Entra tutto in quella che vado da
tempo definendo la “scarnificazione del pensiero”. E che concorre a rendere la
nostra democrazia una “luccicante scatola vuota” per dirla
con Noam Chomsky. L’ha tirato in ballo B.G. Noam Chomsky, in una delle sue
comparsate. Avere “scarnificato” il pensiero ha condotto la nostra derelitta
democrazia ad approdare sugli inospitali anfratti dei “cinquestellati”. E non è
stato un buon approdo. Poiché la “scarnificazione” del pensiero collettivo
porta direttamente ed immancabilmente alla democrazia su delega, alla quale ha
sapientemente e ciecamente condotto l’”antipolitica” al potere nel bel
paese. Oggigiorno non esistono gli antidoti per fronteggiare l’inatteso
fenomeno “cinquestellato”. Non c’è la possibilità ed il tempo utile per apprestare
i soccorsi alla democrazia malata, per chiamare a raccolta il popolo della
democrazia non più partecipata. È come se si fosse eclissato quel popolo, con
la pratica di quella “scarnificazione”. Poiché la
democrazia è la forma più imperfetta di partecipazione alla gestione della cosa
pubblica. Abbisogna di partecipazione diretta e non delegata, di assunzione di
responsabilità personali e collettive diffuse e non racchiuse in un circolo esclusivo.
Ha bisogno di continue verifiche e di mediazioni che solamente una
partecipazione attiva, vigile e diffusa alla vita pubblica non delegata può
esercitare. Di tutto ciò nulla che sia avvenuto nel bel paese da quando l’”antipolitica”
al potere ha voluto delegare solamente agli specialisti ed ai loro
adepti il discorso e la pratica di una corresponsabilità nella conduzione della
cosa pubblica. La democrazia muore se non la si vivifica di continuo e se ad
essa non si propongono sempre equilibri nuovi. La “stasi” è la morte della
democrazia. Ha scritto Massimo Recalcati – sul quotidiano le Repubblica del 3
di aprile, “La pastorale americana”
-: (…)
…Grillo si caratterizza per essere animato da quel fantasma di purezza che
accompagna tutti i rivoluzionari più fondamentalisti. Egli proclama a gran voce
la sua diversità assoluta dagli impuri: si colloca con forza fuori dal sistema,
fuori dalle istituzioni, fuori dai circuiti mediatici, fuori da ogni gestione
partitocratica del potere. È il fantasma che troviamo al centro della vita
psicologica degli adolescenti. Aver “scarnificato” il pensiero
ha avuto come risultato ultimo e non trascurabile l’arretramento ad una fase
adolescenziale di larghi strati della società italiana, arretramento che
l’insigne studioso e psicoterapeuta così delinea: Così agisce (…) la critica
sterile dell’adolescente rivoltoso nei confronti dei propri genitori. Il mondo
degli adulti è falso e impuro e merita solo di essere cancellato. Ma quale
mondo è possibile in alternativa? E, soprattutto, come costruirlo? Qui il
fondamentalismo adolescenziale si ritira. La sua critica è impotente perché non
è in grado di generare davvero un mondo diverso. Può solo chiamarsi fuori dalle
responsabilità che scarica integralmente sull’Altro ribadendo la sua innocenza
incontaminata. Questo fantasma di purezza che ha origini in una fissazione
adolescenziale della vita si trova anche a fondamento di tutte le leadership
totalitarie (non di quella berlusconiana che gioca invece sul potere di
attrazione della trasgressione perversa della Legge). E sappiamo bene dove esso
conduce, o può condurre. Ha condotto alla situazione di stallo che
pericolosamente sta vivendo il bel paese. Poiché la richiesta e/o
l’impossessamento più o meno occulto e proditorio della delega, impossessamento
