"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 21 novembre 2013

Quellichelasinistra. 3 Tupamaros: la felicità al potere.



“Quellichelasinistra”. Quelli che non erano “di”. Quelli che non stavano “a”. “Quellichelasinistra” che stavano con i “tupamaros”. “Quellichelasinistra” l’avevano nel cuore. Ha scritto Riccardo Staglianò su “il Venerdì di Repubblica” dell’8 di novembre nel Suo straordinario reportage che ha per titolo “La felicità al potere. Intervista a José Mujica”: …la scuola dei Tupamaros sembra non aver partorito leader rancorosi. Eleuterio Fernández Huidobro, altro internato di Punta Carretas e oggi ministro della Difesa, della forza del presidente fornisce un riassunto assoluto: «Pepe pensa come Aristotele ma parla come Juan Pueblo»; il nostro Mario Rossi. Se Mario Rossi parlasse come Pasolini. (…). Perché romantico resta, eccome. (…). Afferma il Presidente: «Erano i tempi del socialismo scientifico, dell'ambizione di capire quale fosse il disco fisso dell'animale uomo. Che resta, essenzialmente, un animale utopico, nel senso che ha sempre bisogno di qualcosa in cui credere, perché se non ci si innamora di qualcosa non ha senso alzarsi tutte le mattine e continuare a lottare». Quando “quellichelasinistra” avevano un sogno grande così. Che sta tutto nella Sua storia che Riccardo Staglianò brevemente tratteggia: Dai primi anni Sessanta fa parte dei Tupamaros, un movimento di lotta armata che si muove sull'onda della rivoluzione cubana. Lo arrestano quattro volte. Gli mettono sei pallottole in corpo. Organizza la più massiccia evasione della storia, così almeno la raccontano i sudamericani, facendo uscire 106 persone grazie a un rocambolesco scavo di tunnel. Quando lo riacciuffano seppelliscono vivi lui e gli altri otto principali leader del movimento. Al primo passo falso dei compañeros fuori, uccideranno uno dei «nove ostaggi» dentro. Dopo tre anni gli consentono di ricevere libri. Lui chiede testi di matematica e Chacra, una rivista di agraria. Reni e vescica però non reggono. I medici prescrivono due litri d'acqua al giorno, i secondini gliene concedono una tazza. Sua madre gli porta un vaso da notte rosa, ultima spiaggia dell'emergenza liquidi. Beve la sua pipì. Quando nell'85 finisce la dittatura militare e li liberano lo brandisce come un talismano, pieno di margheritine. Dai diamanti non nasce niente. I “tupamaros” chi? Avevo scritto in un mio post precedente – “Quelli che erano di sendero luminoso” -: E dei “Tupamaros”? Cosa ne è stato dei “Tupamaros”? E di Monsignor Camara? E di Monsignor Romero? E di Leonardo Boff? La Storia, la Storia grande, non ha concessioni da fare agli umiliati ed ai perdenti di sempre. “…el pueblo unido jamas serà vencido…”. Sarà vero? Ne dubito assai. È che divento sempre più vecchio e quindi sempre più disilluso. E come per un incanto, dalle nebbie fitte della Storia, è come il tornare in vita di quelle schiere d’esseri umani che hanno nel loro piccolo mondo tentato di cambiare il corso della Storia del mondo più vasto. E si materializzano i “tupamaros”, non vinti ma vincitori, nella straordinaria figura di José Pepe Mujica, che la stampa del pianeta, avvertita, è come se lo restituisse non alla memoria ma alla vita. Come se avesse viaggiato nell’aldilà e si fosse materializzato ai tempi scuri che ci è toccato di vivere. Scrive del “Presidente” Riccardo Staglianò: Lui, José «Pepe» Mujica, è felicissimo anche rinunciando al 90 per cento del suo stipendio presidenziale. (…). Nel '95 è il primo ex tupamaro a essere eletto in Parlamento. Poi diventa senatore. Poi