Cosa è andato scrivendo mai Alessandro
Robecchi su “il Fatto Quotidiano” di oggi col titolo “Correre dietro ai polacchi non ci rende meno italiani”? Anche a
costo – e corro coscientemente il rischio - d’essere accusato della pratica
alquanto odiosa del “citarsi addosso” – formuletta inventata da quel grande
spiritosone che è Woody Allen – e di essere additato del narcisismo più
sfrenato, anche a costo di tutto ciò ho il dovere di segnalarvi il mio post del
20 di dicembre dell’anno appena trapassato che ha per titolo “Nell’epoca della nuova povertà”. E cosa
ho scritto in quel post che pochi, pochissimi, sparuti avventurieri della rete
avranno letto? Scrivevo, per l’appunto, che… Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la globalizzazione, ché solamente la
cecità della politica non ha consentito di vedere al tempo dovuto. Essa, la
globalizzazione, ha agito ed agisce così come aveva intuito quel grande che è
stato il Liebig. Poiché le cose intuite dall’illustre scienziato per i fenomeni
della Natura valgono per l’appunto anche nelle vicende degli umani. Come non
vedere al giusto tempo che la globalizzazione avrebbe introdotto nelle società
dell’Occidente quel “fattore limitante”
per il quale, come in un mastello la doga più corta determina il livello al
quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata
globalizzazione - dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti
emergenti, l’assenza di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe,
quel “fattore limitante”, investito
e colpito anche le cosiddette società del capitalismo avanzato? Con la sua
logica sfrenata, con il falso assunto che i mercati sarebbero stati capaci di
autoregolamentarsi, la globalizzazione e la finanziarizzazione del capitalismo
ha provveduto a spolpare le ricchezze e le risorse delle società occidentali
per le quali si aprono scenari chiari di un ritorno ad un’epoca nuova di
povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica come non vedere di pari
passo anche una cecità nel mondo della finanza e dell’economia? Avere
impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente capitalistico, avere di fatto
spinto all’indietro una spessa fetta di quello che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha
di conseguenza tolto dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si invocano inutilmente affinché
riprendano a sostenere i consumi per consentire il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Questo venivo scrivendo
nel mio inutile scribacchiare. E questo prima del “blocco” dello scrivano.
E così oggi mi sono trovato a leggere il bello scrivere di Alessandro Robecchi
ed a ritrovare in esso quelle elementari intuizioni che forse maldestramente
avevo messo nero su bianco, tanto per dir, come si diceva al tempo del
calamaio, della penna e della carta. Ha scritto dunque Alesasndro Robecchi che…
È
vero che se corri dietro al tram risparmi un euro e mezzo, ma se corri dietro a
un taxi riesci a risparmiare molto di più. Che questa scemenza sia applicabile
all’economia, e quindi alla vita delle persone, non fa ridere per niente.
Eppure è quello che ci sentiremmo di suggerire alla Electrolux, la
multinazionale degli elettrodomestici che ha proposto ai suoi lavoratori un
accordo che suona più o meno così: noi vi molliamo qui e andiamo a fare le
nostre lavatrici in Polonia, a meno che voi non accettiate di prendere salari
polacchi. In pratica si tratta di una riduzione di stipendio di quasi il
cinquanta per cento: quello che prima facevi per 1.400 euro, domani potresti
farlo per 700. Se no a casa. Prendere o lasciare che si direbbe, dall’economia,
alla politica, alle riforme, pare la moda del momento. Vedete anche voi che la
formuletta del tram e del taxi è una metafora perfetta: perché diavolo inseguire
stipendi polacchi quando si potrebbero rincorrere addirittura quelli cinesi? E
perché limitarsi agli stipendi cinesi quando si potrebbero pagare stipendi
cambogiani? Il fatto è che c’è sempre qualcuno che è il polacco di qualcun
altro (o il cinese, o il cambogiano…) e quindi non si finisce più: la corsa al
ribasso è una specie di toboga insaponato dove si prende velocità e non si
riesce a frenare. Ma certo, certo, non c’è dubbio che la faccenda non sia così
