Da “Renzi,
il nuovo potere in camicia bianca” di Furio Colombo, su “il Fatto
Quotidiano” del 12 di ottobre dell’anno 2014: (…). Gli uomini con la camicia
bianca sono molto vicini al potere, e il potere è cambiato. Non vi starò a dire
chi sposta i pezzi perché non lo so, ma i pezzi sono stati spostati. In
pochissimo tempo siamo passati da una lotta politica interna a un partito, per
il temporaneo controllo della segreteria, alla guida, ben ferma e non
discutibile, di un partito-nazione che non ha e non accetta confini, non ha e
non accetta dissenso, non ha e non accetta alternative. Questo nascente
partito-nazione non è interessato ai confini istituzionali (se questo compito
tocchi all’esecutivo oppure al Parlamento), non accetta e anzi ridicolizza
confini ideologici (se questa sia o non sia sinistra). Quei limiti – e tutti i
limiti – sono disprezzati con l’espediente di rovesciare la scena e trascinare
la folla. Non sono io che travalico linee sacre. Ma sono io che, da solo, ho il
coraggio di salvarvi e questo è il percorso.
Il dovere dell’obbedienza è implicito in questa formula di governo che
tende a sbarazzarsi di inciampi e ribelli. Sembra chiaro che, in questa
improvvisa e drammatica riorganizzazione di ciò che dobbiamo intendere per
politica, non ci sono improvvisazioni. Ciascun designato sa qual è il compito e
qual è il percorso e perché la scrupolosa osservanza, e non la competenza, è il
requisito essenziale. Salvo che in strettissimi ambiti tecnici, la competenza è
anzi considerata una distrazione o una ambizione che limita la fedeltà. Il
patto è fra pochissimi, qualcosa come “la prima ora”. Altri, in numero
destinato a essere crescente, seguono e seguiranno, ma destinati a restare
sostenitori e seguito, più o meno ignoti, persino in Parlamento. Ci sono ancora
aree di disordine e zone di ribellione (stiamo parlando dell’interno dell’ex
Pd). Quanto siano rare è un indizio che persino i presunti leader di
alternative sanno, pur essendo stati tenuti fuori dal progetto, che non ci sono
varchi possibili. Appaiono deboli (non tutti) perché si sono resi conto in
ritardo che esclusione e inclusione non erano più materie trattabili. Sappiamo
poco del progetto, ma il progetto c’è. Per questo, assembramenti e
manifestazioni di contrasto avvengono sempre in un vuoto che non ha conseguenze
politiche. E questo è anche il rischio della “occupazione delle fabbriche”
imprudentemente annunciato da Landini, sulla base di un altro tempo e un altro
luogo. (…).
All’improvviso compaiono appelli su grandi giornali (“Noi
sosteniamo Matteo Renzi”) firmati da nomi che sono o si considerano grandi.
Meritano interesse per tre ragioni. La prima è che Matteo Renzi non era in
pericolo e neppure in bilico, e dunque l’appello è un tributo, non un aiuto. La
seconda ragione è l’uso di frasi come “andare avanti insieme a chi crede”, dove
“credere” è la parola chiave, una parola di fede e sottomissione, non di politica;
oppure: “sosteniamo la volontà (del premier, ndr) di non mollare”, invocazione
che fa perno su “volontà” cioè la qualità superiore di chi si è messo alla
guida. E dove “non mollare” annuncia rigetto (approvato dai firmatari) di ogni
critica. L’appello è importante perché
ci dice con chiarezza che siamo nella fase in cui si aderisce, non più in
quella in cui si partecipa alla fondazione. Potrai essere e sentirti dalla
parte giusta. Ma sei tra quelli che seguono e si adeguano. Ci devono essere delle
buone ragioni per farlo, anche se la maggior parte di noi non le conosce. Il
renzismo infatti fa proseliti con molto successo in modo insolito, certo
estraneo alla vita democratica. Non devi sapere, devi credere. Intanto il
sistema mediatico, soprattutto visivo, tempestivamente coinvolto e debole di
natura, ha messo a disposizione una immensa quantità di notizie, di diretta e
in replica, su una sola persona, che provvede a coprire tutte le funzioni di
governo in Italia e all’estero, malamente compreso nella lingua, ma
perfettamente chiaro nel gesto esclusivo di contare e di comandare senza alcuna
forma di opposizione. Anzi, una efficace trovata del leader è di essersi
impossessato del linguaggio della ex opposizione. Lui è “contro”, ed è in
questa titanica impresa che bisogna credere, e da cui viene la “volontà di non
mollare”. Tutto ciò non è tipico di chi gestisce il potere, ma di chi sta
radunando masse fedeli per dare l’assalto finale alla fortezza. PERÒ il fervore apparentemente improvvisato
dei discorsi copre ordine e ridistribuzione dei pezzi del gioco fatta per
tempo, non sappiamo da chi e di cui non sappiamo il fine ultimo, che non è il
potere personale. Renzi non è Attila, è un professionista in missione. Pare
bravo, ma ha il grande vantaggio di giocare su un tavolo in cui gli altri si
muovono alla cieca, perché tutto è già stato deciso prima. La storia è più
semplice e più complicata di quel che sembra. Il fatto è che le prossime
puntate sono già state filmate e certo non ti raccontano in anticipo come
dovrebbe finire. Si, si può ancora fare qualcosa. Interrompere “la sceneggiata”
(così il leader chiama l’opposizione in Parlamento) e fare lo sforzo che certe
volte devi fare dormendo: svegliarti lottando contro lo stato di sonno. Fare
ritorno alla normalità, fuori da un Truman Show già tutto serializzato. Nei
tristi filmati delle Camere vedi ancora facce vere, di vere persone (alcune
stanno per essere cacciate dal Pd). Se si accostano (metti Casson e Di Maio)
una vera resistenza è possibile. A volte, nella storia, ha portato liberazione.
