Scrive Stefano Feltri su “il Fatto Quotidiano” di
ieri, mercoledì 7 di maggio, chiudendo la Sua presentazione del volume di
Thomas Piketty “Capital in the XXI
century” – Belknap press (2014), pagg. 696 - “Piketty riscrive l’economia: i ricchi vinceranno sempre” -: Adesso ci vuole qualcuno (di sinistra) che
scopra come distruggere la Pikettynomics e il suo cuore che Robert Solow
identifica nel “meccanismo del ricco che diventa più ricco”. E mi viene
spontaneo chiedermi cosa ci sia “di sinistra” in tutto il bailamme
di proposte che il rampante primo ministro del bel paese propone a getto
continuo. Proposte che di converso vanno nella direzione opposta a quelle
sensibilità che la sinistra sembra avere smarrito. Nell’era della
globalizzazione il peccato più grande che la sinistra abbia potuto commettere è
stato quello, e perdura nell’azione del governo dei giovani, di appiattirsi, se
non inseguirle, sulle proposte economiche e politiche del liberismo della
finanza.
Scrive Stefano Feltri: (…). …le nostre economie occidentali non si
stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, le spinte verso la
socialdemocrazia e la redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e
un’illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco
come quello dei romanzi di Jane Austen e Balzac in cui non importa quanto
lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché
la ricchezza non si accumula, si eredita. E questo non succede (soltanto)
perché l’economia occidentale è trainata da tanti avidi Gordon Gekko che, come
nel film di Oliver Stone, accumulano profitti a spese della classe media. No, è
la dinamica interna dell’economia: se il capitale (…) cresce sempre più in
fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della
classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre
più ricchi. E tutto ciò avviene a tutte le latitudini laddove il
capitale detta le regole di una finanziarizzazione senza morale alcuna fine a
se stessa. Ad est come ad ovest. Nel paese del capitalismo storico e più
avanzato così come nel paese divenuto capitalista nella storia sua più recente.
Illuminano il quadro due straordinarie corrispondenze da quei due angoli
opposti. “Far west” è la settimanale rubrica di Federico Rampini su “Affari&Finanza”.
Nell’ultimo numero del settimanale del 5 di maggio Federico Rampini scrive – “Il maxi-schermo a prezzi stracciati ma la
scuola sempre più cara” -: Che cosa significa essere poveri nel 2014 in
America? La questione è di un’attualità terribile. Ricorre il 50esimo
anniversario dalla “guerra alla povertà” che fu lanciata dal presidente
democratico Lyndon Johnson, tenace continuatore delle politiche riformiste di
John Kennedy. E il sindaco di New York, Bill de Blasio, constata che il 46% dei
suoi cittadini vivono vicino alla soglia della povertà. (…). Dai tempi di
Johnson non c’è dubbio che i poveri stiano meglio. L’accesso ad alcuni beni
materiali e consumi essenziali è migliorato. Tuttavia l’America di oggi è per
certi aspetti una nazione ancora più crudele di quella degli anni Sessanta. Ti
dà il maxi-schermo tv ad alta definizione a prezzi stracciatissimi, quasi
regalato. Ma rende sempre più difficile a tuo figlio l’accesso a
quell’istruzione di qualità, che un tempo era la via maestra verso la mobilità
sociale, il biglietto di viaggio verso un futuro migliore. Perfino la salute
diventa un bene distribuito in maniera sempre più diseguale, con una sanità di
serie A e una di serie B (…). È evidente inoltre che alcuni dei beni oggi
accessibili anche ai poveri, vedi lo schermo tv ultrapiatto o il computer, sono
per lo più prodotti in nazioni emergenti: mentre ai tempi di Johnson per
fabbricare beni analoghi (…) si dava lavoro a colletti blu americani
relativamente ben remunerati. Questo non significa che i settori dove c’è stata
iperinflazione paghino delle retribuzioni stratosferiche: le rette
universitarie salgono alle stelle ma per molti prof oggi due città come New
York e San Francisco sono off limit, per gli affitti troppo cari. L’operazione
nel tempo è stata molto più sottile. A quell’immenso corpo sociale che era
stato costruito dal capitalismo manifatturiero – il cosiddetto “ceto medio” - si
sono sottratti quegli strumenti di scalata sociale e di emancipazione duramente
conquistati. E con l’illusione del maxi-schermo piatto si è dato modo di
invertire una tendenza che avrebbe qualificato al meglio la vita delle grandi masse
dell’Occidente industrializzato e cristianizzato. Nella disattenzione delle
moltitudini. O meglio, forse, nell’indifferenza delle moltitudini. Si pensava