ministro dell’Agricoltura. Infine, nel novembre 2009, presidente con il 52 per cento dei voti (slogan: «Un governo onesto. Un Paese di prima classe»). È cambiato tutto, tranne l'uomo. E la casa, di una cinquantina di metri quadrati, in cui vive con la moglie e che preferisce alla residenza presidenziale. È nel soggiorno, davanti a un tavolinetto su cui è quasi impossibile prendere appunti tanto è angusto e stracolmo di carte e libri, che si svolge l'intervista. (…). Dei novemila euro cui avrebbe diritto come appannaggio mensile, Mujica ne prende 900 e dà il resto in programmi di microcredito. (…). «Perché lo fa?». (…). «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere». (…). «Lo spreco è funzionale all’accumulazione capitalista», che (…) «ha bisogno che compriamo di continuo, ci indebitiamo fino alla morte». (…). Annota Staglianò: …quando parla di ridurre la diseguaglianza economica, tendi a crederci. Perché non lo dice, lo fa. Potrebbe stare nel castello, preferisce questa camera e cucina e dare il resto a chi non ha neanche quello. (…). «Se si dimezzassero i 2000 miliardi di dollari per spese militari si cancellerebbe la fame dal mondo. I mezzi ci sono, li spendiamo male». (…). «Si parla da 20 anni di Tobin Tax, sulle transazioni finanziarie? Per Wall Street cambierebbe poco, tantissimo invece per il welfare in crisi ovunque: perché non si fa?». (…). Anche papa Francesco ha conosciuto: «Un gran personaggio. Condividiamo la sobrietà. Se lo lasciano fare potrebbe riportare la Chiesa a una vocazione più popolare». (…). È convinto che …la differenza tra destra e sinistra è proprio che quest'ultima dovrebbe avere «come priorità la fratellanza, ridurre le differenze economiche, e quindi sociali» (…). Sarà mica socialista? «La sinistra, (…), la dividerei in tre fette: i nostalgici, che dicono le stesse cose di 50 anni fa, quelli totalmente in linea col mercato e infine quelli, come me, che ne riconoscono l'indispensabilità, ma lo criticano per migliorarlo. Perché io so bene che il capitalismo serve a produrre ricchezza, quindi tasse, buone per i servizi di cui anche i poveri si avvantaggiano. E so anche, come non capivo invece qualche decennio fa, che non ha senso sacrificare una generazione promettendo la felicità per quella successiva. A quest'idea rivoluzionaria, che ha avuto il sopravvento a Cuba e altrove, preferisco una via più gradualista che non perda di vista che la partita si deve vincere adesso, in questa vita». (…). Ed il cambio di strategia sembra proprio al passo col tempo. Non punta alla dittatura del proletariato. (…). «Uno è molto più felice se è il capo di se stesso. E abbiamo centinaia di esempi, come Envidrio, una vetreria gestita dagli ex dipendenti che va benissimo. Serve un cambiamento culturale per far questo, ma dà risultati duraturi. Non com'è successo nell'ex Unione sovietica, passata dallo statalismo agli oligarchi». (…). …lui scommette su un umanesimo nuovo. Che ha qualcosa della «decrescita felice» («Sì, ho letto Latouche, ma mi influenzano di più i classici: i problemi dell'uomo sono da sempre gli stessi») (…). Perché «la politica è l'arte di organizzare il futuro, senza subirlo come se fosse il terremoto». (…). …dice che «la vita è breve, ci scappa dalle mani, e nessun bene materiale vale altrettanto: capire questo è fondamentale» e all'ascoltatore avvertito scorre davanti il film della vita di questo Mandela sudamericano che, come il sudafricano, non ha sviluppato sentimenti di vendetta durante la sua tremenda prigionia. Un Uomo così straordinario, un uomo di 78 anni, quale messaggio