"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 luglio 2012

Cosecosì. 24 L’amore al tempo del piccì.


L'amore fa paura. Perché è enormemente sopravvalutato come soluzione alla solitudine, Perché implica mettersi in gioco, perché si pensa che si potrebbe soffrire troppo se l'altro ci lasciasse (…). Paura è il nome che diamo alle nostre incertezze, alla nostra insicurezza che proiettiamo sull'altro, che facciamo diventare un nemico pericoloso. Allora sogniamo amori idealizzati e perfetti, fuori dal reale; oppure scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci pur rimanendo autonomi. Alcune persone hanno paura della vita e si mettono in due per proteggersi da essa, altri temono l'amore e si accontentano di rapporti distanti, formali, di facciata, in cui si rimane uguali a se stessi. In cui non si chiede né a sé né all'altro di mettersi in gioco nel rapporto. È proprio per questo che quando spontaneamente finisce l'eccitazione della novità ci troviamo con la nostra unione vuota, senza più niente che ci tenga insieme. Da lì la voglia di ricominciare da un'altra parte. Le situazioni amorose sono decidibili e determinabili? Certo che no. Noi umani non ci comportiamo in maniera prevedibile come un tostapane o un'automobile. Un tradimento può sempre avvenire, una distrazione, un incontro più importante. Il futuro non è sotto il nostro controllo ma proprio questo è il bello. C'è poi un minuto di sospensione tra quello che il futuro ci propone/impone e il nostro arbitrio. La possibilità di dire ci sto/non ci sto/proviamo di nuovo. Quali rischi ci sono nell'amare? Pochissimi. Purtroppo non ne siamo consapevoli. Rischiamo meno che nello stare in una relazione senza amore, che può deprimerci in maniera irreversibile, lentamente. I vantaggi invece sono incommensurabili. Tra questi c'è la possibilità di evolvere e maturare, anche di imparare a dare e a chiedere, rispettando noi stessi. E se l'altro se ne va, se ci manca di rispetto, se ci offre solo briciole, se tenta inconsapevolmente o meno di farci del male, se..., se... noi abbiamo noi stessi su cui contare, sempre e comunque. Possiamo contare sul nostro cuore, sulle nostre risorse e sulle nostre debolezze. Purché siamo onesti con noi stessi, ci diciamo chi e dove siamo, cosa dobbiamo migliorare, come possiamo adattarci di più alla vita. Non è sulla certezza che si basa l'amore ma sull'investimento che implica curiosità verso l'altro, disponibilità a mettersi in gioco e a investire su progetti comuni, quelli che ci permettono di ballare insieme. Ovvero, della complessità del vivere. Così scriveva nell’oramai tempo remoto – la riflessione è del 26 di luglio dell’anno 2008 -, Umberta Telfener, psicologa e terapeuta autrice di “Ho sposato un narciso” (2006) e di “Le forme dell’addio” (2007) editi entrambi per i tipi Castelvecchi. Me ne sono ricordato leggendo, sul quotidiano la Repubblica, l’interessante intervista a firma di Antonio Gnoli a Luciana Castellina, il senso della quale intervista è ben riassunto nel titolo e nel sottotitolo: “Passioni rosse: quei comunisti così puritani e così disinvolti”. Rimando sempre e comunque, per un approfondimento della sempre ostica e controversa tematica, ad un’opera cinematografica abbastanza recente che ha fatto molto rumore, “Cosmonauta” (2009) di Susanna Nicchiarelli, la visione della quale raccomando vivamente. Poiché, in essa, con maestria e leggerezza al contempo, è analizzato e narrato quel “come eravate voi del Pci nei rapporti d’amore” che l’intervistatore pone all’inizio della Sua intervista. Ritengo fondamentale il lavoro della Nicchiarelli, poiché esso rappresenta magnificamente come avveniva l’”educazione sentimentale” al tempo del piccì. Che non si contrapponeva alla “educazione sentimentale” che altri giovani di quel tempo – 1957 – vivevano in altri ambiti associativi – mi viene di pensare alla Associazione Cattolica alla quale ho pur io aderito e che consentiva una controllata promiscuità di genere – così come Luciana, la protagonista del film, viveva nella sezione del piccì del Trullo alla periferia della Roma di quel lontanissimo tempo.