che si è rimproverato all’”antipolitica” al potere, è invece
il bersaglio scoperto al quale mira l’adolescenziale insofferenza degli
improvvisati movimenti che, se inizialmente solo d’opinione, si siano
successivamente trasformati, come d’incanto, in pseudo-strutture partitiche. Il
salto è in una nuova, inesplorata ma pericolosissima situazione d’“antipolitica”
al momento ferma allo stadio dei nuovi barbari in arrivo. Continua a scrivere
Massimo Recalcati: Lo stato mentale di un movimento o di un partito si misura sempre dal
modo in cui sa accogliere la dissidenza interna. Sa tenerne conto,
valorizzarla, integrarla o agisce solo tramite meccanismi espulsivi? Sa
garantire il diritto di parola, di obiezione, di opinione personale oppure procede
eliminando l’anomalia, estromettendola con forza? (…). Come può essere
credibile in fatto di democrazia un movimento che attribuisce al suo leader il
ruolo di incarnare una eccezione assoluta? Il culto demagogico della
trasparenza nasconde questa presenza antidemocratica di un potere
incondizionato. Se l’azione politica è la pazienza della traduzione, se non
ammette tempi brevi, non contempla l’agire di Uno solo, il nuovo leader
inneggia all’antipolitica come possibilità di avere una sola lingua – la sua –
che non è necessario tradurre, ma solo applicare. Come non vedere che c’è un
paradosso evidente tra l’esigenza che nessuno parli a partire dalla sua testa e
l’esistenza di un leader anarcoide che resta esterno al movimento che ha
fondato e che esercita il suo diritto di parola in modo arbitrario? (…). Il
rischio segnato in questi movimenti è che essi siano l’avvisaglia di un
radicamento nuovo che nulla avrà di diverso rispetto alla “casta” che si era a
grandissima voce demonizzato e voluto combattere per estrometterla dal potere.
Con più di un’aggravante: ovvero della manifesta pretesa d’avere una purezza
propria, di possedere incontrovertibili verità laddove la democrazia può
sopravvivere solamente avendo caro il culto sacro del relativismo che dovrebbe
presiedere in tutte le pratiche inerenti alla vita pubblica. E questo pericolo
è individuato e ben delineato dall’Autore laddove scrive: Un leader degno di questo nome
lavora alla sua successione dal momento del suo insediamento mantenendo il
movimento che rappresenta il più autonomo possibile dalla sua figura. Prepara
cioè le condizioni di una eredità. Tutto ciò diventa di difficile soluzione
quando un movimento non ha storia, non ha padri, ma un genitore vivo e vegeto
che rivendica il diritto di proprietà sulla sua creatura. “Io ti ho fatta e io
ti disfo”; così una madre psicotica ammoniva una mia paziente terrorizzata. Una
leadership democratica deve sempre rispondere al criterio paterno di una
responsabilità senza diritto di proprietà. (…). Ecco la minaccia più
narcisistica che un fondatore può fare: io starò con te finché tu mi
assomiglierai, finché mi riprodurrai; se tu assumerai un tuo volto, una tua
originalità io non ne vorrò più sapere di te e me ne andrò. Il pluralismo è
temuto (…) da tutti i leader autoritari. Il sogno di un consenso al 100 per 100
è un sintomo eloquente. Era il sogno degli uomini di Babele mentre sferravano
il loro attacco delirante al cielo, la loro sfida a Dio: un solo popolo, una
sola lingua. No, le cose umane non vanno così. Dio sparpaglia sulla faccia
della terra quella moltitudine esaltata obbligandola alla differenza, al
pluralismo delle lingue, esigendo la pazienza della traduzione. Esistono in
democrazia più lingue e ciascuna ha diritto di manifestarsi e di essere ascoltata.
