Vola bassa la politica nel bel
paese. La sua inanità ha qualcosa di speciale, di unico, della quale è
difficile assai definirne i contorni. Nella inanità della politica del bel
paese ci sono tutta l’inconsistenza e l’inutilità che si possano concepire.
Basterebbe dare uno sguardo al calendario politico del bel paese. Continua la
manfrina della “decadenza”. Bon, che come ben s’intende, il
francesismo ha il significato di “bello”. Un bello spettacolo, tanto
per intenderci. E poi ci sono le “primarie”. Bon, che, per rimanere al
francesismo in uso, non è proprio un bel vedere. E quando è toccata dai
problemi forti ed alti, la politica del bel paese annaspa. Farfuglia. Emana borborigmi
- dal greco βορβορυγμός – tipici delle cavità gastriche in difficoltà. Il
confronto tra le parti avviene sempre ai più bassi dei livelli. E se c’è da
alzare lo sguardo, per esempio all’Europa, è tutto un proliferare di
insensatezze e di banali parole d’ordine che non riescono a costruire una
opinione politica e pubblica condivisa. Ha scritto sul quotidiano La Repubblica
del 6 di novembre Barbara Spinelli, una delle mie Muse – “Europa, l’ufficio delle lettere smarrite” -: Populismo è un’ingiuriosa parola
acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è
sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in
uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come spauracchio (…). Serve a confondere l’effetto
(la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa).
Letta fa la stessa confusione, (…). La questione di fondo è (…) un’altra. La
questione di fondo è che il mondo va avanti secondo un percorso che solamente
le grandi dimensioni, le grandi aggregazioni – politiche ed economiche -,
potranno influenzarne la direzione. Questa lapalissiana verità non entra mai a
far parte dei voli raso-terra della politica del bel paese. Scrive ancora
Barbara Spinelli: Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così
infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie
del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è
inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse
come grumo compatto che intasa chissà quale progresso. Bollare un intrico di
sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni
cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi
attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e
conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati
dell’Unione. E nel maggio del prossimo anno anche l’Italia sarà
chiamata a parlare d’Europa, con un voto. Come se ne parlerà? Se ne sta di già
parlando? Dichiara Martin Shulz – quello indicato al ruolo di Kapò da quel
buontempone del signor B. e che è attualmente presidente del Parlamento Europeo
e candidato dei socialisti d’Europa alla guida della Commissione dell’Unione
Europea -: Non riduciamo il dibattito a una battaglia tra pro e anti europeisti.
Offriamo la scelta tra un’Europa di centrodestra e un’Europa di centrosinistra.
È questo il parlare giusto, con una fuoriuscita dal mucchio secondo
idealità e visioni contrastanti se non opposte. Sta avvenendo tutto ciò in
Italia? Siamo precipitati ai livelli più bassi della prassi politica: poiché ci
sentiamo fuori dalle ideologie? Continua Barbara Spinelli: L’Europa così com’è non è
minacciata dalla rabbia (…) dei propri cittadini. È minacciata da governi
restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che
sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta
smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e
disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha
potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. (…). Le
menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle
dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente». È un’alleanza che
non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni
’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza
rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono
esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli
astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale
ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece
un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il
dopoguerra e la fine degli anni ’70. (…). Se nulla si muove l’Europa sarà non
più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di
consanguinei – che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che
dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita
dai fatti (…). Poiché, nella ristrutturazione delle economie planetarie
le dimensioni avranno il loro peso politico ancorché economico. Il movimento
