Da “Le gaffe
non fanno più ridere” di Francesco Merlo, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 25 di ottobre 2017: (…). «Hai fratelli ebrei, da Claudio... » è
la dedica scritta a penna, proprio con l'acca del verbo avere, sulla corona di
fiori bianchi e azzurri che sono i colori della Lazio ma anche della bandiera
israeliana. Ed è una di quelle coincidenze che la psicanalisi definisce
sincroniche e Lotito "sinestetiche". (…). …l'entrata in scena di Anna
Frank è illuminante. Improvvisamente ci conferma infatti, e per sempre, che
abbiamo colpevolmente troppo riso di Lotito perché serviva al nostro
giornalismo spettacolo, dal "Processo del lunedì" alla "Domenica
Sportiva" a "Tiki Taka" sino alla prosa colta degli
intellettuali raffinati che si compiacciono nell'esegesi del plebeismo, quasi
fosse l'essenza popolare del calcio, un po' come Machiavelli che amava giocare
a carte nelle bettole. Per anni ci siamo divertiti per i sei telefoni che a
volte suonano tutti insieme nelle tasche dove Lotito tiene rotoloni di
contanti. E, ancora, abbiamo riso del suo rapporto con Tavecchio che definì «l'ometto
mio». Tutti abbiamo collezionato le sue frasi più strampalate da «le diastole
non sono dialisi» a «prendere le vacche per le zinne e i tori per le palle». Ma
Anna Franche cosa c'entra, com'è arrivata nel mondo di Lotito? «Come è
diventato possibile che Anna Frank sia considerata un modo per offendere? », si
è chiesto (…) Mario Calabresi (direttore del quotidiano la Repubblica
n.d.r.). (…). …l' immondizia antisemita contro la Roma ha radici nella sua
storia. Pubblicato da Giuntini è appena arrivato in libreria «Presidenti» di Adam
Smulevich che racconta la biografia di Renato Sacerdoti, presidente della Roma,
fascista ed ebreo, che, quando furono promulgate le leggi razziali fu
allontanato dalla squadra e mandato al confino nonostante fosse un veterano
della marcia su Roma. Il libro aggiunge che tra i fondatori della Roma c'erano
le grandi famiglie ebree: Spagnoletto, Coen, Della Seta, Ascarelli,
Spizzichino... (…). E finalmente capisco che a Roma il vero nemico degli ultrà
è lo sbirro. È Franco Gabrielli, il prefetto, il capo della polizia che ha
messo le telecamere nelle curve dove la folla protegge e nasconde i vigliacchi,
gli attentatori, i razzisti. Lo stadio infatti è l'anomìa, la dimensione del
fuorilegge, l'impunità appunto, che nel calcio è molto antica, almeno quanto le
corna dell' arbitro. E si capisce che per gli estremisti le telecamere siano
molto più pericolose di quell' elicottero che ai vecchi tempi ogni tanto si
abbassava, faceva vento, emetteva fantastici fasci di luce rossa, con un
effetto cinema che piaceva molto ai beduini, agli ultrà in cerca di sensazioni
forti. Ecco perché, in mattinata, quel Lotito che portava i fiori in Sinagoga è
sembrato a tutti quasi imbarazzato, di sicuro meno insolente e gradasso del
solito. Uno degli omoni che gli fanno corona, un dirigente con la cravatta nera
e lo stemma della squadra, mi confessa: «Non l'avevo mai visto così. Ascolta la
voce, è strana; come se dice, è 'na voce cotta». E voleva dire rotta. Dice
Lotito: «Io li ho combattuti ». Chiediamo: «Quando?». Risponde: «In illo
temporis» con il suo famoso latinorum, quello di «est modus in sciaradis». Poi
evoca il complotto e aggiunge, con la voce che davvero gli si rompe: «Quelle
figurine sono state preparate artatamente». Ripete l' avverbio artatamente
almeno tre volte. Lo scandisce pure: «ar-ta-ta-men-te». La signora ebrea che mi
accompagna è convinta che «gli ultrà romanisti e gli ultrà laziali, solitamente
divisi dalla stupidità del calcio, sono invece uniti nell' uso di un
antisemitismo cieco che non capiscono, e che a loro arriva come un' eco. E
poiché sono, anche loro, cretini intelligenti visto che smanettano google,
invece di mettere la maglietta giallorossa al solito Shylock con il naso adunco
che si fa pagare in libbre di carne umana, tirano fuori Anna Frank. Non sanno
che è olandese, non sanno come è morta, sanno però che scrisse un diario che
non hanno letto, e che è ebrea come tutti i nemici. Sono confusi come il loro
presidente, ma la confusione non assolve nessuno». Confuso, dunque? Lunedì
sera, quando organizzava la cerimonia di riparazione, cercando al telefono un
consenso dalla Comunità ebraica che non gli è arrivato, Lotito non sapeva dove
sta la Sinagoga, e chiedeva con insistenza l'indirizzo di una lapide, di una
stele, di un monumento: «C'è la lapide ai deportati», gli hanno suggerito. E
lui: «Quali?». Risposta: «Quelli del 16 ottobre». E Lotito: «Ma quale 16
ottobre, domani è 24 ottobre». Chiedo, nel covo della Lazio: «Sapete cosa
accadde il 16 ottobre del 1943?». Ma la discussione diventa difficile e dunque
evito l'interrogazione. Di sicuro sanno più di Anna Frank che del "sabato
nero" nel ghetto di Roma.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
giovedì 26 ottobre 2017
mercoledì 25 ottobre 2017
Paginatre. 99 “Stefano Rodotà ed il diritto di avere diritti”.
