"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 agosto 2015

Oltrelenews. 58 “Il tramonto del Dragone”.



I segnali c’erano tutti. E se solo oggi la Cina diviene - all’improvviso - il “casus” della finanza globale, non è proprio da credere. Oggi, a pagare saranno i milioni e milioni di cinesi che indebitandosi, invitati a fare ciò dal loro stesso governo, hanno concorso a creare la “bolla” azionaria speculativa che va sgonfiandosi velocemente. Da “Pil cinese dietro la frenata il mancato decollo dei consumi interni” di Giampaolo Visetti, sul settimanale “Affari&Finanza” del 16 di marzo 2015: Davanti all’Assemblea nazionale del popolo, il premier cinese Li Keqiang ha fissato al 7% l’obiettivo di crescita del Pil di Pechino nel 2015. È il target più basso da un quarto di secolo, quasi mezzo punto in meno del 7,4 dello scorso anno, già record negativo. Quella che i leader comunisti chiamano «nuova normalità» di una «crescita sostenibile», produrrà un incremento annuo del Pil di oltre 800 miliardi di dollari, superiore a quello di cinque anni fa, quando ancora la crescita cinese viaggiava a doppia cifra. Il più 7% della Cina di oggi consentirà di creare 10 milioni di nuovi posti di lavoro nel Paese, di mantenere la disoccupazione sotto il 4,5% e di confermare che il Dragone è la super-potenza economica con il passo più veloce del G20. In Occidente però le previsioni cinesi allarmano i mercati e vengono sintetizzate con il termine «frenata». La sensazione è che anche la Cina, in crisi come il Giappone e parte dell’Europa, soffochi la ripresa Usa. Per i numeri è esatto, il rallentamento c’è. Non uno dei governi delle grandi economie, avanzate o in via di sviluppo, rifiuterebbe però di firmare per chiudere il 2015 con una crescita pari a quella di Pechino. In febbraio l’export cinese ha sfiorato il record del quinquennio, con una crescita del 48,3%. L’avanzo commerciale è stato di 60,6 miliardi di dollari. A preoccupare l’economia globale non deve essere l’atterraggio del Pil di Pechino, ma i problemi nuovi che la Cina è costretta ad affrontare. Li Keqiang ha ammesso che gli investimenti rallentano e che la domanda di consumi interni è ben lontana dal riempire il vuoto scavato dall’austerity occidentale. Per le autorità il vero allarme è la crescente difficoltà nel rimuovere ostacoli e interessi che cercano di far naufragare le riforme strutturali. Il premier cinese le ha definite «le tigri in mezzo alla strada». «Problemi sistemici, istituzionali e strutturali – ha detto – si aggiungono a catene mentali e interessi costituiti per fermare lo sviluppo». Queste «tigri» sono i funzionari centrali e locali, regioni e città sommerse dai debiti, nuovi miliardari, banche e imprese di Stato, massa maggioritaria che sopravvive grazie a corruzione e rendite di posizione. La sfida di Pechino non è il Pil, ma il mercato. L’Occidente che si dispera per la «frenata» è quello che inconfessabilmente fa il tifo perché si trasformi in uno «stop». Questo sì disastroso.

lunedì 24 agosto 2015

Lalinguabatte. 3 “Il beni-comunista”.