Guai se il fantasma di purezza si realizzasse al cento per cento. Lo ricorda
giustamente Roberto Esposito: una democrazia che si realizzasse compiutamente
sarebbe morta, annullerebbe tutte le differenze nel corpo compatto della
“volontà generale”, darebbe luogo ad una tirannide. La democrazia si
vivifica di continuo nella misura in cui il pensiero collettivo non inclina
alla delega e fa della partecipazione attiva – attiva! – alla gestione della
cosa pubblica un diritto ed al contempo un dovere irrinunciabile. L’”antipolitica”
al potere, nei decenni, ha “scarnificato” il pensiero
collettivo, ha ristretto la partecipazione, ha fatto assurgere a regola
democratica la delega più ampia da consegnare dopo ogni ritualità di voto ai “sacerdoti”
di quella “casta” resa intoccabile. Il danno è fatto. La democrazia è il
più imperfetto dei “sistemi” di governo e di partecipazione, vive e si vivifica
della e nella sua “imperfezione”. Poiché anche la democrazia che si realizzasse
con la “scarnificazione” del pensiero e con la scomparsa di “tutte
le differenze nel corpo compatto della “volontà generale”, darebbe luogo ad una
tirannide”. È questo il rischio altissimo che si sta correndo. Che non
sia il prezzo altissimo da pagare ora e subito alla “scarnificazione” del pensiero
operata dall’”antipolitica” al potere
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 3 aprile 2013
martedì 2 aprile 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 4 “Il 2 di aprile dell’anno 2011”.
Annotava nell’incipit del Suo
pezzo il professor Galimberti il 2 di aprile dell’anno 2011, occupando la
piazzaforte del potere il signor B. – sul settimanale "D" del quotidiano “la Repubblica”, “È davvero necessaria la guerra?” -: Scrive
Wilfred Owen: Ai fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate, non
ripetere la vecchia menzogna: Dulce et decorum est pro patria mori. È
che è dei potenti considerare il popolo tutto come “fanciulli ansiosi” ai
quali offrire sempre, come scriveva il sommo Orazio nelle Sue “Odi” (III, 2, 13) “dulce et decorum est pro patria
mori”, ovvero “è dolce ed onorevole morire per la patria”.
Solo che a morire andranno poi i più poveri, i più disgraziati, quelli che non
hanno nulla da perdere se non la propria vita resa fastidiosa e quasi inutile,
come l’immane carneficina della “grande guerra” ebbe a dimostrare
molto amaramente nel primo ventennio del secolo decimonono. L’Orazio di quel
tempo stimolava in verità i giovani romani ad imitare le virtù e l’eroismo
guerriero degli antenati. Al tempo meschino nostro abbiamo visto (e deriso) un
servitore del paese camuffarsi con tuta mimetica e con quant’altro lo facesse
assomigliare ad un feroce ed indomabile guerriero. È che la storia, ebbe a dire
un grande, si ripete sempre, ma nelle sue puntate successive frana immancabilmente
e rovinosamente nella più esilarante delle “farse”. È quel che ci è toccato di
vivere. E l’illustre studioso non può non ricordare, nella annotazione Sua,
come quella oraziana locuzione sia stata utilizzata, ma con significato
opposto, ovvero come denuncia della insensata “bestialità” della
guerra, dal poeta inglese Wilfred Owen che la scrisse nell’anno di guerra 1917
mentre era ricoverato in ospedale per le ferite e lo schock causati da un bomba
esplosagli accanto in battaglia e che sarebbe morto pochi giorni prima che quella
prima “grande guerra” terminasse. Mi veniva da pensare a tutto questo
- ed alla riflessione del professor Galimberti - nei giorni della “crisi”
italo-indiana. E mi veniva da temere che a qualcuno dei nostri tonitruanti “tromboni”,
sfuggiti magari in altri tempi alla ferma di leva, quand’essa era obbligatoria,
oggigiorno in posa in tuta mimetica e telefonino, venisse in mente d’invocare
il grande Orazio per la “battaglia” finale da portare in
quegli sperduti oceani a difesa, per l’appunto, dell’”onor di patria” offeso.
