudizio ma anche da spinte
pulsionali acefale, da desideri più forti, da esigenze “illogiche” che la
ragione non è mai in grado di governare del tutto. Queste esigenze non sono
solo quelle avidamente pulsionali del guadagno immediato, della difesa accanita
ed egoistica dei propri interessi, dell’accrescere la propria potenza, ma anche
quelle — altrettanto pulsionali — dell’aspirazione al cambiamento, alla
trasformazione dell’esistente, alla giustizia, all’apertura di mondi nuovi,
all’affermazione coraggiosa di una visione differente del nostro futuro. Questo
significa che la politica implica sempre la pulsione e il desiderio e non solo
la ragione. È un dato di fatto. Gli enunciati senza la forza singolare
dell’enunciazione (desiderio) risultano vuoti. (…). Il problema, (…), non è
demonizzare il carisma nel nome di una visione razionalistica della politica
che esclude dal suo orizzonte la dimensione della forza e dell’eccesso —
pulsione e desiderio — , ma costruire una clinica differenziale del carisma.
Cosa osserviamo a questo proposito? Semplice: l’esistenza di carismi
differenti. Il carisma berlusconiano non è assimilabile a quello renziano o a
quello grillino. Si tratta di carismi che hanno supporti diversi: il carisma
berlusconiano poggia sul fantasma della libertà, o, meglio, sulla riduzione
della libertà al principio di fare quel che si vuole, sull’inno
dell’individualismo — la riduzione della Legge a Legge ad personam — come
valore antropologico assoluto che finisce per rendere impossibile la vita
insieme. Gli altri suoi attributi — non secondari — sono quelli del potere, del
sesso e del denaro che radunano il consenso a partire da un meccanismo
elementare di identificazione proiettiva: essendo il nostro tempo il tempo
della morte degli Ideali, ciò che conta è godere il più possibile senza vincoli
di sorta e Berlusconi incarna con forza carismatica questo godimento libero
dalla Legge e per questa ragione ha saputo generare un consenso ventennale
attorno alla sua persona. Non nonostante infrangesse la Legge, ma proprio
perché sottoponeva la Legge a una volontà — la sua — più forte. (…). In Grillo
il vento dell’antipolitica è suscitato non da un fantasma di libertà, ma da
quello di purezza e di incontaminazione sostenuto da un confine immunitario
rigido e fondamentalmente paranoico che rende impossibile qualunque trattativa
con chi non appartiene alla casta identitaria dei puri. Qui non è il potere, né
il sesso, né il denaro, né una visione iperindividualista della libertà, a
fondare il carisma. Le ragioni da cui scaturisce il carisma di Grillo sono le
stesse ragioni della sinistra, ma in esso si miscelano in modo singolare e
inquietante estremismo (verso l’esterno) e autoritarismo (verso l’interno)
secondo la più tipica fenomenologia di tutti i leader integralisti. (…). …il
carisma di Renzi. Mi pare che questo carisma faccia perno essenzialmente su
un’idea positiva della giovinezza. Non certo quella estetica perseguita
pateticamente da Berlusconi, ma quella che coincide con l’esigenza del sogno e
della trasformazione, del progetto e del coraggio, della necessaria assunzione
di responsabilità che attende le nuove generazioni. Per questo, probabilmente,
esso sa radunare attorno a sé quei giovani che abbandonano le sedi più
tradizionali dei partiti, Pd compreso, e che rischiano di essere assorbiti
dall’antipolitica dell’iperindividualismo berlusconiano o del fondamentalismo
grillino. Si tratta chiaramente di un carisma che non si sostiene più — come
accadeva per i grandi leader storici della sinistra democratica —
sull’autorevolezza della figura paterna. Da questo punto di vista i funerali di
Enrico Berlinguer non hanno solo chiuso una stagione politica, ma hanno anche
segnato il tramonto definitivo del carisma patriarcale di cui il leader era la
personificazione. (…). Dalle cronache che ne hanno fatto oggi i
quotidiani sembra che nella riunione della Direzione del PD di ieri non sia
volata una sola mosca. La vivacità di dibattito in quella sede sembra si sia
spenta all’improvviso come d’incanto. Sarà stato per quel “carisma” così ben
rappresentato da Massimo Recalcati? Ha tentato di dare una prima risposta
all’esito elettorale Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” del 27 di maggio.
Titolo dell’editoriale: “Democrazia
Renziana”. Ha scritto: Matteo Renzi non è il nuovo Berlusconi (…).
Ma la pancia di una certa Italia lo vede e lo sente come il nuovo Berlusconi,
cioè come il nuovo messia, il salvatore della patria, il populista ridens con
il sole in tasca e 80 euro in mano, l’uomo solo al comando nelle cui braccia
gettarsi e del cui verbo ubriacarsi, un po’ per speranza un po’ per
disperazione. Un Berluschino un po’ allergico ai controlli, alle critiche e ai
sindacati, con qualche conflitto d’interessi fra gli amici, ma molto più
giovane e meno ideologicamente connotato, più sbiadito e gelatinoso, dunque più
trasversale. In una parola: democristiano. In senso tecnico, non deteriore.
Bisogna infatti risalire agli anni 50, cioè all’apogeo del centrismo, per
trovare un partito – la Dc – sopra il 40%. Anche allora pochi dichiaravano di
votarla, ma la votavano in tanti. Un partito-contenitore, un grande sughero
galleggiante che ospitava a bordo tutto e il contrario di tutto, e lasciava
fare a ciascuno i suoi comodi. Prospettiva molto più comoda e accattivante
della quaresimale austerità berlingueriana, incautamente evocata da Grillo e
Casaleggio nel paese del Carnevale perpetuo, anche quando non c’è nulla da
ridere. La Dc durò 40 anni, Berlusconi 20. (…). Al momento vale il detto di
Kierkegaard: “La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il
megafono del comandante non è più la rotta, ma che cosa mangeremo domani”. (…).
È iniziata la metabolizzazione post-elettorale. Prosit!
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