può dare agli uomini disorientati di questo millennio? Ha scritto Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica del 7 di novembre – “I doveri della sinistra” -: Come si può pensare di fare a meno della Sinistra in una società nella quale il tasso di disoccupazione ha superato il 12 per cento, la soglia di povertà è sempre più alta, e il senso di impotenza dei giovani e meno giovani ha effetti deprimenti sull`intera società? (…). …le sorti possono cambiare (…). Possono cambiare se sappiamo spiegare di chi sono le responsabilità di questa crisi devastante: sono della Destra non della Sinistra, del giacobinismo liberistico che ha conquistato il palazzo d`Inverno prima a Londra e a Washington per poi mettere al bando in pochi anni la social-democrazia del vecchio Continente e dimostrare che al benessere diffuso si arrivava meglio e prima scatenando il capitale invece di responsabilizzarlo e regolarlo. Si tratta ora di deviare da questo percorso: la sfida non è facile, ma non utopistica (…). Certo, ci vuole coraggio. Il coraggio di quest’Uomo di 78 anni. Il coraggio e le grandi “utopie” di quelli che furono i  “tupamaros” che ancor oggi stanno tra di noi. Per indicarci chi sono “quellichelasinistra”. Che non sono “di”, che non stanno “a”.

martedì 19 novembre 2013

Eventi. 13 Leggere “Le isole vagabonde”.



Avviene sempre, allorquando si intraprenda una lettura nuova, che ricordi e sensazioni tornino ad affollare la mente e lo spirito del lettore. E così è accaduto sin dal primo approccio con la nuova fatica letteraria del professor Giuseppe Sicari – “Le isole vagabonde”, Pungitopo Editore (2013), pagg. 133, € 12 -. Poiché la fortuna di un libro, la sua stessa sopravvivenza e la ragione del suo esistere sono legate a sottili, quasi invisibili fili che, come iridescenti ragnatele, ne incapsulano l’apparire - preceduto spesso da attesa ansiosa – ed il suo successivo percorso. Così è stato per “Le isole vagabonde” come per le precedenti pubblicazioni di Giuseppe Sicari. E tra i ricordi e le sensazioni suscitati sin dai primi approcci mi è tornato alla mente quanto il grande Umberto Eco fa dire al Suo Guglielmo da Baskerville in quell’opera somma che è “Il nome della rosa”: Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Ed è bene che “Le isole vagabonde” venga letto. Ed i “segni” che il libro di Sicari contiene sono tanti, tantissimi, ché appare quasi difficile districarsene alla prima lettura. Poi tutto si appiana. E le prime sensazioni che la scrittura di Sicari suscita portano a pensare alle vicende dell’ebreo Prospero Mussumeci, ventiseienne ebreo e medico, come grande metafora delle cose della vita degli umani. Come se dietro i “segni” storici ed inequivocabili che l’opera di Sicari contiene e propone si volesse alludere ad un qualcosa di più grande, di più universale, di trascendentale quasi, come un qualcosa che l’Autore per celia volesse tenere in serbo per sé e non disvelare, affidando alla fortuna futura del libro l’eventualità che quei “segni” superiori venissero alfine rivelati. E preso così, sin dal primo approccio con l’opera nuova, dalla ricerca di quei “segni” nascosti, per comprenderne a pieno il messaggio che sta tra trama ed ordito, mi è venuto da pensare al londinese John Donne (1572 – 1631) – che è stato un poeta e religioso inglese - che nel Suo sermone “Nessun uomo è un'isola” ebbe a dire: Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. L’arcano dei “segni” nascosti è rivelato alla pagina 30 dell’opera di Sicari. E l’opera di disvelare l’illustre Autore  l’affida a Rosario Paternò – detto “Sarino” -, il suo “bordonaro” che, etimologicamente parlando, è il “buddunaru” che deriva dalla lingua primigenia della città dello Stretto, da quel quartiere della città di Messina situato nella vallata del torrente Bordonaro, per l’appunto, oggigiorno invisibile agli occhi dei visitatori poiché convenientemente ricoperto da un manto stradale. E "burdunaru" è sinonimo di "mulattiere", di "conduttore di animali da soma", di colui insomma che, ben ripagato, conduce e cura, mantiene e custodisce i cosiddetti “bardotti", ovvero gli ibridi concepiti dall'incrocio di un'asina con un cavallo che, all’epoca dei fatti narrati da Sicari, solevano essere le cavalcature utilizzate per lunghi viaggi. E Sicari a “Sarino” il “bordonaro”, all’indirizzo del medico ebreo Mussumeci, che conduce per monti e valli, fa dire: Nun si facissi ‘ncantari, dotturi! Chiddi su’ isuli fatati, oj ccà, dumani ddà, camminanu e camminanu e nun si fermanu mai. Sunnu isuli vagabunni. E l’angoscia dei “segni” da rinvenire s’allenta alle parole del mulattiere. Isole come isole, “isole vagabonde” e non già metafore esistenziali. E la fantasia corre sfrenata nel corso della lettura. E la magia della lettura rende immagini, suoni, profumi e quant’altro la meravigliosa terra di Sicilia serba nella sua storia, nei suoi ruderi oramai cadenti, nelle parole  dei suoi abitanti che, nell’opera di Sicari, diventano come un canto corale, e che sembrano esplodere quasi – almeno per chi non abbia a frequentarne i luoghi con assiduità – come rivelazioni nuove di uno spirito greve e leggero al contempo. E come un susseguirsi di colori ed immagini irreali in un caleidoscopio così nell’opera nuova le “voci siciliane” s’inseguono e si perdono negli spazi che l’agile fantasia dell’Autore magistralmente rende anche all’inconsapevole lettore. Ed ecco apparire la “burnia”, ascoltare i “bazzarioti” incontrati per le strade del tempo, scambiarsi “salamilicchi e cicirimoddi”, “allicchettarsi” secondo le convenienze, maledire gli inconvenienti del lungo viaggio nella più tipica delle espressioni del luogo “ahi, ahi chi malanova mi vinni!”. Per non dire poi delle parole proprie di quella civiltà contadina che, nell’anno 1470, anno della storia narrata, facevano da collante nella vita quotidiana. Ed ecco restituiti a nuova vita dall’Autore “’u bummulu”, ed “’u tabuto”, e la “putìa”, ed i “guaddarusi”,  e li “vastasi”, e la “simenza” ché, per quella straordinaria civiltà legata alla terra, non stanno per i comuni semi ma per le minutissime uova dei bachi da seta. Una ricerca storico-lessicale che fa dell’opera nuova di Giuseppe Sicari una straordinaria antologia da leggere con inusitato trasporto. E che dire ancora, ché sembra di risentirne il magico suono, dei “ciancianedde”; e dei “babbasuni” che nella storia d’ogni tempo hanno rappresentato l’anima buona e più sprovveduta di una larga fetta del genere umano? Ché sembra ancora di sentire “banniare” per valli e contrade quelli che al tempo della storia avevano compito di pubblicizzare e reclamizzare. E l’occhio attento ed esperto dell’Autore, al pari del più abile degli investigatori, scandaglia vita, costumi e costumanze di un mondo che la magia della scrittura ci rende a piene mani. Bozzetti di vita ché pare di risentire, risa e canti, nenie e ballate che ancor oggi, per la magia del leggere, sembrano percorrere contrade e borghi dei luoghi toccati dal viaggiare dell’ebreo Mussumeci, medico. Bozzetti di vita che l’abile Autore cesella con l’arte matura d’un orafo. Bozzetti di credenze o di credulità di civiltà contadina