(…). Come eravate voi del Pci nei rapporti d’amore? «La responsabilità e il decoro, che il partito, esigeva dovevano convivere con le passioni sentimentali che a volte potevano essere travolgenti. Non era facile tenere sotto controllo una situazione antropologicamente chiara ma politicamente condizionante. In fondo parlare d’amore è complicato».
Perché? «I comunisti preferivano parlare della famiglia. L’amore è una nozione moderna che implica il concetto di individuo. L’amore non esiste nel mondo rurale. E l’antichità conosce l’eros ma non l’amore come lo intendiamo oggi. L’amore è anche rischio, passione, principio di destabilizzazione. Considerato una prerogativa “borghese” e per questo nel Pci poteva essere visto con sospetto. Aggiunga che la gran parte dei due milioni e passa di iscritti al partito erano contadini e cattolici e avrà chiaro il quadro della situazione ».
E tuttavia proprio i vertici del partito non sempre davano il buon esempio. «C’era un misto di puritanesimo e di pratica non consonante, ma questo accade ovunque il potere venga esercitato. Inoltre, caduto il fascismo, molti dirigenti comunisti tornarono dalla galera, dal confino, dall’esilio. Erano più vecchi di qualche anno, ma si sentivano eroi in grado di sedurre giovani fanciulle. I più anziani erano i Longo, i Roasio, i Togliatti. Tutti sposati ma con delle mogli che appartenevano a un’altra stagione della vita».
(…). Non ritiene che la rigida morale del partito dipendesse anche dal fatto che il Pci era un organismo molto simile alla Chiesa? «C’erano dei codici e delle liturgie da rispettare».
Che ogni tanto venivano trasgrediti soprattutto da intellettuali e artisti. «Il loro era un mondo separato. Anche se interessante. Quando conobbi il mio ex marito, Alfredo Reichlin, che allora era all’Unità, frequentavamo sì gli intellettuali, ma erano davvero un corpo secondario, rispetto al partito».
Il che non impedì, quando se ne scoprirono le inclinazioni sessuali, l’espulsione di Pasolini per indegnità morale. «Era il 1950. La questione gay non era stata neppure lontanamente affrontata. C’era stata una denuncia per atti osceni. E il partito reagì male, molto più nel perbenismo dei vertici che in quello della base ».
Non ha l’impressione che gli amori comunisti a volte fossero frutto del privilegio? «A volte sì. C’era chi poteva permetterselo».
Guttuso non ha mai sacrificato l’istinto del maschio siciliano. «Sì, ma da un certo momento in poi, agli artisti era concesso trasgredire. Mentre più imbarazzante sarebbe stato per un dirigente politico. Non dimentichi che il partito fino agli anni Ottanta conserverà una certa idea di purezza. Il richiamo che Berlinguer farà a santa Maria Goretti, come modello per la gioventù comunista, va in questa direzione».
Le sue radici, Castellina, sono borghesi, non le ha mai pesato aver scelto il Pci? «È la mia storia. Quando sono entrata nel Pci mi sono autocriticata su tutto, rispetto alla mia provenienza. Ho ridimensionato l’Io a favore del noi, del comune».
Una grande individualità fu Sibilla Aleramo. Come la giudica? «Fu anche lei iscritta al Pci. È stata un modello di libertà sessuale e di pensiero. In qualche modo con lei riprendeva corpo la tradizione socialista di Anna Kuliscioff, Alexandra Kollontai e in parte Tina Modotti».
(…). I suoi rapporti con il femminismo? «Sono stati tardivi. Fui educata alla scuola dell’emancipazione femminile per cui le donne dovevano diventare come gli uomini. È stata mia figlia a rendermi cosciente che il problema non è di somigliare agli uomini ma di far valere la diversità delle donne».
(…). Meglio compagni, mariti o amanti? «Compagni è meglio. L’amante può essere la storia di una sera. Compagno puoi esserlo per la vita. E comunque meglio compagno che marito. Uno dà il senso di scelta che l’altro non offre. E poi: mentre è difficile avere molti mariti, è possibile avere molti compagni. Storicamente non è facile essere monogami».

giovedì 26 luglio 2012

Cosecosì. 23 Il rischio dell'incompetenza.


