"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 9 aprile 2012

Lavitadeglialtri. 4 Generazione perduta.


A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
 
L’ho già scritto. Devo “la vita degli altri” a Giampaolo Visetti ed alle Sue corrispondenze da quello che è stato l’impero celeste. Gli devo molto. Pubblica Visetti quelle Sue straordinarie corrispondenze sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica. Offre ogni volta uno spaccato inedito ancorché incredibile di quello immenso laboratorio che è divenuta la Cina. Un’immensa officina. Come un immenso sottoscala ove con difficoltà immani provano ad entrare diritti inalienabili poiché divenuti diritti elementari delle forze lavoratrici. Nel resto del mondo industrializzato. Un immenso laboratorio laddove si sperimenta il nuovo capitalismo che aggredisce quei diritti e quant’altro afferente alle conquiste sociali ed economiche che il movimento internazionale del lavoro sia riuscito a realizzare con lotte asperrime, dolore e lutti sin dagli albori della industrializzazione del mondo. È ben strano, ma poi forse non troppo, che l’attacco abbia preso l’avvio ed avvenga in quel mondo estremo, estremo non solamente dal punto di vista geografico rispetto alla vecchia Europa ma anche per la sua stessa storia, che ha visto la “lunga marcia”, il “grande balzo in avanti”, la “rivoluzione culturale”, ed ora si appresta a proletarizzare al ribasso le sue masse contadine e non solo, ed a fare in pari tempo regredire le masse operaie del mondo occidentale sottraendo ad esse quegli strumenti di conquista che hanno consentito la straordinaria mobilità sociale del secolo ventesimo. È l’abbaglio della Storia. Del quale fu vittima anche l’uomo di Treviri che nelle condizioni disperate delle masse della Russia del tempo intravedeva quel laboratorio politico e sociale che avrebbe spezzato le catene dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Dall’abbaglio si passò inopinatamente alla costruzione di quel “socialismo reale” dei gulag e del fallimento economico più completo. Scrive il caro amico Carlo Scognamiglio in “Quale filosofia per il socialismo del futuro?”, riflessione pubblicata sulla rivista "Mondoperaio" del febbraio 2012 e leggibile nella sua interezza sul link http://carloscogna.blogspot.it/2012/04/quale-filosofia-per-il-socialismo-del.html: “Alcune idee fondanti del socialismo, come l’abolizione o attenuazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalle sue servitù storiche e naturali, tradottasi nell’idea di trasferire su un piano antropologicamente più dignitoso le classi subalterne, stabiliscono un contatto importante con l’etica cristiana. Vi si può riconoscere il profondo valore egalitario, tradotto in una costante attenzione agli ultimi, ma integrato con un elemento evolutivo del tutto estraneo al messaggio evangelico, perché connesso direttamente alla percezione sociale dell’industrializzazione e dei suoi effetti, e una relativa storicizzazione della relazione tra le classi”. Di seguito trascrivo, in parte, una di quelle straordinarie corrispondenze di Giampaolo Visetti, corrispondenza pubblicata il 26 di novembre 2011 e che ha per titolo “Generazione perduta”. Come può, quello che fu l’impero celeste, continuare a considerarsi immerso nel solco del socialismo internazionale? Quale abbaglio ne maschera e ne occulta la tragica sua realtà?