Ed a ripensar bene alla storia di quei due sciagurati, accolti come eroi in un
paese d’imboscati “usi ad obbedir tacendo” e sempre in prima fila stretti e
compattati nel pensiero primigenio dell’”armiamoci e partite”, ripensando a
quella sciagurata storia non ho potuto fare a meno d’accostarne le vicende a
quella di un certo capitano di nave fuggito per primo mentre il suo battello affondava
al largo di una scogliera amica. Anche nella terrificante seconda storia di quell’inane
un popolo tutto si mobilitava, nel paesello natio suo, per celebrarne l’”innocenza”
a priori, come se un popolo belluino potesse sostituirsi agli organi allo scopo
preposti. Messo al posto dei due sciagurati fucilieri mi sarei sentito tradito
ed offeso – a quel pensiero - ed avrei invocato il rispetto dei patti e degli
accordi. Uno “spicchio” della pochezza e della insensatezza degli atti dei governanti
accorsi allo sbarco aereo dei due fucilieri ce lo ha offerto Barbara Spinelli
in un Suo folgorante pensiero (postato a lato) che ho tratto da “I partiti al bivio di papa Francesco” pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 27 di marzo. Ed adesso che facciamo? Facciamo
la guerra all’India? Rileggiamo, di seguito ed in parte, quanto ha scritto, in
quella remota data, il professor Galimberti: (…). …siccome la guerra è il male
assoluto, da cui l'umanità, dal primo giorno della sua comparsa non si è ancora
liberata, per giustificarla occorre ricorrere a una sua descrizione in termini
ora razionali ora sacrali, che una buona retorica riesce a mescolare in una
giusta ed efficace miscela. I motivi razionali, che di solito sono di natura
economica (come ad esempio la nostra sete di petrolio i cui giacimenti o i
canali di conduzione devono essere assolutamente garantiti), non sempre sono
esplicitamente confessabili, perché tutti noi, non si sa fin quando, ma per il
momento ancora, fatichiamo ad accettare che il prezzo dei beni di cui
necessitiamo debba comportare la morte di giovani vite. E allora un motivo
razionale più convincente e persuasivo è il pericolo del terrorismo, (…). Anche
per i poveri morti indiani, pescatori, scomparsi in carne ed ossa ma ancor più
dalla collettiva memoria senza che si rendesse loro giustizia, come se la loro
morte fosse del tutto “insignificante”, si è invocata, a
tutela forse dei due sciagurati fucilieri, la loro appartenenza alla pirateria
del secolo ventunesimo. Come con uno strano teorema: se pirati, le
responsabilità degli uccisori scemano. Lasciamolo decidere ai tribunali. O
facciamo la guerra? Aggiunge il professor Galimberti: Quando i motivi razionali non
tengono si ricorre a suggestioni sacrali, come la difesa della nostra civiltà,
della nostra cultura, della nostra religione, e qui il discorso sale a un
livello dove non è più necessario discutere in termini razionali dividendo il
campo tra i pro e i contro, perché quando sono in gioco patria, civiltà,
cultura, religione, identità e appartenenza, allora entriamo nella sfera del
sacro, dove la guerra è benedetta da Dio, come da una parte e dell'altra si
diceva in occasione della guerra in Iraq, e precisamente sia da Bush sia da Bin
Laden, dimenticando, sia l'uno sia l'altro, che è lo stesso Dio, quello
cristiano e quello musulmano, che ciascuno proclamava schierato dalla propria
parte. Di fronte al sacro i motivi razionali, sia quelli confessabili, sia
soprattutto quelli inconfessabili, escono di scena, e in tal modo risultano
meglio e definitivamente protetti. Messe da parte le parole della ragione, al
loro posto subentrano le parole del sacro che parlano di eroismo, di martirio,
di sacrificio estremo: ad esse non si può fare alcuna obiezione perché
suonerebbe come una bestemmia. Attraverso l'alone di sacralità, con cui la si
circonda, la guerra in questo modo è salva e può continuare il suo teatro
lugubre e truce. Anche in nome di quegli “stranissimi” nostri eroi.
sabato 30 marzo 2013
Cosecosì. 48 “La profonda affinità tra cristianesimo e marxismo”.