Da “Rodotà,
giurista che metteva la persona sopra le regole” di Gustavo Zagrebelsky,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di ottobre 2017: (…). Che
cosa è la Costituzione se ogni questione di diritto costituzionale alimenta le
opinioni più diverse in contrasto le une con le altre e motivate da finalità
divergenti? La conseguenza è una sola: la Costituzione sparisce e nella lotta
politica, che dovrebbe trovarvi la sua regola, prevalgono gli interessi
politici di breve durata. Chiunque, per quasi qualsiasi buona o cattiva azione,
trova il parere del costituzionalista, talora il “parere pro veritate”, che gli
conviene. Non so perché l’essere “costituzionalisti” goda d’un certo plusvalore
presso i formatori della pubblica opinione. Stefano Rodotà era spesso definito
tale ma, tutte le volte che poteva, reagiva con un piccolo sorriso sardonico:
non costituzionalista, non sum dignus sembrava sottintendere con un poco
d’ironia, ma civilista. Insomma, sembrava volesse marcare una distanza e non
confondersi rispetto a un mondo che, da questi anni, è andato disgregandosi e
contribuendo alla confusione. (…). Il percorso intellettuale di Stefano Rodotà
è particolarmente significativo. È stato giurista al di sopra delle
classificazioni disciplinari. Aggiungo: giurista non totalizzante, non fanatico
delle cosiddette “regole”. Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto
altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura, etica,
interessi. C’è, del 2006, un suo libro che mi pare dovrebbe essere letto e
meditato di più di quanto lo sia stato. S’intitola La vita e le regole. Tra
diritto e non diritto. Non tratta soltanto degli aspetti giuridici di ciò che
da qualche anno si usa definire “la nuda vita”; tratta dei limiti del diritto,
dei pericoli del guardare il mondo solo con occhi del giurista, dell’illusione
di credere che il mondo stia in piedi perché c’è il diritto e ci sono i
giuristi. I suoi studi sul concetto di “persona” dicono quanto è sbagliato
considerare la persona solo come “persona giuridica”, cioè come fascio, punto
d’imputazione di diritti e di doveri, secondo la concezione kelseniana. Fatta
questa delimitazione delle pretese del diritto, tra ciò che rientra nel suo
ambito, è oggi impossibile costruire steccati. Stefano è stato un illustre
civilista ma, evidentemente, non soltanto. Consultiamo i temi delle sue opere
maggiori, seguendone i percorsi. All’inizio stanno due libri su temi del
diritto civile che più “classici” non potrebbero essere, la responsabilità
civile (Il problema della responsabilità civile del 1964) e il contratto (Le
fonti d’integrazione del contratto, del 1969). Chi consultasse questi primi
scritti vi troverebbe una traccia che avrebbe portato lontano: l’impostazione
non formalistica che collega il diritto non al diritto, cioè con sé stesso in
un circolo vizioso, ma al diritto in funzione della sua - potremmo dire - “giustezza”
rispetto alle aspettative sociali. Del 1967 è lo scritto che mette in rapporto
l’oggetto dei suoi studi con il contesto culturale in cui si posa, si è posato
in passato e si vorrebbe che si posasse in futuro, Ideologie e tecniche della
riforma del diritto civile. Di quegli anni è il libro forse più famoso, Il
terribile diritto (1981) più volte ripubblicato fino all’edizione del 2013 che
porta un’aggiunta nel titolo: Studi sulla proprietà privata e i beni comuni.
Questa riedizione- integrazione è una testimonianza della continuità del suo
impegno scientifico e civile. L’idea, anzi la categoria ricorrente come oggetto
polemico in tutti i suoi scritti è la “logica proprietaria” o, potremmo dire,
rapace, la logica che fagocita tutto e tutti nei meccanismi del mercato e
mercifica ogni bene mettendolo a disposizione della predazione dei più forti e
sottraendolo ai deboli. Contro questa forza distruttiva delle relazioni tra gli
esseri umani stanno innumerevoli scritti e interventi nelle più diverse sedi.
martedì 24 ottobre 2017
Primapagina. 53 “Rosatellum&astensionismo”.