tellurico che si intuisce ma non si vede ancora delle economie nei prossimi
anni trova attenzioni e significative risposte laddove tutto ciò ha un valore
ed un significato. Ma non nel bel paese. Riporta in una corrispondenza Federico
Rampini – “Obama accusa la Cancelliera e
la difesa è il mini-dollaro” – sul settimanale Affari&Finanza del 4 di
novembre -: La Germania trascina a picco l'intera eurozona. Non solo soffoca la
ripresa altrui imponendo politiche di austerity che accentuano la crisi, ma si
sottrae alle proprie responsabilità puntando su un modello di crescita trainato
dall'export, incompatibile con le necessità dei suoi vicini. (…). Gli
argomenti, sono quelli che Barack Obama ha usato fin dall'epoca del G-20 di
Pittsburgh, nell'autunno del 2009. Si tratta di una "dottrina Obama"
che peraltro è ampiamente condivisa da tutti gli economisti keynesiani. In
sostanza, se il mondo soffre di squilibri tra nazioni che consumano troppo
(America) e nazioni che risparmiano troppo (Germania, Cina, Giappone),
l'aggiustamento va fatto da ambo le parti. Alcuni devono aumentare la propria
propensione al risparmio. Altri devono consumare di più, e così facendo
finiranno per importare di più. Non si può immaginare che l'aggiustamento
avvenga da un lato solo, per il semplice motivo che gli squilibri sono
simmetrici e interconnessi. Se tutti gli Stati volessero avere un eccesso di
risparmio e una bilancia commerciale in attivo (…), la Terra dovrebbe riuscire
ad avere un saldo in surplus con qualche altro pianeta. Il fatto che la
Germania dia lezioni di buona gestione agli altri, ma si rifiuti di aumentare i
consumi e l'import, non è soltanto un controsenso economico. È anche una
strategia distruttiva verso gli anelli deboli dell'eurozona. (…). …quell'accusa
del Tesoro americano è legittima, è giusta, è sacrosanta. Farebbero bene a
impadronirsene Enrico Letta e François Hollande. In effetti quel documento del
Tesoro americano risponde a un'esigenza ben più pressante per l'Italia e la
Francia, che non per gli Stati Uniti. La politica avrebbe bisogno
d’alzare lo sguardo. Le è forse impossibile, presa com’è da quel solipsismo che
nelle sue forme più deteriori diviene un individualismo esasperato di singole
persone o di intere caste. Come per la politica del bel paese, per l’appunto. È
su questi scenari e su questi temi forti che la politica dovrebbe provare a
misurarsi. Il resto è un blablabla inutile e fastidioso. Poiché anche
dall’altra parte del mondo si osserva il divenire degli scenari prossimi
venturi. Scrive Giampaolo Visetti sullo stesso numero del settimanale Affari&Finanza
– “Pechino al bivio duello al plenum tra
stato e mercato” -: Negli ultimi 15 anni, l’economia cinese non
è mai cresciuta tanto lentamente. Viaggia tra il più 7,5 e il più 7,8%,
rispetto alle due cifre di quattro anni fa. La crescita è quasi dimezzata e gli
analisti prevedono la stagnazione attorno al 2020. Senza il traino di Pechino,
la Cina e il resto del mondo si troverebbero ad affrontare problemi inediti,
per il capitalismo hitech. La necessità di allontanare tale spettro è la
ragione che assegna una missione storica al prossimo Comitato centrale del
partito comunista, dal 9 al 12 novembre. (…). I 200 membri del plenum sono
davanti ad un bivio: spingere la Cina sempre più verso l’economia privata, per
allontanarla dalla dipendenza dalle esportazioni, oppure riportarla verso il
monopolio di Stato, per affrancarla dai consumi interni. La prima via, quella
riformista, è promossa dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang,
spaventati dalla prospettiva di una stagnazione che possa minare la stabilità
del Paese. La seconda è sostenuta da ampi settori della sinistra del partito,
che teorizza il neo-maoismo come risposta alla crisi del capitalismo
finanziario dell’Occidente. Dietro ai nuovi leader si schierano le piccole e
medie imprese private, stanche di apparati burocratici corrotti che favoriscono
la posizione dominante dei colossi pubblici. I nostalgici di un sistema maoista
sono appoggiati invece dalle famiglie che dominano le grandi imprese, le
banche, le assicurazioni e le materie prime, formalmente di Stato, ma nella
sostanza casseforti dei pochi clan che hanno governato la nazione negli ultimi
quarant’anni. (…). La seconda potenza mondiale è chiamata a scegliere anche il
suo profilo produttivo. E noi a fare i vasi di terracotta. E la
politica dove sta? Che fa?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
domenica 10 novembre 2013
martedì 5 novembre 2013
Cosecosì. 62 L’oscuro del lato umanitario.