Riporta il professor Umberto
Galimberti in “La profonda affinità tra cristianesimo e marxismo” del 24 di
marzo 2012, sul numero 784 del settimanale “D”: Scrive il filosofo cattolico
Jacques Maritain in "Umanesimo integrale": - Si può criticare
efficacemente il marxismo solo rimanendogli, sotto molti punti, debitori -. Tra
cristianesimo e marxismo c'è una profonda e sotterranea parentela che non
consiste tanto nella pretesa di educare l'umanità, quanto in una concezione del
tempo, non più cadenzato sui cicli della natura, come lo era per i Greci, ma
sui processi della storia carichi di promesse salvifiche, utopiche e
rivoluzionarie. Se non si comprende questo, si rimane, come i più rimangono, in
quella visione superficiale che contrappone il cristianesimo al marxismo sulla
base dell'affermazione o della negazione dell'esistenza di Dio, che marca la
differenza e nasconde quella sotterranea visione del mondo che li accomuna. All’approssimarsi
della Pasqua cristiana i termini della riflessione proposta dall’illustre
Autore tornano nella loro pregnanza. Ed è da quei termini che bisognerebbe
ripartire oggi che le ideologie sono date per morte e che le moltitudini
brancolano come se avessero perduto il senso della loro Storia e delle loro
vite. Un brancolare che sino allo scoppio della “crisi” trovava una parvenza
di appiglio – e di incerta salvezza - nella fatica del “consumare”, fatica che
non trova oggigiorno più possibilità e senso stretti come si è nella tenaglia
economico-finanziaria che stritola singoli e comunità. E quel qualcosa che
accomuna le due visioni della vita e della storia, seppur all’apparenza
contrastanti, trova ragione d’essere nella misura in cui esse, quelle visioni,
sono state e permangono come anelito non riposto per un egualitarismo tra tutti
gli esseri umani che sia intuibile e sperabile. Ambedue le visioni sono state
(e lo sono tuttora) portatrici di quelle “promesse salvifiche, utopiche e
rivoluzionarie” che solamente le grandi ideologie sono capaci di far
permanere nonostante l’indifferenza sovrana ed imperscrutabile del cosmo che ci
circonda e lo scorrere inarrestabile del tempo. È che le “
strutture e le sovrastrutture”
che quelle due ideologie hanno artatamente costruito nel corso della
loro storia le hanno portate a contrapporsi come avversari irriducibili, ché la
sola scomparsa dell’uno avrebbe concesso credibilità maggiore all’altro,
risultato il vincente. Ed invece è potuto accadere che ambedue oggigiorno
trovino le loro strade ingombre delle macerie di quelle “strutture e sovrastrutture”
rovinosamente cadute a pezzi. Ha scritto Tahar Ben Jelloun nel Suo volume “La scuola o la scarpa”: Il
cielo non ama i poveri. Nessuno li ama. È ingiusto e crudele. Ma cosa
significa, poi, essere poveri? Significa risvegliarsi, il mattino, chiedendosi
se la giornata passerà senza che i bambini piangano per la fame. Significa non
avere fortuna, o più precisamente non avere nulla, neanche fave per i tempi di
siccità. Significa non avere che le proprie mani, le proprie braccia e grandi
occhi per controllare l’orizzonte. Qui, tutti hanno gli occhi rivolti
all’orizzonte. Si pensa che il salvatore venga da lì. Si crede anche che le
carestie siano un’invenzione degli uomini. A che cosa deve assomigliare un
salvatore? A un branco di cammelli che porti cibo a tutto il villaggio? A un
mago su un cavallo, con una bacchetta magica capace di rendere la terra fertile
e gli uomini più produttivi? A un uccello rapace che rinunci alla sua rapacità
e sappia trasformare le nuvole in
pioggia? A un profeta che parli del bene e del male, del paradiso e
dell’inferno, e prometta la fine della miseria, a patto che si obbedisca ai