Da “Prima
piange, poi vieta il piagnisteo: il potere ai tempi di Matteo Renzi” di
Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 5 di agosto 2015: Dunque
riassumiamo: “Basta piagnistei”. Una variante. L’ennesima, del “basta piangersi
addosso”, rimbocchiamoci le maniche, basta lamentarsi e ognuno aggiunga a
piacere fino a esaurimento scorte (peraltro inesauribili). (…). Dietro,
accanto, sopra e sotto l’esortazione a non lamentarsi, a non fare piagnistei,
c’è l’essenza stessa del potere. Chi ricorda i burbanzosi nuovisti renzisti
alla vigilia della “scalata” (cit.), avrà la sporta piena di lamentazioni. Era
un piagnisteo continuo, uno stillicidio di acide lamentazioni: e non ci fanno
votare alle primarie come vorremmo, e sono antichi, e sono cattivi con noi che
siamo il nuovo, e ammazzano un’intera generazione, e le rubano il futuro con le
loro pensioni da favola (e mica parlavano delle pensioni d’oro, sia chiaro). I
palchi della Leopolda pre-marcia erano essenzialmente questo: il grido di
dolore di una generazione in camicia bianca e ritratti di Blair che lamentava e
denunciava l’inverecondo complotto ai suoi danni: ecco, ci bloccano! Un
piagnisteo in piena regola che toccava vette di lirismo epico quando si
innestava sulla questione generazionale: nugoli di trenta-quarantenni affranti
dal non avere il potere e le possibilità che avevano avuto i trenta-quarantenni
prima di loro. Mano ai fazzoletti, si piangeva un bel po’. Poi, cambiato verso,
basta. Il piagnisteo non vale più, perché adesso comandano loro e lamentarsi è
diventato gufismo applicato, reato federale. Che ci sia in effetti da
lamentarsi un po’ lo vedono tutti (la questione del Sud, mai messo così male
dai tempi dello sbarco dei Mille e forse pure da prima è da manuale), ma ogni
visione della realtà con non collimi con le sorti luminose e progressive che
arrivano (arrivano? Stanno arrivando? Arriveranno? E lasciatelo lavorare, no?)
è considerata attività antipatriottica. Dunque non un meccanismo del renzismo –
pfui – ma un meccanismo intrinseco del potere: quando erano di là, “calpesti e
derisi”, come dice l’Inno, riempivano fazzoletti di lacrime come alla prima di
Love Story, ora che sono di qua, nella stanza dei bottoni, chi piange, o anche
solo segnala quello che non va è uno che “sa solo lamentarsi”. Tracciata questa
linea filosofica del “non piangete, bambine”, il resto viene da sé come
naturale corollario. Esempio di scuola, il mirabolante ministro Franceschini,
che inaugurando la Palestra Grande di Pompei (apertura al pubblico in ritardo
di duemila anni) si toglie alcuni sassolini delle scarpe e chiede
provocatoriamente se questa buona notizia avrà sui giornali lo stesso spazio di
quando Pompei crolla in testa ai turisti. È più che una domanda peregrina: è
scema. Perché nei paesi civili, e giustamente, la gente considera quel che
funziona normale e quel che non funziona degno di segnalazione, nota e
denuncia. E dunque nessun giornale titolerà mai “Traffico regolare sull’A1”, ma
magari scriverà mezza pagina nel caso di “Ingorgo spaventoso in autostrada”.
Dunque, il ribaltamento, assai bislacco, è questo: si invoca la normalità
chiedendo di fare una cosa anormale: celebrare l’ovvio e censurare o silenziare
l’eccezione. Con in più la consegna dell’illusione alle masse: “Ehi,
rimboccatevi le maniche!”. Bello, edificante, un po’ coreano del Nord. Ma
quando si rimboccano le maniche, i nemici del piagnisteo, mica risollevano
l’economia del Sud o fanno decollare l’occupazione, no. Al massimo puliscono
qualche muro dalle scritte. Senza piagnistei.
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