Wen Jiabao è caro ai cinesi. Fino all'anno prossimo farà il primo ministro, ma è il solo leader che la gente sente vicino. (…). Agli studenti di Tianjin ha raccontato di essere cresciuto con l'incubo della rieducazione, a cui sono stati condannati i suoi cari. Erano i primi anni 60. Il "grande balzo in avanti", voluto da Mao per modernizzare i villaggi agricoli, era naufragato sotto milioni di morti. Alla campagna "dei cento fiori", con la quale gli intellettuali erano stati invitati a esprimersi liberamente, stavano per seguire il terrore e la devastazione della rivoluzione culturale. "Eravamo una famiglia di insegnanti - ha raccontato Wen - e siamo stati sempre attaccati". Il padre, dalla scuola di Pechino, fu spedito a fare il guardiano di maiali. La madre, maestra, finì a piantare riso. Il nonno preside fu costretto a scrivere decine di "autocritiche". "È morto di emorragia cerebrale nel 1960 - ha detto Wen - sulle mie spalle, mentre lo portavo in ospedale". Etichettata come "destrista" e accusata di avere "un passato di classe", la famiglia del primo ministro è stata ripetutamente "purgata": languì prigioniera in villaggi remoti, assieme ad altre 600mila. Erano le persone più colte del paese, molti avevano studiato in Europa: i rivoluzionari di Mao li condannarono per "reazionismo e feudalesimo". Tra gli studenti cinesi di oggi, Wen Jiabao si è commosso. "Ho trascorso l'infanzia tra guerre e sacrifici - ha detto - tra disordini e carestie, in assoluta povertà. La sofferenza dei miei genitori ha inciso una ferita non rimarginabile nella mia anima. Per questo mi sento vicino ai poveri e ho dato tutto ciò che mi era possibile per la loro felicità". I giornali di Stato hanno ignorato la straordinaria confidenza del premier. (…). A Shanghai, Zhang Weiming è stata appena condannata a tre anni e mezzo di carcere per "organizzazione di folla a fini di disturbo". La signora Zhang ha 65 anni e ne ha trascorsi quasi 40 nel deserto del Gobi. È una tra i 100mila "adolescenti istruiti" della metropoli inviati da Mao a coltivare angurie nello Xinjiang. Dovevano restare tre anni. Sono tornati a casa da vecchi. I cinesi la chiamano "generazione perduta". Hanno trascorso la vita facendo la fame per la patria e per il comunismo. Di ritorno a Shanghai, hanno trovato una metropoli irriconoscibile, ricchissima, indifferente a loro, costosissima. Non hanno casa, percepiscono un assegno mensile equivalente a cento euro, dormono nelle stazioni ferroviarie. La signora Zhang, prima di essere arrestata, ha lottato otto anni perché la "generazione perduta" ottenga un risarcimento. "Ogni giorno - ha detto al giudice - pensavamo di appendere una corda al soffitto e farla finita. Dormivamo dentro una buca e molti mangiavano topi vivi". Hanno il torto di aver obbedito. Ai margini da giovani, erano troppo vecchi per salire sul treno del successo quando la Cina si è svegliata. Zhang Weiming è stata arrestata perché ha aiutato 500 reduci a cercare alloggio. La polizia è andata a prenderla di primo mattino, mentre il marito di 70 anni era uscito di casa per buttare l'immondizia. Hanno detto che dovevano parlarle. Nessuno l'ha più vista. Il giorno del processo un migliaio di vecchi si sono riuniti davanti a tribunale. Gridavano e piangevano, chiedevano pietà e volevano salutarla. Un cartello prometteva che se la signora Zhang fosse stata liberata, nessuno avrebbe più chiesto giustizia. È gente capace di farcela con un euro al giorno. Gli agenti hanno caricato con manganelli e idranti. Oltre cento i feriti, decine di arresti, gli altri si sono dispersi tra la folla che li disprezza perché "immigrati" di ritorno. (…).

giovedì 5 aprile 2012

Sfogliature. 1 Ceto medio chi?


A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.

Sfogliatura. Recita il vocabolario italiano alla voce “sfogliatura”: - Sfogliatura s.f. Operazione dello sfogliare un albero, un ramo e sim.| Sfogliatura del gelso, per alimentare i bachi da seta | Sfogliatura della vite, per soleggiare i grappoli -. Di tutte queste antiche, straordinarie, dolcissime pratiche non ho perizia alcuna. Ma il lemma mi affascina. Mi rimanda profumi e sapori di un tempo. Il frinire nella campagna assolata. I covoni raccolti sull’aia a formare immaginifiche figure all’imbrunire. Suoni e rumori di civiltà antiche. Saggezza senza tempo. Ché tutto sembra come scomparso dagli orizzonti di noi umani inciviliti, progrediti. Nuovi barbari. Nel caso specifico mi piacerebbe utilizzare l’atto della bucolica “sfogliatura” assimilandolo ad un atto che mi è più consono, ovvero all’atto dello sfogliare. Fogli. Solamente fogli. Sfogliare fogli di carta. Sfogliare un libro; sfogliare un giornale; sfogliare una rivista.“Sfogliatura”, come sostantivizzazione dell’atto dello sfogliare. Di un fare a me più prossimo. Conosciuto da sempre. La “sfogliatura” di un qualcosa che mi è appartenuto. Oggigiorno, la “sfogliatura” di quel che è rimasto di questo b-log quando esso “viveva” su di un’altra piattaforma della rete immensa. Come sfogliarne le tantissime “foglie/pagine” che ne sono sopravvissute. Immaginarle non accartocciate, semmai sempre verdi, non come avviene in quelle pratiche che non  mi sono usuali. Oggigiorno ancora leggibili e perché no attuali. “Sfogliatura” da quell’albero che non è più e che alla fine del suo “vivere” in rete contava duemilaseicentoventicinque – 2625 (!) - pagine elettroniche. Con dentro di tutto. Il primo risultato dello “sfogliatura” mi riconsegna un post del martedì 14 di novembre dell’anno 2006. è appartenuto alla categoria “Mediaculturapotere”. Titolo mio di quel post: “Ceto medio chi?”. Tratto da “Il ceto medio è di moda, peccato che non esista più” di Giampaolo Fabris, che è stato professore di sociologia dei consumi nelle università di Torino, Venezia, Trento, Milano e prematuramente scomparso (2010), pubblicato a quel tempo sul settimanale “ Affari & Finanza “. Assaporarne l’attualità. Tasse ed evasione; equità e privilegi; manovre finanziarie e sacrifici “lacrime e sangue” e quant’altro oggigiorno ci tormenta. Come da sempre la Storia insegna.