laddove l’ebreo medico incontra la “dutturissa”, al secolo “donna Rosa ‘a Jalatisa”, alle prese con parassiti intestinali di una bambina del tempo: “Luti cannaruti, senza manu e senza pedi, lassati li budeddi di ‘sta criatura e tutti abbasciu vinni jiti e nun turnati”. È la rivisitazione di un’antropologia contadina che rende, alla novella opera di Sicari, un carattere “documentaristico-narrativo” d’inestimabile valore. È un esplodere di figure e di situazioni imprevedibili e nuove che rendono al meglio la vitalità, se non la carnalità, dei luoghi e delle figure umane che ne riempiono gli spazi. Figure che sopravvivono al tempo e che sembrano ancor oggi abitare i luoghi della storia che ci è magistralmente raccontata. “Peppi Marmanicu”, “Cicciu Menzapicicia”, “Turi Cartafausa” e “Micu Sucafrittuli”, per i quali personaggi il Nostro, amorevolmente, si spinge a rivelarne le caratteristiche fisiche e d’umanità, laddove scrive che “Marmanicu vuol dire strambo, svitato, pazzerellone, Menzapicicia allude al suo pene di piccole dimensioni, Cartafausa è detto così perché è un piccolo imbroglione, mentre l’epiteto di Micu allude alla predilezione per i ciccioli fritti di maiale”. Straordinarie figure che il medico viaggiatore Prospero Mussumeci incontra nella taverna di “’gnura Cuncetta”, l’ostessa, “un fimminuni barbuto, muscoloso e alto otto palmi abbondanti”, nel piccolo borgo del Capo d’Orlando, ove giunge dopo aver “firriato la Lecca e la Merca”, ovvero i paesotti di Naso e di Ficarra, luogo il Capo d’Orlando ove gli vengono elogiati i sopraffini piatti della taverna: Corpu di l’ariu! Mi vi pigghia un sintomu maligno e ‘na malanova! Haiu lu piscistoccu supra lu focu e puru lu sucu pri li maccarruni! N’auta vota! Dutturi, vi piaci lu piscistoccu alla gghiotta? E li maccarruni di casa? Lu sentiti lu ciaru? Ché sembra proprio di sentirne l’olezzo che sa d’unto quanto basta per renderlo indimenticabile. Ché l’opera nuova di Giuseppe Sicari è anche rivisitazione di percorsi, di memorie e di ricordi laddove registra, forte della memoria del dottor Mussumeci, che “il castello e il territorio del Capo d’Orlando fanno parte della baronia di Naso che ho visitato il mese passato. Il profilo dell’estremità rilevata del promontorio ricorda, soprattutto per chi arriva dal mare, la ben più maestosa rocca di Cefalù. Per questo gli invasori arabi avevano chiamato questo luogo  Gafludi as Sugrà, la piccola Cefalù. L’attuale denominazione, invece, è legata alla leggendaria figura di un paladino del re di Francia, Rolando, detto anche Orlando”. E poi San Marco e San Filadelfio. Un viaggiare che è un’avventura di storia, di luoghi, di odori e di sapori, di luci e colori. Ed i personaggi a turno s’affacciano su di un palcoscenico che è maestoso e che è la terra di Sicilia. È che in quel girovagare, verso un luogo che fosse soprattutto di pace, l’ultima stazione segnata è quella di Alicata. Un luogo ove i “segni” – seppur nascosti o non visti - della storia narrata si ricompongono tutti e consentono all’Autore di sostenere, a proposito del girovagare del Prospero Mussumeci, medico ed ebreo, che “forse, (…), ha finalmente trovato un passaggio per le ‘sue’ isole e vi si è diretto senza perdere altro tempo. Non lo biasimo, dunque, anzi! Sì, perché l’importante è questo: arrivare prima o poi all’isola che abbiamo cercato per tutta la vita, si chiami Dindima o Pasqua,Tahiti o Sant’Elena. Spesso, poi, non si trova agli antipodi, ma a poche bracciate dal luogo dove stiamo e da dove l’abbiamo sempre agognata”. I “segni”, nella storia, ci stavano tutti.  