semplice. (…). E in più, della proposta Electrolux non si calcola un piccolo
dettaglio. Che i lavoratori prenderebbero stipendi polacchi, ma non
abiterebbero in Polonia. Continuerebbero a pagare affitti o mutui italiani, a
comprare cibo nel supermercati italiani e a far benzina in Italia, che Varsavia
gli viene un po’ scomoda. Dunque, non per tirare in ballo il vecchio maestro
Keynes (…), se ne deduce che oggi, con il suo stipendio, un lavoratore
dell’Elecrolux potrebbe forse permettersi di comprare una lavatrice Electrolux,
ma domani, con il suo stipendio polacco, non potrà più. Meno soldi in tasca a
chi lavora, quindi meno consumi interni, quindi nuovi lavoratori in esubero,
quindi nuove riduzioni di salario. È la famosa manina magica del mercato che
sistema tutto, a favore del mercato, naturalmente. (…). Nel frattempo, sarebbe
bello non diventare troppo polacchi, troppo cinesi o troppo cambogiani,
continuando a fare la spesa qui. (…). E così pure il mio narcisistico
“io” – che sembra sia essere, il “narcisismo” intendo dire, sempre secondo
i maligni, una caratteristica propria di tutti quelli che trovano necessario lo
scrivere - si è ancor di più gonfiato, sino a scoppiarne come fu per la rana di
Fedro, alla lettura del magistrale pezzo di Gad Lerner sul quotidiano la
Repubblica di oggi che ha per titolo “La lotta di classe asimmetrica”. È
da tempo assai che vado parlando di “lotta di classe”. Per quei pochi,
pochissimi, sparuti navigatori della rete incagliatisi su questo blog sarà
parso essere questa mia una fissazione fuori dal tempo e dalla Storia. Solo che
da un bel po’ di tempo vado parlando di una “lotta di classe all’incontrario”.
Non più i meno abbienti ed i bisognosi ad essere protagonisti di essa, la “lotta
di classe” intendo dire, ma essa è condotta “all’incontrario” ovvero dalle
categorie sociali più ricche e fortunate. Gad Lerner da più erudito parla di “lotta
di classe asimmetrica”. Ma per il resto non cambia nulla. Scrive Gad
Lerner che… Nella lotta di classe asimmetrica (…) i lavoratori sono ridotti a
variabile marginale. Stoccolma ha il potere di giocarsi gli operai polacchi
contro gli operai italiani, e inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio
chiusura in competizione con l’altro; azionando così una corsa al ribasso no
limits del costo della manodopera. Il sacro principio della libera concorrenza,
dispiegato senza regole su un orizzonte mondiale, anela a svincolarsi dai
contratti localmente stipulati con la parte più debole. In materia di
retribuzioni prevalgono le tariffe di volta in volta indicate come riferimento
là dove conviene; e pazienza se ciò comporta una vera e propria retrocessione
di civiltà. Prendere o lasciare. Il governo, i sindacati e la politica sono
chiamati solo a una presa d’atto subalterna. A disarmarli è la nuova centralità
finanziaria del rapporto creditore/debitore che prosciuga le risorse pubbliche
necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro.
È così che la lotta di classe diviene asimmetrica e il lavoro, reso precario,
tende a precipitare sempre più spesso nella povertà (…). Le statistiche sulla
ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo
vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la
diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo
rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono labouring
poors: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso la cui busta paga però non
li sottrae all’indigenza. Tale condizione verrebbe generalizzata da eventuali
accordi consensuali di taglio dei salari. Essi giungerebbero a suggellare una
gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente
già in atto da anni in tutto l’occidente. Ne sono talmente consapevoli il
presidente Obama negli Usa e i partner della “grosse koalition” in Germania, da
avere scelto di innalzare per legge il salario minimo orario nei loro paesi. Un
parziale antidoto alla diffusione della povertà fra i lavoratori dipendenti.
(…). Come è stato possibile dimenticare il “fattore limitante” del
grande Liebig? Cecità della politica! Oggi il Leporello del “Don
Giovanni” potrebbe ben cantare “Madamina! il catalogo è questo”
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 29 gennaio 2014
lunedì 27 gennaio 2014
Eventi. 15 “4517” ovvero Primo Levi.