Permettetemi d’essere convinto –
ma molto convinto - che poche siano nella vita le occasioni nel corso delle quali
il lato oscuro delle cose o degli accadimenti degli umani venga disvelato nella
pienezza sua. E sì che ho già vissuto abbastanza per non dovermene di continuo
meravigliare. Poiché le cose e gli accadimenti tutti hanno un lato per così
dire in chiaro, visibilissimo ed intellegibile, ma al contempo nascondono un
altro lato difficilmente osservabile e riconoscibile. È quanto mi è capitato –
e non per la prima volta in verità – a seguito della lettura di un pezzo –
seppur breve - di straordinaria maestria di Chiara Saraceno pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 4 ultimo scorso col titolo “Se anche il carcere divide i ricchi dai poveri”. La scrittura
magistrale del sociologo è tutto un disvelare quel lato oscuro dell’accadimento
che da giorni tiene le prime pagine dei quotidiani. Poiché a ben pensare ciò
che ci appare nelle cose o negli accadimenti degli umani è di sicuro il lato
più elementare, più primitivo oserei dire, quello in verità già
convenientemente scarnificato. È ciò che avviene quando la vanità degli umani prende
il sopravvento e ciascuno ricerca e studia di mostrare il lato più fotogenico del
proprio viso, dell’aspetto migliore del proprio corpo nel suo assieme. Un lato
ci deve pur essere che venga considerato il più bello e fotogenico e quindi da
mostrare. Ma forse esso, quel lato intendo dire, non sempre rappresenta al
meglio l’identità vera dell’essere umano. Ma è considerato il più fotogenico e
tanto basta. Così è pure per le cose e per gli avvenimenti. C’è sempre un lato
che si vuole privilegiare, quasi a nascondere un altro lato sul quale non si fa
troppo affidamento. O del quale ci si vergogna. È la forza dell’apparire che detta
in ogni circostanza la condizione delle cose e degli accadimenti. C’è un passo
nel pezzo magistrale di Chiara Saraceno che mi ha rivelato – che rivela - quel
lato oscuro - non in chiaro - della vicenda di questi affannosi giorni. Scrive:
Se
non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri
italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è
altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza
di diritti e garanzie per tutti. Ecco disvelato l’oscuro di quel lato
umanitario tante volte richiamato dalle cronache in queste convulse ore.
L’orgoglio di dire “sono stata umana”. La supponenza di dire “non ho nulla da rimproverarmi”. La protervia
d’affermare “se non mi credono me ne vado”. Bene. Sembra facile liquidare la
querelle in quei termini. Nel lato non in chiaro della vicenda è sfuggito ai
più quell’aspetto di classe che la giustizia nel bel paese possiede e conserva
senza destar scandalo alcuno. Riporta Chiara Saraceno il dispositivo del perito
secondo il quale Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un
evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in
particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella
quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano,
anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e
promiscuità correlate alla carcerazione». Donde ne è conseguita la
concessione degli arresti domiciliari al posto della detenzione. In quel
documentare del perito si coglie nella sua interezza l’oscuro del lato
umanitario della vicenda – ai più certamente sfuggito poiché, forse,
artatamente reso poco visibile – laddove per Chiara Saraceno se
ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha
più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per
seguire fino in fondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria
deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva
in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria
nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà
di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono
essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in
considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le
conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Ora
vien da chiedersi cosa necessiti per l’insorgere negli umani di quel benedetto
lato della persona detto umanitario, per l’appunto. Che sia un’impronta della
natura? Che sia dovuto alla genetica? O meglio, che sia una conquista della
cultura e del sistema sociale? E tutti gli umani ne sono in possesso? Ed in
quale misura? O forse che esso si sviluppi in dose maggiore laddove le
circostanze della vita lo consentano? Poiché, da quell’argomentare del perito
per Chiara Saraceno ne discenderebbe che: Se poi, oltre a non essere agiate,
presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti,
tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro
condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o
sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero
Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai
medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi. Poiché
a questo punto è ben difficile sottrarsi all’affollarsi nella mente di tutti
quei retro-pensieri – di solito cattivelli - che l’inquietante vicenda
favorisce. Ché altri fattori favoriscano quell’aspetto oscuro del lato
umanitario? Soprattutto in coloro che presidiano le stanze del potere? E della
ricchezza? Le cronache in verità ne sono piene cum abundantia. Conclude
amaramente l’illustre sociologo: (…). …nel girone infernale delle carceri
italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri
umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato —
come nell’ancien régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di
accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo
status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus di
vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di
“disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di
attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di
poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un
perito? È riuscita Chiara Saraceno a disvelare anche a Voi tutti
l’oscuro che può pur esserci nel lato umanitario di chicchessia? Ché il
cosiddetto lato umanitario possa essere sfoggiato alla bisogna a mo’ del
cosiddetto lato fotogenico – forse meno fotogenico dell’altro lato - che
ciascuno pensa di possedere? Sarà bene che ciascuno si attrezzi
convenientemente per apprestare un lato fotogenico ma ancor più un lato
umanitario – al pari del lato ironico, romantico, cinico, ecc. ecc. - della
propria persona per meglio affrontare il periglioso navigare nei meandri della
vita.