Scrive Umberto Galimberti nella Sua riflessione “Il rischio dell'incompetenza” del 30 di luglio dell’anno 2011: Tra la competenza tecnica racchiusa negli strumenti che utilizziamo e l'incompetenza di ciascuno di noi, c'è un divario, rischioso e imprevedibile. Non so se l'accettazione incondizionata dei progressi tecnologici sia responsabile del conformismo diffuso nelle nostre società. Quel che so è che la competenza tecnica racchiusa negli strumenti tecnologici che abitualmente utilizziamo ha superato di gran lunga la competenza tecnica di ciascuno di noi. Questa disequazione tra la cultura oggettivata nei dispositivi tecnici e la cultura soggettiva dei singoli individui sta per infrangere, se addirittura a nostra insaputa non ha già infranto, il sogno dell'uomo di dominare con la tecnica il mondo, nell'incubo di essere dominato dai sui dispositivi tecnici che impiega, ma di cui non ha competenza. Il suo opportuno riferimento ai "selvaggi" può essere radicalizzato nel senso che, rispetto ai nostri congegni tecnici, i selvaggi siamo noi. E ciò è dovuto, come scrive Günther Anders ne L'uomo è antiquato (1956) "alla nostra incapacità di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro e che ci sono sfuggiti di mano". La conseguenza è che "ormai seguiamo da lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici". Già cinquant'anni prima di Günther Anders, Georg Simmel in Filosofia del denaro (1900) annotava che "La macchina è divenuta molto più spirituale del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all'interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina?". E qual è il rischio che si corre quando la cultura oggettivata negli strumenti tecnici supera la cultura dei singoli individui? Il rischio, ce lo ricorda Günther Anders, consiste nel fatto che "la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare. [...] Per cui la domanda non è più "cosa possiamo fare noi con la tecnica", ma "che cosa la tecnica può fare di noi". La lunga citazione per evidenziare, qualora ce ne fosse il bisogno, la nostra condizione di “consumatori” incalliti e di “utilizzatori senza cognizione” della tecnica insita negli strumenti che la stessa mette a nostra disposizione. Intendendo, al riguardo, non solo della utilizzazione di apparecchi e strumenti vari, ma anche di tutto ciò che la comunicazione, ancella povera e risorsa perversa della tecnica, porta alla nostra attenzione e/o consapevolezza. Per dire: quale impatto hanno, per esempio, le informazioni meteorologiche  sulla nostra vita quotidiana? Conosco persone che hanno ristretto il campo del loro spasmodico bisogno d’informazione sull’evolvere del “tempo meteorologico” al particolare che più particolare non si può, ovvero alla ricerca delle condizioni meteorologiche non più del proprio paese o della propria regione, ma l’evolversi sopra la propria città se non, in un prossimo futuro, sul proprio quartiere o sul proprio fabbricato. Un’assurdità. Per farne che cosa? è finito il tempo in cui si parlava del “tempo meteorologico” alzando semplicemente gli occhi al cielo. Ci si ritrova così nella condizione magistralmente rappresentata da Günther Anders e citata dal Nostro, ovvero di esseri viventi che si aggirano tra i “congegni come sconvolti animali preistorici". A questo punto mi viene di raccontare una storia. Amo raccogliere le storie di strada, di quelle che si ascoltano anche in occasione di un incontro imprevisto. Come mi è capitato in quel di *******. E la storia ha inizio con le osservazioni sul “tempo” meteorologico del luogo e del momento. Senza proiezioni future, però. Come si soleva fare un tempo che è stato. La storia dunque. Che affiora dai ricordi della persona casualmente incontrata. E di un certo “Don Antonio”, al quale la comunità del luogo riconosceva grande competenza nel prevedere l’evolvere del “tempo meteorologico”, per via di un suo passato nella marina mercantile. Raggiunta l’età della pensione il nostro “Don Antonio” soleva trascorrere le sue giornate concedendosi, quotidianamente, una o più partitelle a carte con l’allora giovincello narratore della storia e, al pari del nobil uomo immortalato ne’ “L’oro di Napoli” del grande De Sica, non disdegnava imprecazioni o quant’altro ad ogni sconfitta subita – un’onta gravissima - dal giovanissimo avversario. E fu così che, forse a seguito di una di quelle partitelle andata a male, alla consorte che dal balcone gli chiedeva conto dell’evoluzione del “tempo”, il “Don Antonio” della storia, sporgendo appena la mano col dorso verso l’alto, distrattamente rispondesse: - Non piove -. E per la sua distratta previsione due anziane sorelle che, intabarrate nelle loro vesti scure, con passo lento data l’età loro avanzata, solevano raggiungere il cimitero del luogo per i doveri verso i congiunti e gli amici scomparsi, si beccarono un tale diluvio d’acqua che a memoria d’uomo non se ne è raccontato di un altro per copiosità e violenza. Un ritorno, nella semplice storia di strada che ho riportato, della possibilità umana dell’errore a fronte di un utilizzo ingenuo se non perverso della tecnica e della scienza che si piccano d’essere infallibili ma che non cambiano di molto il nostro faticoso vivere.