suoi ordini? No, il salvatore non sarà né un profeta né un mago. Sarà l’insieme
degli uomini che si uniscono, lavorano la terra, reclamano i loro diritti e
impediscono che la carestia colpisca il villaggio. E la storia sta lì a
parlarci di questo non-amore rivelato per i “poveri”, anzi per
l’umanità tutta che stia fuori dalle “strutture e sovrastrutture” create con
e per le ideologie imperanti e che hanno contribuito a creare elite di
privilegiati e di indifferenti. Scrive ancora il professor Galimberti: A
differenza dei Greci, per i quali il tempo, in quanto eterna ripetizione dei
cicli della natura, non ospitava alcun senso, per la tradizione
giudaico-cristiana, il tempo è fornito di "senso" dove, come scrive
Salvatore Natoli in Teatro filosofico (Feltrinelli): "alla fine si
realizza ciò che all'inizio era stato annunciato". E quando il tempo è
fornito di un senso, nasce la "storia", dimensione del tutto assente
nel mondo greco, dove gli "storici" Erodoto, Tucidide, si limitano a
narrare le vicende di cui furono testimoni. Del resto la parola
"hístor", in greco, significa "testimone". Una volta
tradotto in storia, gli eventi che accadono nel tempo sono sottratti alla loro
insignificanza e proiettati in una finalità: che per il cristianesimo è la
salvezza che si realizza nell'altro mondo e per il marxismo il miglioramento
della condizione umana da realizzare in questo mondo. Per quanto differenti
siano gli obiettivi, ad accomunare le due visioni del mondo è la visione
"escatologica" del tempo, dove alla fine (éschaton) si realizza
quello che il cristianesimo annuncia e il marxismo si ripromette. La promessa
cristiana non ha verifiche e la promessa marxista è storicamente fallita, ma
non è esaurita la visione ottimistica della storia con cui il cristianesimo ha
animato l'Occidente, contagiando col suo ottimismo la scienza che guarda il
futuro non alla maniera greca come eterna ripetizione del passato, ma come
"progresso", la sociologia come miglioramento delle condizioni umane,
e in generale tutti i saperi le cui ricerche sono promosse dalla fiducia nel
futuro che il cristianesimo e non altri ha istillato nella nostra cultura. Ma
se è vero come ha annunciato Nietzsche che "Dio è morto", perché
"non fa più mondo", dal momento che se tolgo la parola
"Dio" non ho difficoltà comprendere il mondo contemporaneo, mentre se
tolgo la parola "denaro" o la parola "tecnica" con tutta
probabilità non capirei più come si muove il mondo, allora anche l'ottimismo
che il cristianesimo ha immesso nella cultura occidentale, si spegne e, dalla
"storia" carica di senso, si torna al "tempo" come
successione di giorni senza finalità. Il denaro e la tecnica, infatti, non
hanno altro scopo che il proprio accumulo (il denaro) e il proprio
autopotenziamento (la tecnica), per cui non sono più "mezzi" per
conseguire una finalità, ma, come oggi constatiamo sulla nostra pelle, "fini"
da raggiungere in sé e per sé. Chi non si rassegna a vivere in un tempo senza
finalità, chi non rinuncia a una visione escatologica del tempo come il
cristianesimo e come il marxismo: non vedo che difficoltà si frapponga a un
loro incontro, magari in nome del Vangelo, dove ai poveri era promesso un
riscatto in "nuovi cieli e in nuove terre" per il cristianesimo, su
questa terra per Marx. Ora che le macerie di quelle “strutture
e sovrastrutture” ingombrano il cammino degli uomini e ne impediscono
una rinascita non resta che essi, tutti gli uomini di buona volontà di questo
mondo, come un sol uomo, si mettano a spalare di buona lena quelle macerie, si
uniscano come fratelli, lavorino operosamente la terra, reclamino i loro
diritti e impediscano “che la carestia colpisca il villaggio”
degli umani.
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