che sarebbero bastate le conquiste di quei beni materiali per progetti di vita
migliore. Un’illusione. Oggigiorno se ne sconta la pena. Uno sguardo poi sul
versante opposto del nuovo capitalismo, in quello che fu denominato l’impero
celeste. Ce lo propone Giampaolo Visetti nella Sua rubrica “Fra east” sempre sull’ultimo
numero di quel settimanale – “Crisi
conclamata e pechino ora ha paura dell’instabilità” -: La crisi economica cinese allarma
il mondo. Fino ad alcuni mesi fa i mercati si chiedevano se la frenata della
crescita ci sarebbe stata. Poi quanto duro sarebbe stato l’atterraggio. Oggi la
crisi è un fatto acquisito: lo stop è considerato inevitabile e la domanda
riguarda solo i tempi. (…). Il sintomo più evidente del problema sono le
rivolte operaie. Dieci anni fa la Cina era scossa da 87mila manifestazioni
all’anno con oltre cento lavoratori. Nel 2011 gli incidenti hanno sfiorato
quota 200 mila. Nel 2013 e nei primi mesi del 2014, scioperi e proteste si sono
moltiplicati al punto da costringere il governo a sospendere la diffusione dei
dati. A preoccupare Pechino non è solo la sindacalizzazione operaia senza
precedenti, favorita dall’accesso a Internet. Per la prima volta gli scioperi
dilagano anche nelle regioni meno industrializzate, dove le autorità hanno
indirizzato gli investimenti contando su costi produttivi inferiori. La prima
generazione di lavoratori migranti si accontentava di non morire di fame. Figli
e nipoti di quegli operai pretendono invece di diventare classe media. In
aprile ha fatto il giro del mondo la notizia del maxi-sciopero che per quasi
tre settimane ha paralizzato il colosso delle calzature sportive Yue Yuen,
fornitore dei più importanti marchi globali. I lavoratori volevano
assicurazione, previdenza e la garanzia del welfare per le proprie famiglie.
Per scongiurare un contagio dell’instabilità, a 25 anni dalla rivolta
studentesca repressa nel sangue in piazza Tiananmen, il governo ha costretto la
proprietà taiwanese a promettere la concessione dei diritti rivendicati dai
dipendenti. L’aumento dei costi minaccia però i profitti e i manager della Yue
Yuen hanno avvertito che il trasferimento della produzione, nel Sudest asiatico
o in America centrale, è un’opzione probabile. La vicenda rivela il cuore dalla
crisi cinese. Il sistema industriale, ad alta intensità di lavoro, per reggere
non può trattare equamente gli operai, né rispettare l’ambiente. Se viene
costretto a farlo, ostaggio dell’export low cost, non è più in grado di
affrontare la concorrenza straniera di altre nazioni in via di sviluppo. La
Cina si scopre così stretta tra la nuova capacità di mobilitazione operaia, la
necessità che i lavoratori cinesi si trasformino anche in consumatori, e la
potenziale competitività dei mercati che fino ad oggi erano stati solo suoi
clienti. (…). E così il quadro si completa. All’est come all’ovest. Scrive
ancora Stefano Feltri: Gli attuali super stipendi dei top manager
americani sono l’equivalente dei latifondi ricevuti in dono dai sovrani nelle
economie fondali, cioè la premessa per una futura e crescente disuguaglianza
tra chi ha e chi non ha (e non potrà mai avere). Simon Kuznets ci aveva
convinto che la disuguaglianza tende a ridursi nelle fasi di sviluppo, a
prescindere dalla politica economica: è la marea che spinge in alto tutte le
navi, gli yacht come le scialuppe. (…). Ma (…) non è stato il progresso a
ridurre la disuguaglianza, ma la Seconda guerra mondiale. Soltanto eventi
traumatici come una guerra possono bilanciare l’effetto di una tensione
profonda dell’economia. Tutto il resto sono palliativi, inclusa la proposta (…)
di una patrimoniale globale sulle grandi ricchezze: 1 per cento sui patrimoni
tra uno e cinque milioni di euro, 2 per cento sopra i cinque milioni. Ogni anno
e con un coordinamento tra tutti i Paesi del mondo per evitare che i ricchi si
rifugino nei paradisi fiscali. (…). …i critici più liberisti, (…), hanno
concluso che nel mondo (…) i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in
colpa. Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, it’s the economy,
stupid. (…). Finito l’effetto livellatore della guerra, il capitale ha corso
più dell’economia. (…). …c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta
succedendo. E assolve tutti. I ricchi che si arricchiscono, i politici che non
fanno abbastanza politiche re-distributive , gli imprenditori che non investono
nell’economia reale, le banche che non prestano. (…). Quali “politiche
re-distributive” ha in mente il rampante primo ministro del bel Paese? Non
è dato sapere.
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