C’è un termine che, da qualche tempo, presidia con molta evidenza la titolazione dei giornali: ceto medio. Che adesso sarebbe furioso, e sul piede di guerra, perché tartassato dall’attuale Finanziaria. Anche se, in realtà, a condividere questo stato d’animo è quella parte della popolazione che paga sino in fondo le tasse, non ha contenziosi col fisco e le vede adesso ulteriormente aumentare. Il, peraltro condivisibile, progetto governativo di maggiore equità sociale deve essere realizzato utilizzando i proventi dell’enorme ammontare dell’evasione e non penalizzando ulteriormente – davvero al di là della sopportabilità sociale – importanti settori che hanno sempre compiuto il loro dovere di cittadini. A parte queste considerazioni colpisce la miopia e il gravissimo ritardo culturale nella lettura della società italiana, della sua struttura e della sua dinamica che il riferimento ai ceti medi comporta. Un riferimento che, nella sua vaghezza e nell’essere storicamente e culturalmente datato, ha perso qualsiasi significato. Pensare che il dibattito sociopolitico abbia come centro d’attenzione un soggetto che non esiste, che si continui a leggere e ad interpretare il nostro Paese con categorie desuete ed anacronistiche è motivo di non poca preoccupazione. Errori nell’individuazione della composizione della società italiana non possono che degradare la Finanziaria che pure dovrebbe costituire il principale strumento della politica economica a calcolo ragionieristico di riequilibrio dei conti. Non ho mai sentito, da parte di chi fa ricerca sui consumi, dal mondo del marketing e della pubblicità fare ricorso alla categoria ceto medio. Eppure sono proprio questi operatori a dover restare costantemente in sintonia con la struttura e l’evoluzione dei mercati che costituiscono un importante epifenomeno del sociale con il nuovo che emerge. Sono questi, pena l’espulsione dal sistema, obbligati ad essere in grado di interpretare e di intercettare i bisogni, il sentiment, il sistema di attese delle diverse tipologie di cittadini e di consumatori. La conferma della sintonia con i mercati il riflesso sulle market shares avviene in tempo reale è di quasi immediata evidenza. Non è necessario attendere anni per il responso elettorale o basarsi sui dubbi dati dei sondaggi di opinione. Parlare di ceti medi significa evocare periodi storici in cui la composizione di classe veniva letta in termini di capitalisti/proletariato, borghesia/classe operaia se non di sfruttatori e sfruttati. I ceti medi a cui non veniva già allora riconosciuto il ruolo di classe, di soggetto collettivo si collocavano come cuscinetto interstiziale all’interno di queste dicotomie sociali. Per la sociologia anglosassone costituivano la middle class, sostanzialmente i white collars, vale a dire gli impiegati, contrapposti ai blue collars, gli operai. Negli ultimi decenni la composizione/stratificazione sociale è così mutata da registrare la scomparsa di quelli che forse, un tempo, erano davvero soggetti collettivi. I ceti medi non esistono: non è questa una questione nominalistica, il che sarebbe poco rilevante, ma sostantiva. In una società iperframmentata, come è oggi il nostro Paese, parlare di ceti medi un aggregato informe, eterogeneo, dissimile nei comportamenti, atteggiamenti, valori, tenore di vita non ha alcun senso. Così come tutti i riferimenti di cui il nostro Istituto Centrale di Statistica è indiscusso campione che si richiamano al concetto di media statistica. Non è ipersemplificando e banalizzando che si affrontano i problemi di una società complessa. Media è la negazione della complessità. Non si realizzano conquiste con le armi dei conflitti precedenti. Per interpretare correttamente il sociale si deve necessariamente far ricorso in una società in cui, per una larga parte, è sempre meno scontata la relazione tra reddito e tipo di lavoro e in cui non è più la professione a determinare l’identità sociale a tipologie di segmentazione che coniughino il livello di reddito con la composizione familiare, lo stile di vita, gli stili di consumo. Queste esistono e sono quelle a cui fa ricorso il mondo delle imprese per studiare i mercati. Solo allora si potranno decrittare le esigenze, i bisogni, i sistemi di aspettative, mettere a punto una corretta imposizione fiscale. Vi è il sospetto che ceti medi sia un termine volutamente elusivo per non esplicitare che è soltanto l’ammontare del reddito a cui fanno riferimento le scelte di politica economica e che siano "i ricchi" ("anche i ricchi piangono") quelli da snidare. E chi si colloca al di sopra di 2582 euro netti al mese (Guido Gentili Il Sole 24 Ore) è da considerarsi benestante e quindi deve pagare più tasse. Realizzando così un eccezionale exploit : il danno e la beffa.

martedì 3 aprile 2012

Cosecosì. 11 Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti.