Dall’intervista di Enzo Biagi a
Primo Levi trasmessa l’8 di giugno dell’anno 1982 su Rai1 e riportata da “il
Fatto Quotidiano” del 26 di gennaio 2014.
Levi come ricorda la
promulgazione delle leggi razziali? - Non è stata una sorpresa quello che è
avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza,
dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto
questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma
nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali.
Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del
fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non
ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal
falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare
il pericolo -.
(…). Come ha vissuto quel tempo
fino alla caduta del fascismo? - Abbastanza tranquillo, studiando, andando in
montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe
servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo -.
E quando è arrivato l’8
settembre? - Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera,
ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere
il da farsi -.
La situazione con l’avvento della
Repubblica sociale peggiorò? - Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre
’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei
dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento -.
Cosa fece? - Nel dicembre ’43 ero
già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato
nel marzo del ’44 e poi deportato -.
(…). Lei ricorda il viaggio verso
Auschwitz? - Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con
cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto
prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non
c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà
precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci
un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i
cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il
più possibile -.
Come ricorda la vita ad
Auschwitz? - L’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari,
era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti
urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho
capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale
resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli
prima, degli abiti poi, delle famiglie subito -.
(…). Che cosa l’ha aiutata a
resistere nel campo di concentramento? - Principalmente la fortuna. Non c’era
una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più
ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi
a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il
mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza.
Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire
rassegnarsi alla morte -.
Come ha vissuto ad Auschwitz? - Ero
nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila
prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato
provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il
chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi,
quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a
sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena,
dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella
di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su -.
(…). È vero che cadevano più
facilmente i più robusti? È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo
di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di
metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche,
un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo
49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur
essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni -.
Che cosa mancava di più: la
facoltà di decidere? - In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di
tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le
altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da
casa…-.
La nostalgia, pesava di più? - Pesava
soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un
dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda
l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era
animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi
venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino
soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in
cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un
momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La
paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri
la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che
per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa,
siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo
baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di
minestra” -.
Lei ha raccontato che nei lager
si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla
autodistruzione. - Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi
e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me
è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti
per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel
vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata -.
Quando ha saputo dell’esistenza
dei forni? - Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho
imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché
non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che
sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza.
Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri
da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle
leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le
reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non
occuparsene -.
Poi arrivarono i russi e fu la
libertà. Come ricorda quel giorno? - Il giorno della liberazione non è stato un
giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna
i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager.
I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero
ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo,
abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in
ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i
russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti -.
Questa esperienza ha cambiato la
sua visione del mondo? - Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe
stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi
ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato
molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha
maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho
capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che
non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre
bisogna trovare la forza per pensare -.
Grazie, Levi. - Biagi, grazie a
lei -.
domenica 26 gennaio 2014
Uominiedio. 12 Internet ed i doni di Dio.
“La fede risponde a esigenze che
non sono razionali, e tuttavia sono vissute come irrinunciabili dall'uomo: le
spinte alla continua ricerca di qualcosa oltre l'esistente”. Lo ha
scritto il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 21 di settembre
dell’anno 2013 – “Tra religione e
scienza non serve scegliere” -. La questione quindi è ostica assai,
controversa, sfuggente. Dio. La faccenda vissuta ha dell’inverosimile, dell’incredibile,
ed è tutta da dimostrare. Ma come dimostrarla? La storiella mi è stata
raccontata. Ha a che fare con un “dono di Dio”, Internet. Wow! (al
tempo prima di Internet si sarebbe forse detto “urca”!). Una scena
consueta di commensali che distrattamente orecchiano ciò che il piccolo mostro
casalingo va rimettendo a getto continuo. La notizia per l’appunto: “Il vescovo
di Roma sostiene che anche internet è un dono di Dio”. Sfugge prontamente ad
uno dei commensali: - Ci ha messo del tempo a fare il dono! -. Una battuta o
una solenne, pensata riflessione dal sen sfuggita? Piccata la risposta di una
dei commensali: – Certo, ha voluto che gli uomini arrivassero da se a quel dono
-. Il primo commensale di rimando: – Ma che diavolo di dono è allora! -. Non mi
è stato raccontato il prosieguo della conversazione. Mi è venuto da pensare al dio
del vecchio testamento, signore degli eserciti, diffusore di cataclismi,
pestilenze, piogge di sale e quant’altro atti a seminare morte e distruzione di
massa, istigatore di sacrifici umani – uno, per fortuna non andato a buon fine
-. E che dire poi della sventura toccata ai progenitori di tutto il genere
umano, quell’Adamo e quella Eva puniti, con le conseguenze che sono tuttora
sotto gli occhi del mondo, solo per aver voluto assaggiare il frutto di un certo
albero spinti com’erano dal desiderio della “conoscenza”? Ripeto,
della “conoscenza”. Dubito che quel vecchio, burbero dio avesse a
cuore la “conoscenza”. È pur vero che quel dio ha lasciato il campo, almeno
nel nuovo testamento, ad una figura più umana e più caritatevole, quell’uomo di
Nazareth, ma tant’è che mi è parso esagerato quanto il vescovo di Roma vada
incautamente sostenendo. Continua a scrivere il professor Galimberti: Siamo
d'accordo nel dire che la scienza non dice cose "vere", ma solo cose
"esatte", cioè ottenute dalle premesse (…) che ha anticipato. Su
questo convengono anche gli scienziati, così come sono d'accordo nel negare
alle loro conclusioni il carattere di verità assolute, perché altrimenti non ci
sarebbe progresso scientifico, che si realizza ogni volta che al posto delle
premesse precedentemente assunte se ne assumono altre più esplicative. (…)…nella
storia la scienza ha smantellato tante credenze religiose, senza che questo
abbia in alcun modo modificato il sistema di credenze a cui aderiscono le
persone di fede. Dobbiamo allora concludere che la fede religiosa risponde a
esigenze che non sono razionali, e tuttavia vengono vissute come
irrinunciabili, perché l'uomo è abitato anche da una dimensione irrazionale che
può esprimersi solo uscendo dal recinto stretto della razionalità. Che risposte
razionali possiamo dare all'esperienza del dolore, che non di rado affligge la
nostra esistenza? Oppure all'esperienza dell'amore che si nutre di ogni cosa
all'infuori che della razionalità? O alla domanda sul senso della nostra
esistenza, che non di rado vaga e tracolla nell'insignificanza? Tutte le
religioni raccolgono queste istanze e le proiettano nella trascendenza, che
sarà pure un mondo inventato, ma che risponde comunque a quell'esigenza
incondizionata propria della natura umana che non si accontenta dell'esistente,
ma è in ricerca continua del suo oltrepassamento. E questo vale non solo in
ambito religioso, ma anche in ambito scientifico (altrimenti non avremmo
progresso), in ambito sociale (per un miglioramento delle condizioni di vita) e
in ambito personale (nella ricerca mai interrotta di una migliore realizzazione
di sé). E allora i conti li dobbiamo fare non contrapponendo le risposte della
scienza e quelle della religione, ma con quell'esigenza incondizionata di
trascendenza, (…) …di oltrepassamento della situazione esistente, che è tipica
dell'uomo, che proprio per questo si distingue dall'animale. Che poi a questa
esigenza non si diano risposte sicure, questo fa parte della condizione tragica
dell'uomo, a cui la religione a suo modo cerca di porre rimedio. Ritengo
che sarebbe oggigiorno molto più accettabile un messaggio (religioso) diverso che
non cercasse commistioni improprie e non realizzasse inaccettabili forzature
per il buon senso comune degli uomini d’oggi, che è divenuto tale, buon senso
intendo dire, solamente grazie al progresso compiuto dal genere umano,
progresso realizzato anche a dispetto o addirittura contro il pensiero ostativo
di quella che passa per la ispirata chiesa universale di Roma. E per tornare
allo scritto del professor Galimberti: Siamo inoltre d'accordo che non si danno
"verità di fede" perché la fede crede proprio perché non sa, mentre
la dove si sa, non si crede. Io non credo che due più due faccia quattro perché
lo so, mentre, se ho fede, credo che Cristo sia risorto perché non ho nessuna
evidenza né dimostrazione, ma solo la fede di coloro che ne hanno dato
testimonianza.
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