lunedì 4 novembre 2013
Cosecosì. 61 Checco Zalone e Caronda.
Per fortuna che Luca Pasquale c’è.
Altrimenti bisognerebbe inventarlo. Luca Pasquale chi? Nientepopodimenochè
Zalone, detto Checco. Checco perché? Non lo si sa. All’anagrafe Luca Pasquale
Medici. Di Bari. E tanto basta. Poiché Luca Pasquale, altrimenti detto Checco,
rappresenta la palingenesi della cultura del bel paese. Senza il Checco è la
fine, lo sfascio. Lo dico a ragion veduta. Ieri sera c’era la ressa per
assistere alle sue imprese. Nel cinema di C***, nella Sicilia generosa. Nello
stesso cinema che per vedere “Lincon”
sono stato unico spettatore, correndo il rischio che la cassiera non mi
staccasse il biglietto d’ingresso. Nello stesso cinema nel quale per vedere
l’ultima fatica di Quentin Trantino – “Django”
– si era solamente in tre, non dovendo così impietosire l’addetto al
botteghino. Dicono le cronache che le copie circolanti del film siano 1250; di
altre “opere” – e dico opere nella più pura delle accezioni - cinematografiche
si perdono le tracce. In quel di C***, alle ultime propaggini dei Nebrodi
boscosi, avviene questo. Riporta il professor Umberto Galimberti nel Suo “Amate i libri: chi non legge non sa
niente” – sull’ultimo numero del settimanale “D” di Repubblica -: Caronda,
mitico legislatore di Catania del VI secolo a.C., disse: «La libertà viene da
un libro». Sempre di Sicilia si tratta, ma di un certo tempo addietro,
il sesto secolo avanti Cristo. Ohibò! Cose dell'altro mondo! Checco è la
palingenesi che, secondo i più informati sistemi filosofico-religiosi,
rappresenta il periodico rinnovamento dell'individuo o del cosmo. Checco
rappresenta il nostro rinnovamento. A tutto tondo. Se anche Caronda nel sesto
secolo avanti Cristo ravvisava nella lettura di un libro la ricerca della “libertà”,
cosa ne deriva in prospettiva per un popolo in fuga per accorrere a vedere
Checco Zalone? Scrive infatti il professor Galimberti: Per questo il calo dei lettori
getta un'ombra pericolosa sul nostro futuro. Ché non ci sia da dargli
ragione? Non per nulla Egli si rifà al pensiero robusto dell’Uomo di Treviri: (…).
…è questa la ragione per cui Marx ebbe a scrivere: «Per il capitalismo, attento
solo al denaro, un mercato di libri non differisce da un mercato di bestiame».