domenica 17 novembre 2013

Cronachebarbare. 27 “Il paese di chi la spara più grossa”.



Rimaniamo sull’indecente tema “la politica vola basso”. Un tema che non ha mai attirato e trovato l’attenzione dei più. Donde, nessuna presa di posizione tale da invertire l’invereconda prassi. Decaduto, in apparenza, il tema della “decadenza” del signor B. ne è subentrato prontamente un altro con protagonisti diversi ma con la stessa spocchia di chi sa di detenere il potere. Il tema corrente di questi giorni è legato all’ambascia “dimissioni sì”/“dimissioni no” di un molto caritatevole ministro della giustizia. Nessuno che le possa rimproverare il suo vezzo caritatevole. Le si rimprovera l’inopportunità di certe sue iniziative che hanno travalicato e mortificato il ruolo pubblico ed istituzionale per ricondurre il tutto ad una questione non umanitaria ma familistica. In questo disarmante ed allarmante scenario ogni qualsivoglia atto della politica nel bel paese diviene un “volare basso” che non arreca benessere e serenità alla comunità tutta, bensì ad una parte ben individuata di essa. E questo “volare basso” investe tutti gli aspetti della vita politica ed istituzionale. Lo ha ben specificato Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” di oggi con un editoriale che ha per titolo “Il paese di chi la spara più grossa”: (…). …la politica italiana è ormai un incessante atto di fede. Prendiamo il ministro Cancellieri che spiega le continue telefonate ad Antonino Ligresti nei giorni in cui altri tre Ligresti finivano in galera “per consigli su problemi di salute miei e dei miei familiari”. Come dubitare, del resto, delle parole di un Guardasigilli? E che dire dell’ultima strepitosa profezia di Enrico Letta-Palle d’acciaio: “La ripresa dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono visibili”. Più che un premier sembra uno studioso di scienze occulte. Gli italiani, naturalmente, neanche più ascoltano questa fantasmagorica alluvione di giuramenti ingannevoli, promesse immaginarie e previsioni avventate. E per i superstiti spettatori dei talk show televisivi, spesso l’unico divertimento consiste nel vedere chi la spara più grossa. Quando politici e politicanti scopriranno che tutto questo parlarsi addosso tra le macerie non serve a niente sarà sempre tardi. (…). Un dubbio persiste: che veramente gli italiani non ascoltino più “questa fantasmagorica alluvione di giuramenti ingannevoli, promesse immaginarie e previsioni avventate”? Veniamo da un ventennio di proclami e di false promesse ed a leggere le vicende degli ultimi anni della politica del bel paese non si può certo dire che i millantatori siano stati puniti per aver venduto fumo. E del resto, anche chi avrebbe dovuto combattere senza tregua illusionisti e millantatori di professione alla fine si è accordato con essi per una conduzione condivisa della cosa pubblica. Giustificandosi dietro lo schermo della necessità. Della eccezionalità. Per la qual cosa chi avrebbe dovuto contrastare i venditori di fumo si sono invece impegnati ad acquisirne le più segrete strategie. Ed è da dire – visti i risultati - che i discepoli non fanno sfigurare i maestri. Un significativo ed esaustivo campionario nello sport divenuto nazionale a “chi la spara più grossa” lo ha proposto Marco Palombi, sempre su “il Fatto Quotidiano”, del giorno 16 di novembre col titolo “Conti a posto”: le balle d’acciaio”. Balle raccontate ad ogni pie’ sospinto dal premier in carica. Di seguito si propone, nella sua interezza, l’interessante campionario.