martedì 24 luglio 2012

Sfogliature. 5 “Del senso cinico. Il giovedì 24 di gennaio.”


 "Per questo, in solitudine, voto la fiducia al governo Prodi". È un attimo. Il senatore Nuccio Cusumano, democristiano agrigentino posteggiato sotto le insegne dell'Udeur di Mastella, finisce di parlare e nell'Aula del Senato irrompe come un cataclisma Tommaso Barbato, anch'egli senatore Udeur. Al grido di "pezzo di merda, traditore, cornuto, frocio", Barbato sale i gradini che lo separano dall'ormai ex amico e prova ad avventarsi sul malcapitato. Che in serata sarà espulso dal partito per "indegnità politica". Pochi minuti e l'aula della Camera Alta si trasforma in un bar da angiporto. Barbato è irrefrenabile. "Gli ha sputato" riferisce agli increduli cronisti il senatore De Gregorio. Il tutto mentre il seguace di Fini Nino Strano urla all'indirizzo del povero Cusumano: "Squallida checca". È la cronaca “nera” di quella giornata – il 24 di gennaio dell’anno 2008 – a firma di Andrea Di Nicola sul quotidiano la Repubblica. Sappiamo bene come sia finita poi per il governo Prodi. Esisteva, nella precedente configurazione di questo blog, una categoria di argomenti alla quale avevo dato per titolo “Del senso cinico”. Il post che propongo di seguito è stato il primo della categoria e portava per titolo “Il giovedì 24 di gennaio”. Il post è di vecchia, vecchissima – 25 di gennaio 2008 - data; contemporaneo però agli avvenimenti descritti sul quotidiano la Repubblica. Si direbbe un ripescaggio. Perché mai? Per una conferma: dell’inamovibilità della “casta”. La sua ostinata “coazione a ripetere”. È di questi giorni l’altalenante discorrere di elezioni-sì elezioni-no per il dopo solleone. Per fare cosa? Per affrontare quali dei problemi? La calura estiva ci soccorre, almeno, evitandoci “quegli appuntamenti d’avanspettacolo” dei quali si fa cenno nel post fortunosamente ripescato dalla vastità silenziosa della rete. 