Se non per il fatto - aggiungo io - che il libro, rispetto al bestiame, è una
merce più povera. Ma chi, (…), al valore mercantile preferisce il valore delle
idee, giustamente ritiene che il mercato dei libri conservi una sua
peculiarità, (…). Cose facili e nobili a dirsi, ma difficili da sostenersi, in un'economia
di mercato assetata più di novità che di nuove idee. Questa è la ragione per
cui oggi, nella nostra società che ha velocizzato il tempo, la vita di un
libro, anche di successo, non oltrepassa i tre mesi, dopo di che il libro
incomincia a pesare sugli affitti dei magazzini che accumulano l'invenduto in
attesa del macero. E al macero, insieme ai libri, se ne vanno anche le idee,
che oggi non sembra siano le cose più ricercate, se è vero che solo nell'anno
appena trascorso il mercato dei libri ha registrato un calo del 30%. (…). Così
la cultura, già collassata nella scuola, collassa anche nell'editoria e, per
colpa del degrado progressivo della nostra scuola che non ha incuriosito né
invogliato i ragazzi a leggere, oggi sono considerati "lettori forti"
quelli che leggono almeno quattro libri all'anno. Ma così la cultura degrada, e
il suo degrado determina due conseguenze pericolose: la prima è che un popolo
incolto, e per giunta con un linguaggio afasico e stentato a cui si aggiunge un
analfabetismo di ritorno, con qualche maggiore difficoltà può uscire dalla
crisi che ci attanaglia. La seconda è che, siccome "guardare" è più
facile che "leggere", si consegna la cultura per intero alla
televisione e ai personaggi che vi compaiono, capaci di suggestionare e
determinare le scelte non solo politiche, ma anche gli stili di vita appresi
per imitazione, senza che un minimo di vaglio critico ci trattenga dal
rinunciare a essere noi stessi con le nostre idee. È che per anni ci è
stato detto dell’inutilità della cultura, cultura all’interno della quale la
lettura – ovvero il paziente e personale suo esercizio - diviene lo strumento
di quella palingenesi che determina l’affrancarsi da uno stato di “servitù”,
“servitù”
che al tempo d’oggi – forse con un ritorno all’indietro però – non è
meramente riscatto dal bisogno materiale ma qualcosa d’altro che i meno
avvertiti non ritrovano nel loro orizzonte di vita. Disquisiranno i dotti ed i
sociologi sul fenomeno Checco Zalone, ne rintracceranno le ragioni nascoste, il
perché ed il per come di quel “per fortuna che Luca Pasquale c’è”.
Ma intanto quelli che a C*** facevano ier sera ressa per riderci a “catinelle”
non sanno, se richiesto, lo stato d’anagrafe del Checco nazionale. Ha scritto
Giacomo Papi – “La beata ignoranza”,
sul settimanale “D” del 28 di gennaio dell’anno 2012 -: Quando le rivoluzioni arrivano di
solito si ride. Il nuovo ha una faccia così strana e goffa che, dall'imbarazzo,
non si riesca a fare altro. Abbiamo riso quando Claudio Cecchetto, nell'81,
scandiva "spray" e fingeva di deodorarsi in Gioca jouer. Sempre
nell'81 abbiamo sorriso di Jo Chiarello, la protetta di Califano che a Sanremo
portò Che brutto affare: "Io ti consideravo un super-man ma non sei
neanche un man, scemo". Abbiamo sfottuto anche il cane Asfidankel di Drive
In, le ragazze cin cin di Colpo grosso e il dj Awanagana. Non sapevamo che la
beata ignoranza sarebbe stato il nostro futuro, che per decenni rutti, lazzi e
"governi del fare" si sarebbero succeduti al potere, tronfi e impuniti.
Negli ultimi trent'anni il cervello è stato considerato una zavorra, l'organo
di chi spreca tempo e parole. Negli ultimi trent'anni l'intellettuale è stato
considerato una creatura inutile, pittoresca e residuale, sopravvissuta per
caso a una glaciazione. Invece, nulla è irreversibile e le risate rimbalzano.
Forse la storia è un alternarsi di braccia e cervello. Di periodi in cui ci si
sforza di conoscere prima di fare e di altri in cui si pretende di fare senza
conoscere. È che non si volevano invocare “le rivoluzioni”, che
sono cose tremendamente serie. Ma una palingenesi piccola piccola quella sì. Un
rinnovamento. L’abbiamo avuto. È Checco Zalone, all’anagrafe Luca Pasquale Medici.
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