Il debutto. “Dal tour europeo sono tornato con qualche elemento fiducia in più: ho detto che l’Italia non vuole sbracare, vuole mantenere gli impegni, ma non possiamo più accettare che l’Europa sia solo tagli, tasse e austerità”. (5 maggio)
L’ottimismo. “Sono fiducioso che l’Ue coglierà gli sforzi che l’Italia sta facendo per rimanere virtuosa”. (17 maggio)
Serietà. “L’Italia è un Paese serio e un Paese serio prende degli impegni e li mantiene, a cominciare da quelli sulle politiche per la crescita. Ma senza fare nuovi debiti e senza scaricare sui nostri figli le scelte sbagliate”. (18 giugno)
Ciclismo. “Nei prossimi 18 mesi avremo tre fasi: la prima, quella attuale, è la più difficile ed è il gran premio della montagna. La seconda, a fine anno, sarà il falso piano e, infine, nel 2014 avremo la discesa”. (25 giugno)
Pie illusioni/1. “Parte una nuova fase: i sacrifici fatti al momento giusto, perché avevamo fatto troppi debiti in passato, e le scelte dei governi precedenti confermate da noi hanno consentito di uscire dalla procedura di deficit eccessivo e di avere un premio importante: maggiore flessibilità sul bilancio 2014 che ci consentirà di fare investimenti produttivi”. (3 luglio)
Pie illusioni/2. “L’Europa premia chi si impegna: è un bel messaggio per i cittadini europei e per l’Italia che si è impegnata e oggi ha il suo premio”. (3 luglio)
Visioni. “I sacrifici sono uno strumento per ottenere un fine e oggi c’è la percezione che i primi segnali positivi si vedono”. (2 agosto)
Futuro. “I sacrifici li abbiamo fatti e li stiamo facendo non perché ci sia qualcuno a imporceli, ma perché siamo un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri figli. Dobbiamo avere maggiore fiducia in noi stessi”. (17 agosto)
Ordine. “Siamo orgogliosi che l’Italia sia un Paese con i conti in ordine”. (21 agosto)
Bacchettate.“Negli altri G20 ci avevano dato i compiti a casa, perché eravamo stati malandrini: oggi invece possiamo ragionare sulle cose positive da fare per il futuro e non ci prendiamo le bacchettate sulle dita come in passato”. (6 settembre)
Autonomia. “La legge di Stabilità la scriveremo noi, non Bruxelles, perché siamo usciti dalla procedura di deficit eccessivo”. (14 settembre)
Previsioni. “Oggi il mondo e l’Europa non ci trattano più da osservati speciali. Oggi è finita l’epoca del rigore fine a se stesso e della sola austerità”. (14 settembre)
Premonizioni. “Se l’Europa è solo tasse, austerità, recessione e nessuna luce in fondo al tunnel la legge di Stabilità non servirà a nulla: quando si chiede di fare sacrifici, poi bisogna anche indicare dov’è la terra promessa”. (24 settembre)
Trionfo/1. “Per la prima volta da anni facciamo una legge di Stabilità in cui i conti quadrano senza aumentare tasse e senza fare tagli al sociale e alla sanità”. (15 ottobre)
Trionfo/2. “Siamo fuori dall’emergenza, ora vanno applicate le riforme: questo budget sarà il primo in cui il debito scenderà, così come il deficit, la spesa pubblica, le tasse”. (17 ottobre)
Atto di fede. “La ripresa dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono visibili”. (13 novembre)

Commentava Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” del 6 di novembre – “Sistema Anna Maria” – sempre sul caso soltanto sopito del “ministro umanitario”: Che spettacolo! (…). …l’unica verità politica di questa messinscena viene attribuita al costernato premier nipote che, inorridito dalla prospettiva di un rimpasto, avrebbe pigolato: “Se salta lei, salta tutto”. Proprio vero, poiché la tanto umana Anna Maria nelle telefonate con casa Ligresti rappresenta in realtà un solido e collaudato sistema di relazioni, al vertice del quale c’è il Quirinale con sponde a destra e a sinistra, nell’alta burocrazia ministeriale e nella finanza che conta. E un sistema non si dimette certo. (…). Così vanno le cose. E non c’è da ben sperare.