“Ricami pietrosi” di Silvia Ripoll Lopez. “Fare arte” con i ciottoli del mare.
 Ha scritto Curzio Maltese su “il Venerdì di Repubblica” del 3 di luglio ultimo scorso - “Solo un’enciclica verde? No, il manifesto del papa contro il turbo capitalismo” -: (…). Francesco è ormai il Che Guevara della nostra epoca, un mito rivoluzionario. Naturalmente il cristianesimo è stato all’origine un pensiero rivoluzionario. Gesù era un genio che osava pensare l’impensabile nella Palestina di duemila anni fa e per questo fu crocifisso. Ma da allora nessun successore di Pietro si era mai avventurato nel terreno dell’impensabile, cioè del totale conflitto con i valori dominanti. Francesco l’ha fatto. La sua enciclica, disinnescata dai media come un appello ecologista, è in realtà una critica radicale dei valori dominanti del turbocapitalismo, (…). Ed è affascinante per molti laici perché il campo dei valori di riferimento è lo stesso della rivoluzione illuminista, per due secoli considerata dalla Chiesa cattolica come l’origine di tutti i mali: libertà, uguaglianza, fraternità. Nel punto di massimo successo, dopo il crollo dei muri e la globalizzazione, il neocapitalismo produce società sempre più ingiuste, con incredibili concentrazioni di ricchezza e spaventose masse di poverissimi, società sempre meno libere e fraterne, non soltanto nelle periferie, ma nel cuore e nella culla dell’impero, come illustra l’avanzare in Europa di movimenti razzisti e di regimi sempre più autoritari e pratiche incostituzionali. La domanda che percorre il ragionamento di Francesco è la stessa di molti intellettuali laici. Quanto insomma questo sistema possa essere riformato, limitato, ricondotto al rispetto dell’umanità e dell’ambiente, e quanto invece non sia inesorabilmente avviato alla distruzione delle società umane. In altri termini, si chiede se l’azione degli uomini, il sentimento di fratellanza universale, sia ancora in grado di limitare gli eccessi folli della macchina produttiva, la dittatura della finanza, la distruzione dell’ambiente, l’annichilimento del concetto stesso di bene comune, la pretesa delle multinazionali di brevettare ogni organismo vivente e di privatizzare tutto, a cominciare dalla fonte della vita, l’acqua. O se piuttosto non dobbiamo prepararci all’apocalisse globale di un sistema, sperando che non coincida con il collasso della vita stessa sul Pianeta. Una risposta vera e propria Francesco non la mette in campo, si limita a indicare una strada. Anche questo, per un papa, è rivoluzionario.

venerdì 21 agosto 2015

Oltrelenews. 57 “Fattore umano”.



Da “Renzi, il nuovo potere in camicia bianca” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano” del 12 di ottobre dell’anno 2014: (…). Gli uomini con la camicia bianca sono molto vicini al potere, e il potere è cambiato. Non vi starò a dire chi sposta i pezzi perché non lo so, ma i pezzi sono stati spostati. In pochissimo tempo siamo passati da una lotta politica interna a un partito, per il temporaneo controllo della segreteria, alla guida, ben ferma e non discutibile, di un partito-nazione che non ha e non accetta confini, non ha e non accetta dissenso, non ha e non accetta alternative. Questo nascente partito-nazione non è interessato ai confini istituzionali (se questo compito tocchi all’esecutivo oppure al Parlamento), non accetta e anzi ridicolizza confini ideologici (se questa sia o non sia sinistra). Quei limiti – e tutti i limiti – sono disprezzati con l’espediente di rovesciare la scena e trascinare la folla. Non sono io che travalico linee sacre. Ma sono io che, da solo, ho il coraggio di salvarvi e questo è il percorso.   Il dovere dell’obbedienza è implicito in questa formula di governo che tende a sbarazzarsi di inciampi e ribelli. Sembra chiaro che, in questa improvvisa e drammatica riorganizzazione di ciò che dobbiamo intendere per politica, non ci sono improvvisazioni. Ciascun designato sa qual è il compito e qual è il percorso e perché la scrupolosa osservanza, e non la competenza, è il requisito essenziale. Salvo che in strettissimi ambiti tecnici, la competenza è anzi considerata una distrazione o una ambizione che limita la fedeltà. Il patto è fra pochissimi, qualcosa come “la prima ora”. Altri, in numero destinato a essere crescente, seguono e seguiranno, ma destinati a restare sostenitori e seguito, più o meno ignoti, persino in Parlamento. Ci sono ancora aree di disordine e zone di ribellione (stiamo parlando dell’interno dell’ex Pd). Quanto siano rare è un indizio che persino i presunti leader di alternative sanno, pur essendo stati tenuti fuori dal progetto, che non ci sono varchi possibili. Appaiono deboli (non tutti) perché si sono resi conto in ritardo che esclusione e inclusione non erano più materie trattabili. Sappiamo poco del progetto, ma il progetto c’è. Per questo, assembramenti e manifestazioni di contrasto avvengono sempre in un vuoto che non ha conseguenze politiche. E questo è anche il rischio della “occupazione delle fabbriche” imprudentemente annunciato da Landini, sulla base di un altro tempo e un altro luogo. (…).