"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 6 ottobre 2015

Oltrelenews. 64 “Politica&talk-show”.


Da “Il wrestling del talk show” di Curzio Maltese, sul quotidiano la Repubblica del 13 di settembre dell’anno 2013: Poche cose come i talk show hanno contribuito in questi anni ad arricchire gli impresari televisivi e a far crollare a zero la stima nei politici. In qualche caso, com'è noto, si tratta delle stesse persone. Da anni non riesco, come molti italiani, a vedere per intero uno di questi incontri di lotta greco-romana verbale, chiaramente studiati per non far capire nulla. (…). In genere si tratta di una lunga rissa a colpi di «vaffa» e insulti assortiti, spesso a sfondo sessuale, scambiati fra parlamentari e ministri, per quanto compagni di governo, o firme del giornalismo, sotto lo sguardo felice del conduttore di turno. Per quanto improbabile, è possibile che nelle tre ore di trasmissione gli illustri ospiti in studio abbiano detto anche cose intelligenti. (…). Perché si va avanti con questo livello infame di dibattito pubblico, sconosciuto nel resto del mondo civile e democratico? Perché comunque in Italia lo spettacolo piace. Non più come prima, ma abbastanza per giustificarne la replica infinita. Per quanto se ne riesce a capire, pochissimo, la faccenda funziona come un fenomeno tv di qualche tempo fa, il wrestling. Compagnie itineranti organizzano incontri di lotta truccati, in apparenza truci e sanguinari, dove alla fine però nessuno si fa male davvero e tutti sono d'accordo. I nemici che si sono scannati fino a dover ricorrere all'autoambulanza, si ritrovano la sera dopo in un'altra piazza, un altro ring, a ripetere il combattimento mortale. Ecco, la telepolitica all' italiana è la risposta del nostro paese al wrestling americano. Senza offesa, s'intende. Soprattutto per gli appassionati di wrestling, dove negli ultimi anni si sono applicati severissimi controlli anti doping per debellare il fenomeno degli atleti drogati. Una misura che nei nostri talk show, visibilmente, non è applicata. (…). Oggi sul ring tele politico vanno di moda altri campioni, sempre con soprannomi e atteggiamenti da guerrieri molto kitsch. Per esempio, Daniela Santanchè, detta la Pitonessa. È capace di insultare l'avversario per mezz'ora di fila, senza prendere fiato. Il bello è che la vittima torna a sfidarla la sera successiva, tanto è un gioco. Anche nel caso del wrestling politico, la platea si divide a metà. Da una parte, i tifosi ingenui, i Mark, che prendono per vero tutto ciò che accade, le botte, gli insulti e il resto. Dall'altra vi sono gli spettatori più avveduti, gli Smart, consapevoli dell'inganno, ma divertiti dalla pagliacciata. Esiste poi una piccola minoranza che considera lo spettacolo semplicemente indecente. Ma la dignità non è più un valore e in ogni caso non ha mai fatto audience.

lunedì 5 ottobre 2015

Uominiedio. 19 “Alla ricerca di un dio che sia”.



Ha scritto il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 10 di gennaio 2015 “Di cosa parliamo quando parliamo di Dio”, che di seguito propongo. Un tema arduo, un’impresa improba. Non certo per l’illustre Autore avvezzo a sì scottanti argomenti dell’esistenza umana. Io la prendo alla larga. E racconto una storiella sentita – come altre - da G. B. È bene immaginarne lo scenario. La collocazione più rispondente sarebbe di un giardino pubblico all’interno del quale si aggirano i protagonisti della storiella. Li indicherò, per obiettiva convenienza ed opportunità, come l’“uomouno” e l’“uomodue”. “Uomouno” si è appena sollevato dalla panchina sulla quale ha provato, stravaccato, a dare uno sguardo fuggevole al suo quotidiano sportivo consueto. Sollevatosi stancamente dalla panchina si avvia con passo tardo per gli stretti sentieri del giardino pubblico. Nell’incedere suo, quasi indolente, scorge in lontananza “uomodue”, amico carissimo da tanto tempo non più incontrato. Lo attira il gesticolare di “uomodue” che, avanzando per lo stesso stretto sentiero, agita forsennatamente in alto ambedue gli arti superiori. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad una più ravvicinata distanza, “uomouno” s’avvede come “uomodue” descriva per l’aere circostante archi divergenti di circonferenze con ambedue gli arti superiori puntando entrambi gli indici in alto come ad indicare un qualcosa, un cielo, solamente a lui resisi visibili. “Uomouno” è preso da un ragionevole sbigottimento. Quell’agitarsi di braccia per l’aere  mette “uomouno” in una inevitabile, vivissima agitazione. Vie d’uscite da quella imbarazzante situazione non si intravedono. Come suol dirsi, “il dado è tratto”. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad un tiro di voce il primo non trova di meglio che esordire con un - Come va? -. “Uomodue”: -Va! -, con l’incessante agitarsi degli arti inferiori e gli immancabili indici puntati verso il cielo terso. - Va come – riesce a proferire “uomouno”. E fu a questo punto che da “uomodue” proruppe un inarrestabile  profluvio di parole e parole sulle sue personali e familiari disavventure. Un’atrocità. Da lasciare “uomouno”, come suol dirsi, senza parole. Accennò solamente “uomouno”: - E con la salute? -. “Uomodue”: - Va! -. “Uomouno”: - Mi pareva che…Mi pare che tu sia un tantino inquieto -. “Uomodue”: - Ti sembro agitato? -. “Uomouno”: - Non saprei… -. L’imbarazzo di “uomouno” era divenuto traboccante. “Uomodue”: - Per via che agito per l’aere le braccia? -. “Uomouno”, con immenso imbarazzo: - Non saprei… -. “Uomodue”: - È che cerco dio -. – Bene – fa “uomouno” rinfrancato. – È una buona cosa cercare dio. Ma perché lo fai con quel tuo agitare le braccia? -. Ed “uomodue”: - È vero o non è vero che dio sta in ogni luogo, in cielo in terra? Ecco, se questo è vero un giorno mi riuscirà sicuramente di infilargli un dito in quell’occhio che tutto vede e che non ha visto le mie sventure, per accecarlo -. Fine della storiella. Ecco, “uomodue” aveva un ben distinta idea e raffigurazione di quel dio dal quale si sentiva ingiustamente abbandonato e lasciato solo al suo misero destino. Un “occhio” solo a rappresentare uno dei misteri più insondabili ed indecifrabili dell’essenza umana. Per l’ostico argomento “alla ricerca di un dio” ne ha scritto per l’appunto, forte della Sua scienza, il professor Galimberti:

venerdì 2 ottobre 2015

Oltrelenews. 63 “Migranti economici”.



Da “Comodo dire migranti economici” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 19 di settembre 2015: (…). …nell'impostazione proposta e imposta dalla Merkel nei confronti dei migranti c'è un tarlo. I cosiddetti 'migranti economici' devono essere rispediti nei loro Paesi. Chi sono i cosiddetti 'migranti economici'? Sono neri dell'Africa subsahariana che non fuggono da nessuna guerra ma dalla fame. Nella generale ignoranza che ormai contraddistingue il mondo occidentale si pensa che l'Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Ai primi del Novecento era alimentarmente autosufficiente, lo era ancora in buona sostanza (al 98%) nel 1961. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978 e così via precipitando. La situazione di oggi è sotto gli occhi di tutti. Cos'è successo nel frattempo? Che i Paesi industrializzati, sempre alla ricerca di nuovi mercati, per quanto poveri, perché i propri sono saturi, hanno introdotto in Africa Nera il loro modello di sviluppo, disarticolando la cultura, la socialità e l'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni. E quindi la fame. E' uno dei tanti effetti perversi della globalizzazione. E qui si pongono due questioni. Una è teorica. Se il capitale ha diritto ad andarsi a cercare il luogo della terra dove ritiene di poter essere meglio remunerato, lo stesso diritto non dovrebbero averlo gli uomini? Il denaro vale quindi più degli uomini? Questo nemmeno il vecchio Adolfo avrebbe osato sostenerlo. Questione pratica. I neri africani (escludendo il Sud Africa che fa caso a sè) sono 700 milioni. Se solo una quota significativa di questa gente viene da noi ne saremo sommersi. Aiutarli economicamente? Sarebbe 'un tacon peso del buso' perché li integrerebbe ancor più strettamente in un sistema che è destinato inesorabilmente a stritolarli. Dar loro «non il pesce ma gli strumenti per pescarlo» come dicono molte anime pie? Nel padiglione Onu all'Expo c'è un comico filmato il cui senso è che noi dovremmo insegnare agli africani come si fa l'agricoltura. Ma se sono millenni che quelli hanno vissuto di agricoltura! Semmai dovrebbero essere loro a insegnarla a noi. Ai tempi di un G7 di molti anni fa ci fu un controsummit dei sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, al grido di «Per favore non aiutateci più!». La sola cosa che dovremmo fare è andarcene da quei mondi, con le nostre aziende assassine e la nostra cultura paranoica. Via, raus, 'foera di ball'. Ma a parte che non lo faremo mai (e adesso ci si sono messi anche i cinesi che si comprano l'Africa Nera e la sua terra a regioni) nemmeno questo sarebbe risolutivo. I neri africani sono in una posizione di non ritorno. Non possono ritornare alle loro economie perché le terre che, sotto il nostro impulso o imposizione, hanno abbandonato si sono desertificate e non ci sono più nemmeno le comunità che, col loro reticolo di solidarietà, consentivano a quel mondo di esistere. Non possono che andare avanti. Cioè non possono che venire verso di noi. E verranno e ci distruggeranno come noi abbiamo fatto con loro. È la sorte che ci siamo meritati.