Da “L’età
delle follie” di Richard Friedman, sul quotidiano la Repubblica del 4 di
luglio dell’anno 2014: Adolescenza,
nella nostra cultura, è sinonimo di drammi emotivi, comportamenti sregolati e
ricerca volontaria del rischio. Generalmente si dà per scontato che l'angoscia
adolescenziale abbia radici psicologiche. Ma c'è un lato più oscuro che finora
è stato scarsamente esplorato, un'impennata dell'ansia e della paura negli anni
dell'adolescenza. Infatti, soprattutto per effetto di una stramberia nello
sviluppo cerebrale, gli adolescenti provano più ansia e paura e fanno più
fatica a imparare a non avere paura, rispetto ai bambini o agli adulti. Si è
scoperto che il circuito cerebrale che elabora la paura - l'amigdala - è
precoce e si sviluppa molto prima della corteccia prefrontale, la sede del
ragionamento e del controllo esecutivo. Gli adolescenti hanno un cervello con
maggiore "capacità" di provare paura e angoscia. Ci si potrebbe
domandare perché, allora, siano molto sensibili alle novità e disposti a
correre dei rischi. La risposta, almeno in parte, è che il centro di
"ricompensa" del cervello, proprio come il circuito della paura,
matura prima della corteccia prefrontale. È il centro della ricompensa che
stimola gran parte dei comportamenti a rischio dei teenager. Questo paradosso
comportamentale contribuisce a spiegare anche perché gli adolescenti siano
particolarmente inclini a traumi e infortuni. Le prime tre cause di morte per
gli adolescenti sono gli incidenti, gli omicidi e i suicidi. (…). Uno studio
con risonanze magnetiche cerebrali condotto dai ricercatori del Weill Cornell
Medical College e dell'Università di Stanford ha scoperto che quando vengono
mostrate agli adolescenti immagini di persone con espressioni spaventate, la
reazione dell'amigdala è molto più accentuata che nei bambini e negli adulti.
L'amigdala gioca un ruolo fondamentale nella valutazione e nella reazione alla
paura: manda e riceve connessioni alla nostra corteccia prefrontale,
allertandoci del pericolo ancora prima di avere il tempo di pensarci davvero.
L'apprendimento della paura gioca un ruolo centrale nell'ansia e nei disturbi
correlati. Questa forma primitiva di apprendimento ci consente di formare
associazioni tra eventi e indizi e contesti specifici che possono rappresentare
un indicatore di pericolo. Ma quando gli indizi o le situazioni pericolose
diventano sicure, dobbiamo avere la capacità di riesaminarle eliminando
l'associazione che avevamo precedentemente stabilito con la paura. Per le
persone affette da disturbi legati all'ansia, fare questa cosa (cioè eliminare
quell'associazione) rappresenta un problema e provano una paura persistente
anche in assenza di pericoli: è appunto il fenomeno noto come
"ansia". B. J. Casey, professore di psicologia e direttore del
Sackler Institute presso il Weill Cornell Medical College, ha studiato
l'apprendimento della paura in un gruppo di bambini, adolescenti e adulti,
mostrando loro un riquadro colorato e nello stesso tempo esponendoli a un
rumore fastidioso. Il riquadro colorato suscitava una reazione di paura simile
a quella suscitata dal suono. Non c'erano differenze tra i soggetti
dell'esperimento nell'acquisizione del condizionamento alla paura. Ma quando ha
addestrato i soggetti a disapprendere l'associazione tra il riquadro colorato e
il rumore, il dottor Casey ha scoperto che gli adolescenti incontravano molte
più difficoltà. Se si considera che l'adolescenza è un periodo di esplorazione,
in cui i giovani sviluppano un'autonomia più ampia, il fatto di avere maggiore
capacità di provare paura e una memoria più persistente per situazioni pericolose
conferisce un vantaggio in termini di sopravvivenza. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
lunedì 4 luglio 2016
domenica 3 luglio 2016
Paginatre. 43 “I leader di paglia dell’Unione”.
Da “I leader
di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni” di Barbara Spinelli, su “il
Fatto Quotidiano” del 29 di giugno 2016: Nel Parlamento europeo di cui sono membro,
quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit, è la
diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e
anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà
elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando
di un Paese ancora membro dell’ Unione). Una rimozione collettiva che si rivela
quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi
molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali. 1. Quel che
manca è l’ ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del
fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali:
tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare
dall’ inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono
politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni
disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del
passato – né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di
Eliot: “Uomini impagliati che s’ appoggiano l’ un all’ altro, la testa riempita
di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il
suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se
costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’
università, dicessero che le cause dell’ avvento del nazismo sono addebitabili
solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar.
Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni
magistrali.
venerdì 1 luglio 2016
Scriptamanent. 21 “Brexit oggi: quando l’errore è nella diagnosi”.
Quando l’esito della “Brexit” era ampiamente
annunciato negli “scriptamanent” del 1° di luglio dell’anno 2015. Da “La Grecia e il debito populismo vero
contro populismo presunto” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano”:
Ora,
diciamolo, comunque la si pensi sulla crisi greca, il referendum, i livori
della signora Merkel, i debiti, Alexis Tsipras e tutto il cucuzzaro, una cosa è
innegabile: si usano le parole un po’ a vanvera, con il consolidato e
tradizionale metodo “a cazzo”. La più gettonata al momento è la parola
“populismo”. Una brutta bestia, si sa, a patto di mettersi d’accordo su cosa
vuol dire. Già sul termine si registravano sbandamenti e scarsa tenuta di
strada, ma ora che i grandi commentatori dei grandi giornali ci spiegano che
indire un referendum per chiedere ai greci una conferma o una bocciatura alla
linea del loro governo è “populismo”, il testacoda è completo. La pretesa
secondo cui dare la parola agli elettori sia una specie di barbatrucco
antidemocratico suona in effetti assai bizzarra, specie in una comunità,
l’Europa, che parla di democrazia ogni minuto, vantandosi di esserne uno dei
santuari. Un continente dove la pregiudiziale antifascista è andata un po’
gambe all’aria (vedi l’Ungheria, vedi i movimenti filonazi), ma dove cresce la
pregiudiziale antipopulista, con la parola usata quasi sempre per indicare chi
non si attiene al pensiero unico, il cui guardiano sarebbe una specie di banca.
Va bene, ci sono i pro e ci sono i contro. Da qui al referendum chiunque, ma
proprio chiunque, spiegherà al popolo greco che votando “no” si metterà ancor
più nei guai, che si rischia il disastro, eccetera eccetera. Per cui, tirate le
somme, sarebbe “populismo” chiedere a un popolo di esprimersi nelle urne, ma
non lo è interferire in quello che quel popolo scriverà sulla scheda. Il capo
dei banchieri, il presidente della Commissione Europea, i vari leader del
continente che indicano ai greci come votare, pregandoli di votare “sì” e
sottoponendoli a ogni tipo di pressioni sarebbero invece sinceri democratici
antipopulisti. Mah. Si aggiungano al pasticcio un paio di dettagli. Uno, per
così dire, tutto politico e un altro più legato alla comunicazione della paura.
La questione politica è abbastanza semplice: al governo greco guidato da
Tsipras non si fanno gli sconti clamorosi e spaventosi che si fecero volentieri
a chi, in Grecia, fece quei debiti. In sostanza, chi indebitò la Grecia fino
alle orecchie andava quasi bene e non era populista, chi invece arrivò dopo
(eletto, si badi bene, non scrivendo su twitter “Samaras stai sereno”),
ereditando una situazione disastrosa e cercando di trattare una
ristrutturazione del debito, è populista e va punito. Si noti en passant che la
rata del debito greco che oggi Tsipras non riesce a pagare è di 1,6 miliardi,
mentre le Borse ne hanno bruciati in un solo giorno 287: è come se per tentare
di recuperare una cinquecento incidentata si desse fuoco a una decina di
Ferrari, lo chiamano capitalismo, una cosa ben poco populista ma abbastanza scema
anche lei. L’altra questione riguarda una specie di nazionalismo dei soldi,
quel meccanismo tragicomico per cui si vede gente normale, che lavora, paga il
mutuo, che arriva sì e no alla fine del mese, gridare indignata che “i greci ci
devono dei soldi e non ce li danno”. È la stessa gente che dava una quindicina
di miliardi al fondo salva-banche senza battere ciglio, la qual cosa è
abbastanza strabiliante ma comprensibile e molto furba: soldi per le banche ne
abbiamo, soldi per un popolo in ginocchio no. Atteggiamento incoraggiato e
caldeggiato, spinto da giornali, commenti, reportage, pensosi corsivi. Insomma,
un populismo vero usato per picchiare un populismo presunto.
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