La “santa” - tra virgolette - giornata del giovedì 24 di gennaio dell’anno del signore 2008 penso si debba annoverare e iscrivere da subito, a futura memoria, tra le date più importanti nella storia bel paese. Di tutta la sua storia, antica e recente. E chissà, se non anche di quella futura. Nella “santa” giornata del giovedì 24 di gennaio il popolo tutto del bel paese ha assistito, incredulo, al trionfo del cosiddetto “senso cinico”. Ripeto, del comune “senso cinico”. E non è per nulla un refuso di  digitazione. Si parla per l’appunto, in questa rubrichetta appena avviata per la solenne occasione, dell’alto “senso cinico”, e non civico come si converrebbe normalmente, dei rappresentanti dell’italico popolo. Anch’io, nella “santa” –  sempre tra virgolette - giornata di giovedì 24 di gennaio, ho avuto la malsana, improvvida idea di assistere, in prima serata, ad uno di quegli appuntamenti d’avanspettacolo che i moderni mezzi di (dis)informazione attivano prontamente nelle occasioni più importanti. E quale occasione più importante se non quella, per l’appunto, del trionfo e della glorificazione del comune “senso cinico” italiota? Assiso, come immagino, assieme a milioni di altri italioti dinnanzi al piccolo schermo, mi sono illuso, in verità non tanto, di ascoltare le nobili motivazioni per le quali un parlamento della repubblica invitava il governo in carica a farsi lestamente da parte. E sì che a tutti gli abitatori del bel paese risultava chiaro, anzi chiarissimo, il motivo dominante e preminente dell’incauto atto; ma si sperava, nel corso della predetta rappresentazione di puro ed eccelso avanspettacolo, per l’appunto, di essere colti in fallo, di essere disvelati ed additati ai prossimi astanti ed ai più remoti come incompetenti delle cose pubbliche del bel paese e di non avere inteso a pieno le cose nobili, erudite e recondite insite nelle vicende politico-parlamentari del giorno. Confesso che in cuor mio ho sperato ardentemente di essere corretto delle mie stramberie e fumisterie ed ho sperato d’essere informato ed erudito convenientemente per il qual motivo il parlamento della repubblica avesse provveduto a deliberare tanto “ saggiamente “, scritto sempre tra virgolette. E sono state due ore e passa di sproloqui e vaniloqui da ascoltare con un fremito di inquietudine risalente impetuoso per tutto il corpo; ed al contempo i protagonisti della rappresentazione d’avanspettacolo, nell’occasione ben compattati nell’arco intero costituzionale, sono stati impegnatissimi e bronzei ad emettere suoni su incomprensibili considerazioni cosiddette politiche e su anatemi altisonanti senza etica d’appartenenza alcuna; ed il loro stridulo e starnazzante vociare, incomprensibile sempre e confuso per la concitazione loro il più delle volte,  era come un’emissione di  suoni che nell’occasione sembrava seguissero  un percorso strano, diverso dal consueto, per la qualcosa, forse a causa  anche dell’inevitabile obnubilamento del telespettatore conseguente al deprimente spettacolo, sembrava di percepire quel loro vociare come assimilabile alle emissioni  di ripetuti borborigmi provenienti dal più profondo delle viscere loro, e non già da una elaborazione intelligente e razionalmente vissuta discendente per le orali vie superiori. Uno spettacolo deprimente. Ed un’amara conclusione: i signorotti del palazzo fanno quadrato. Sempre. E tutti quanti assieme. Non tollerano e disprezzano l’incolto popolo, al quale mi sento di appartenere, popolo incolto di scarpe grosse ma di cervello fine come si soleva dire una volta, tanto d’avere capito benissimo, l’incolto popolo, che lor signori necessitano ed argomentano più che mai di imbrigliare tutti gli altri poteri riconosciuti e concorrenti che possano in qualche forma e modo sostanziale intralciare i loro nefandi intrallazzi. E dallo starnazzare loro non una parola che sia pervenuta a lustrare, anche di poco se fosse stato possibile, l’orribile salvifica per tutti loro decisione; ha trionfato l’alto “ senso cinico “, e così sia. Nelle settimane a venire si proveranno lor signori a rivestire di pannicelli più decenti le loro nefande deliberazioni; rimarrà nel profondo del popolo incolto l’iniziale convincimento di un terribile braccio di ferro tra poteri costituiti e soprattutto l’amaro convincimento che lor signori ambiscono ad essere adusi e considerati esenti da tutti quegli adempimenti e rispetto delle regole e delle leggi alle quali pretendono poi di assoggettare il popolo tutto. Accade giornalmente in tutte le ubertose e ridenti contrade del bel paese, ai semplici incolti cittadini, d’incorrere nelle durissime deliberazioni della giustizia; ma a nessun cittadino del bel paese, se non abitatore del palazzo,  è consentito d’inscenare apparizioni d’avanspettacolo di infimo stampo né tanto meno d’incrociare le braccia e d’invocare la dissoluzione dei reggimenti e degli ordinamenti costituiti. A nocumento della intera collettività, ma a salvezza delle proprie familiari fortune.