A fianco. Aldo Ettore Quagliozzi. Uno studio fotografico. "Isole".
 
Dominano le vie della città intera dall’alto e dalla vastità degli enormi manifesti pubblicitari. Dominano le strade di C*** nel quale luogo, al maggio prossimo, si celebreranno le ritualità democratiche del voto. Dominano inconsapevoli forse del disincanto e della rabbia che contribuiscono a diffondere tra la gente stordita da vite personali e familiari al limite della sopportazione. La cronaca si fa carico di allungare l’elenco macabro di chi non ce la fa più. E che prova a scendere dagli affanni patiti. Ce ne è uno che sfrontatamente promette “impegno, trasparenza, concretezza”. Verrebbe da chiedergli: “impegno” per fare che cosa? Forse e soltanto, verrebbe malignamente da pensare, gli affari propri e della propria congrega politica? Gli esempi in tal senso non mancano e non mancheranno mai. Le cronache, come sempre, stanno a darci notizie sempre più sconfortanti. Passa poi, quel tale, a promettere “trasparenza”. Su che cosa? Non sa il pivello che della sua “trasparenza”, concessaci dall’alto e nella vastità di quel manifesto, a noialtri non importa che sia un bel fico secco? E perché poi farci promessa di “trasparenza” quando essa, la “trasparenza” intendo dire, dovrebbe essere quel qualcosa, quel quid, necessario ed irrinunciabile per poter accedere alle competizioni elettorali e per assurgere alle alte responsabilità della conduzione della cosa pubblica? Chi ha valutato il suo grado di “trasparenza”? Gli iscritti al suo partito? Perché, signori, esiste ancora una vita interna dei partiti? Cosa ha esibito a fronte di questa dichiarata, promessa sua “trasparenza”? Di detta invereconda promessa non ho trovato traccia negli altri manifesti elettorali sinora affissi: ché quelle facce sorridenti non vogliano proprio impegnarsi nella “trasparenza” promessa dal pivello concorrente? Ha raggiunto comunque un prestigioso encomiabile risultato: essere l’unico a promettere “trasparenza”. Per non dire poi anche della “concretezza”. Un inatteso spirito di carità mi porta a sorvolare su quell’offerta di una supposta “concretezza” che lascia sgomenti per quanto prima pensato e detto a proposito dell’”impegno” e della “trasparenza” offerti alla gente. Per non dire poi di un altro che ha fatto scrivere sui suoi giganteschi manifesti “Se hai le mani libere…”. O signore, o dio dall’alto dei cieli: c’è da avere paura, poiché si parla in quella gigantografia proprio di “mani libere”, mica di “mani pulite”, che forse avrebbe avuto un appeal maggiore in una parte almeno dell’elettorato. Poiché quell’ammiccare alla libertà delle mani non promette nulla di buono. Un pensiero cattivo non mi abbandona: avere le “mani libere” per fare che cosa? Sono esagerazioni? Sono esasperazioni? Ché forse non c’è da essere esasperati sempre di più? Lo era anche il grande Italo Calvino in quel 15 di marzo dell’anno 1980 quando sul quotidiano la Repubblica pubblicava il Suo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Quanti lustri sono trascorsi da allora? Cosa è cambiato di così sostanziale? Lo trascrivo di seguito in parte. Grazie Italo.

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (…) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua autonomia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transazione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che, per la morale interna del gruppo era lecito, portava con sé  una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene, il privato che si trovava ad intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva, senza ipocrisia, convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. (…). La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di forza (…), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché  il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché  di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere. Così che era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle guerre tra interessi illeciti oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e di interessi illeciti come tutti gli altri. (…). Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli abitanti di quel paese se non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano, costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né  patriottici, né  sociali, né  religiosi, che non avevano più corso); erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione di altra persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che riscuotono troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in mala fede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé  (o almeno quel potere che interessava agli altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che, così come in margine a tutte le società durate millenni s’era perpetuata una contro società di malandrini, tagliaborse, ladruncoli e gabbamondo, una contro società  che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare “la” società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante ed affermare il proprio modo di esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera, allegra e vitale, così la contro società degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa di essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.