Da “Il
Rosatellum crea astensionismo” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 18 di ottobre 2017: (…). La legge Rosato istiga alla sfiducia
nelle istituzioni perché disprezza la Costituzione e le sentenze della
Consulta, insiste sulle liste bloccate, è pensata come una conventio ad
excludendum di alcuni partiti ai danni di altri; inoltre, ha costretto il
governo a un improprio voto di fiducia che lo delegittima, e, se sarà firmata
da Mattarella, ne appannerà la figura. La sfiducia nelle istituzioni genera
astensionismo, questo lo dicono tutti; ma il prevedibile calo di affluenza alle
urne viene di solito presentato come un by-product della legge elettorale, un
effetto previsto ma collaterale. E se allontanare i cittadini dalle urne fosse
invece, in una strategia perversa ma tutt’altro che fantapolitica, scopo
primario di una legge come questa? Gli indizi abbondano, a cominciare dai
grandi festeggiamenti dopo le Europee del 25 maggio 2014 per il 40,81 % del Pd,
definito da Renzi “risultato storico”. Nei commenti di allora (verificare per
credere) ben pochi notarono che la coalizione di ferro fra non votanti e schede
bianche o nulle superava di molto, col suo 49,63%, il risultato del Pd. E che
la percentuale Pd, se calcolata sul totale dell’elettorato, valeva in realtà
solo il 20,64%. Ma i trionfalismi di Renzi travolsero la scena politica italiana,
innescando l’arrogante marcia di una riforma costituzionale scritta coi piedi e
approvata a occhi chiusi da un Parlamento di nominati. La sicumera con cui si
dava per scontata la vittoria nel referendum era dovuta al calcolo che alle
urne si presentassero da una parte solo i fedelissimi (per convenienza o per
inerzia) e dall’altra un manipolo di “gufi” ormai condannati a vani piagnistei.
Il referendum del 4 dicembre, grazie a una mobilitazione di imprevista
ampiezza, portò invece alle urne milioni di persone (specialmente giovani) che
affossarono la stolta riforma e chi vi si era prestato. Ma questa inversione di
tendenza, anche per la natura assai composita degli elettori del No, non incide
minimamente sulla tendenza a un astensionismo crescente, dimostrato anche dai
voti alle elezioni regionali (47,4% di votanti in Basilicata, un drammatico
37,67% in Emilia; in Sicilia vedremo). Intanto, nulla fanno i nostri governi
per recuperare alla democrazia i 22 milioni di cittadini che non votarono alle
Europee. Perso il referendum, non è cambiato il piano di chi vuole impadronirsi
di un’Italia in cui la fiducia nelle istituzioni cala ogni giorno: avere sempre
più voti (in percentuale) su sempre meno votanti. E, tramontato il sogno di una
maggioranza solitaria del Pd, raggiungere comunque questo risultato mediante
una qualche larga intesa, riesumando Verdini e Berlusconi e rastrellando voti a
qualsiasi costo. Per poi ritentare, con sprezzo del referendum, lo
stravolgimento della Costituzione già fallito una volta. (…). Ma non sarebbe
forse l’ora, alla vigilia di nuove elezioni, di fare il bilancio degli errori
compiuti all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 ? Allora il Pd, anziché
tentare altre coalizioni anche di limitato scopo e durata, scelse l’abbraccio
mortale con Berlusconi. Allora il capo dello Stato pretese irritualmente dal
presidente incaricato Bersani di garantire una maggioranza parlamentare prima
di presentarsi alle Camere, e Bersani piegò la testa rinunciando al mandato.
Allora Beppe Grillo derise apertamente chi invitava M5S e Pd a negoziare una
coalizione d’obiettivo, con il programma di risolvere annose questioni come una
sana legge elettorale e una legge sul conflitto d’interessi, e i due appelli in
merito (9 marzo: Un patto per cambiare, se non ora, quando? e poi 10 marzo:
Facciamolo!), pur raccogliendo 200 mila firme in pochi giorni, restarono
lettera morta. Molto è cambiato da allora, ma qualcosa di uguale è rimasto: la
scarsa democrazia interna dei partiti, dal Pd al M5S, che favorisce
l’astensionismo creando condizioni favorevoli a una politica che
sull’astensionismo fa leva; mentre i fuoriusciti dal Pd non trovano nemmeno la
strada per far blocco tra loro. La legge elettorale contribuisce a tener fissa
la bussola del discorso politico sul “come” e non sul “che cosa”, sulle
coalizioni e non sulle necessità del Paese, sui giochi di potere e non sui
programmi di governo. Proprio nessuno vuol provare a porvi rimedio? Nessuno
vuol provare a capovolgere le regole del gioco, facendo leva sulla democrazia
interna di partito e su un chiaro progetto di attuazione dei diritti
costituzionali per riportare alle urne quegli stessi giovani elettori che il 4
dicembre mostrarono fiducia nella Costituzione?
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