Dall’intervista di Enzo Biagi a
Primo Levi trasmessa l’8 di giugno dell’anno 1982 su Rai1 e riportata da “il
Fatto Quotidiano” del 26 di gennaio 2014.
Levi come ricorda la
promulgazione delle leggi razziali? - Non è stata una sorpresa quello che è
avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza,
dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto
questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma
nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali.
Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del
fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non
ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal
falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare
il pericolo -.
(…). Come ha vissuto quel tempo
fino alla caduta del fascismo? - Abbastanza tranquillo, studiando, andando in
montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe
servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo -.
E quando è arrivato l’8
settembre? - Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera,
ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere
il da farsi -.
La situazione con l’avvento della
Repubblica sociale peggiorò? - Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre
’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei
dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento -.
Cosa fece? - Nel dicembre ’43 ero
già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato
nel marzo del ’44 e poi deportato -.
(…). Lei ricorda il viaggio verso
Auschwitz? - Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con
cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto
prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non
c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà
precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci
un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i
cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il
più possibile -.
Come ricorda la vita ad
Auschwitz? - L’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari,
era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti
urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho
capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale
resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli
prima, degli abiti poi, delle famiglie subito -.
(…). Che cosa l’ha aiutata a
resistere nel campo di concentramento? - Principalmente la fortuna. Non c’era
una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più
ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi
a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il
mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza.
Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire
rassegnarsi alla morte -.
Come ha vissuto ad Auschwitz? - Ero
nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila
prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato
provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il
chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi,
quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a
sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena,
dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella
di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su -.
(…). È vero che cadevano più
facilmente i più robusti? È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo
di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di
metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche,
un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo
49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur
essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni -.
Che cosa mancava di più: la
facoltà di decidere? - In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di
tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le
altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da
casa…-.
La nostalgia, pesava di più? - Pesava
soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un
dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda
l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era
animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi
venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino
soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in
cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un
momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La
paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri
la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che
per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa,
siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo
baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di
minestra” -.
Lei ha raccontato che nei lager
si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla
autodistruzione. - Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi
e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me
è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti
per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel
vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata -.
Quando ha saputo dell’esistenza
dei forni? - Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho
imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché
non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che
sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza.
Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri
da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle
leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le
reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non
occuparsene -.
Poi arrivarono i russi e fu la
libertà. Come ricorda quel giorno? - Il giorno della liberazione non è stato un
giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna
i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager.
I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero
ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo,
abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in
ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i
russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti -.
Questa esperienza ha cambiato la
sua visione del mondo? - Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe
stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi
ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato
molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha
maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho
capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che
non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre
bisogna trovare la forza per pensare -.
Grazie, Levi. - Biagi, grazie a
lei -.
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