Scrive Umberto Galimberti nella
Sua riflessione “Il rischio
dell'incompetenza” del 30 di luglio dell’anno 2011: Tra la competenza tecnica
racchiusa negli strumenti che utilizziamo e l'incompetenza di ciascuno di noi,
c'è un divario, rischioso e imprevedibile. Non so se l'accettazione
incondizionata dei progressi tecnologici sia responsabile del conformismo
diffuso nelle nostre società. Quel che so è che la competenza tecnica racchiusa
negli strumenti tecnologici che abitualmente utilizziamo ha superato di gran
lunga la competenza tecnica di ciascuno di noi. Questa disequazione tra la
cultura oggettivata nei dispositivi tecnici e la cultura soggettiva dei singoli
individui sta per infrangere, se addirittura a nostra insaputa non ha già
infranto, il sogno dell'uomo di dominare con la tecnica il mondo, nell'incubo
di essere dominato dai sui dispositivi tecnici che impiega, ma di cui non ha
competenza. Il suo opportuno riferimento ai "selvaggi" può essere radicalizzato
nel senso che, rispetto ai nostri congegni tecnici, i selvaggi siamo noi. E ciò
è dovuto, come scrive Günther Anders ne L'uomo è antiquato (1956) "alla
nostra incapacità di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione,
dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che
imprimiamo ai nostri prodotti e di raggiungere i nostri congegni che sono
scattati avanti nel futuro e che ci sono sfuggiti di mano". La conseguenza
è che "ormai seguiamo da lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e
proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci
aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali
preistorici". Già cinquant'anni prima di Günther Anders, Georg Simmel in
Filosofia del denaro (1900) annotava che "La macchina è divenuta molto più
spirituale del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all'interno della grande
industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare,
di capire cioè lo spirito investito nella macchina?". E qual è il rischio
che si corre quando la cultura oggettivata negli strumenti tecnici supera la
cultura dei singoli individui? Il rischio, ce lo ricorda Günther Anders,
consiste nel fatto che "la nostra capacità di fare è enormemente superiore
alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare. [...] Per cui la
domanda non è più "cosa possiamo fare noi con la tecnica", ma
"che cosa la tecnica può fare di noi". La lunga citazione per
evidenziare, qualora ce ne fosse il bisogno, la nostra condizione di
“consumatori” incalliti e di “utilizzatori senza cognizione” della tecnica
insita negli strumenti che la stessa mette a nostra disposizione. Intendendo,
al riguardo, non solo della utilizzazione di apparecchi e strumenti vari, ma
anche di tutto ciò che la comunicazione, ancella povera e risorsa perversa della
tecnica, porta alla nostra attenzione e/o consapevolezza. Per dire: quale
impatto hanno, per esempio, le informazioni meteorologiche sulla nostra vita quotidiana? Conosco persone
che hanno ristretto il campo del loro spasmodico bisogno d’informazione sull’evolvere
del “tempo meteorologico” al particolare che più particolare non si può, ovvero
alla ricerca delle condizioni meteorologiche non più del proprio paese o della
propria regione, ma l’evolversi sopra la propria città se non, in un prossimo
futuro, sul proprio quartiere o sul proprio fabbricato. Un’assurdità. Per farne
che cosa? è finito il tempo in
cui si parlava del “tempo meteorologico” alzando semplicemente gli occhi al
cielo. Ci si ritrova così nella condizione magistralmente rappresentata da Günther
Anders e citata dal Nostro, ovvero di esseri viventi che si aggirano tra i “congegni
come sconvolti animali preistorici". A questo punto mi viene di
raccontare una storia. Amo raccogliere le storie di strada, di quelle che si ascoltano
anche in occasione di un incontro imprevisto. Come mi è capitato in quel di
*******. E la storia ha inizio con le osservazioni sul “tempo” meteorologico
del luogo e del momento. Senza proiezioni future, però. Come si soleva fare un
tempo che è stato. La storia dunque. Che affiora dai ricordi della persona casualmente
incontrata. E di un certo “Don Antonio”, al quale la comunità del luogo
riconosceva grande competenza nel prevedere l’evolvere del “tempo meteorologico”,
per via di un suo passato nella marina mercantile. Raggiunta l’età della
pensione il nostro “Don Antonio” soleva trascorrere le sue giornate
concedendosi, quotidianamente, una o più partitelle a carte con l’allora
giovincello narratore della storia e, al pari del nobil uomo immortalato ne’
“L’oro di Napoli” del grande De Sica, non disdegnava imprecazioni o quant’altro
ad ogni sconfitta subita – un’onta gravissima - dal giovanissimo avversario. E
fu così che, forse a seguito di una di quelle partitelle andata a male, alla
consorte che dal balcone gli chiedeva conto dell’evoluzione del “tempo”, il
“Don Antonio” della storia, sporgendo appena la mano col dorso verso l’alto,
distrattamente rispondesse: - Non piove -. E per la sua distratta previsione
due anziane sorelle che, intabarrate nelle loro vesti scure, con passo lento
data l’età loro avanzata, solevano raggiungere il cimitero del luogo per i
doveri verso i congiunti e gli amici scomparsi, si beccarono un tale diluvio
d’acqua che a memoria d’uomo non se ne è raccontato di un altro per copiosità e
violenza. Un ritorno, nella semplice storia di strada che ho riportato, della
possibilità umana dell’errore a fronte di un utilizzo ingenuo se non perverso
della tecnica e della scienza che si piccano d’essere infallibili ma che non
cambiano di molto il nostro faticoso vivere.
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