“Ue’ guaglio’!”. “Scusi, con chi
parlo?”. “So’ Nicola, Nicola Mancino: l’amico D’Ambrosio m’ha detto di
chiamarti per fare qualcosa contro ‘sti malamente dei piemme di Palermo che si
so’ fissati co’ ’sta pinzillacchera della trattativa”. “Guarda, Mancino, con
tutto il bene che ti voglio, hai sbagliato indirizzo. Anzitutto non sono un
‘guagliò’, ma il presidente della Repubblica. E, come capo del Csm, non solo
non ho alcun potere di interferire in un’inchiesta in corso, ma ho pure il
dovere di difendere l’indipendenza dei magistrati. Dovresti saperlo bene, visto
che del Csm eri il vicepresidente . . .”. “Ma guagliò, cioè presidè, chisti
piemme insistono, dicono che so’ bugiardo, organizzano confronti co’ Martelli…”.
“E io che ci posso fare? Se non hai nulla da rimproverarti, vedrai che la tua
innocenza alla fine verrà fuori. Noi siamo i primi a doverci fidare della
magistratura perché apparteniamo a una categoria privilegiata: sennò con che
faccia diciamo a un cittadino qualunque che deve aver fiducia nella
Giustizia?”. “Presidè, è ‘na parola, chilli vogliono incriminarmi pe’ falsa
testimonianza! Ammè, capito, a Nicola Mancino!”. “Guarda, caro, se hai qualche
lagnanza nei confronti di un pm, manda un esposto al procuratore, al gip, al
presidente della Corte d’appello, al procuratore generale, al Csm, alle Nazioni
Unite, a chi pare a te, ma lasciami fuori. Tutti i cittadini sono uguali
davanti alla legge, ricordi? Lo dice la nostra Costituzione, su cui hai giurato
un’infinità di volte. . .”. “Ma presidè, siamo amici, m’hanno rimasto solo, non
mi parla cchiù nisciuno…”. “E pazienza, prenditi una badante, gioca a bocce,
fai come ti pare, ma non permetterti più di disturbare il Quirinale. E lascia
in pace il povero D’Ambrosio che non ce la fa più. Sennò ti denunciamo per
stalking ai sensi della legge Carfagna…”. (…). Del mitico “compagno
Giorgio”, divenuto il Presidente, ne ho scritto nel post del 22 di giugno. Non
mi sento di aggiungere altro. Se non che ci saremmo attesi tutti quanti, Voi ed
io intendo dire, che il mitico “compagno Giorgio” avesse risposto alla stessa
maniera del Presidentissimo dell’esilarante editoriale “Al cittadino non far sapere” di Marco Travaglio pubblicato su “il
Fatto Quotidiano”: “non permetterti più di disturbare il Quirinale”. A nessun
altro cittadino sarebbe stato concesso di disturbare impunemente l’abitatore
del Colle. Probabilmente è andata diversamente. Come? Non lo si sa. E forse non
lo sapremo mai. Un tempo soleva dirsi: “non far sapere al contadino quanto è buono
il cacio con le pere”. Cose da civiltà agro-pastorale. Ma sempre “civiltà”.
Poiché, nello specifico del proverbio, avveniva il connubio tra quel mondo agro-pastorale
simbolizzato dal cacio, il cibo del mostruoso Polifemo accecato dall’Ulisse
navigante, e l’insorgente civiltà dell'effimero che si ritrovava nella pera
succosa. Si era nel più raffinato dei secoli, il Cinquecento, quando “lor
signori” superavano la diffidenza verso le forme del cacio abbinandolo
alle pere in alternativa alla carne che rimarrà per un bel pezzo ancora il cibo
esclusivo dei ricchi. Si diceva della “civiltà”; che si è persa sotto
tutti gli aspetti nel bel paese. Scriveva Carlo Galli su la Repubblica del 22
di giugno – in “Chi gioca allo sfascio”
-: (…).
Vi è (…) un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è
stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo. Il senatore Mancino si
è mosso come se fosse ancora in grado di esercitare un qualche controllo sulle
toghe, o come se fosse molto preoccupato di quanto può uscire da indagini e
testimonianze; e cita nomi illustri di politici del passato, come a coprirsi o
a coprirli. E chiede aiuto a un illustre interlocutore, D’Ambrosio – magistrato
in pensione, consigliere giuridico del Quirinale (dove è giunto dai tempi di
Ciampi), a suo tempo estensore dell’articolo 41 bis (sul carcere duro ai
mafiosi) –, il quale si mostra invero prodigo di consigli e di suggerimenti
verso Mancino. Con una dimestichezza e un’amicizia ben spiegabili, ma che,
riportate dai quotidiani, non fanno, nel complesso, un bell’effetto. Poiché si
prestano a letture in chiave di privilegio, di casta, e insomma contengono
spunti – senza che tutto ciò abbia qualcosa a che fare con Napolitano – che
possono essere strumentalizzati in un’ottica di populismo isterico e di
antipolitica generalizzata. (…) …c’è un livello etico-politico di lettura
dell’intera materia. (…). L’autorevole corsivista riconosce che ci sia
stato “un livello prudenziale, di stile; e qui si può affermare che vi è
stata qualche telefonata, e qualche risposta, di troppo”. Molto
elegante. “Poiché – sentite questa - si prestano a letture in chiave di
privilegio, di casta,…”. E quale altra lettura sarebbe possibile dare
alla invereconda storia? E non contento delle cose sin qui affermate il nostro
si spinge a teorizzare, nell’articolo Suo ultimo “La verità e le regole” sul quotidiano la Repubblica: (…). Mancino,
chiamato a testimoniare in tribunale sul suo operato di allora ministro
dell’Interno, e quindi comprensibilmente infastidito, non ha commesso un
illecito a cercare contatti col Quirinale, e a chiedere consigli. Certo, si è
trattato di comportamenti inopportuni e imbarazzanti; non censurabili, ma
espressione di abitudini tipiche più dei potenti che dei comuni cittadini. In
modo speculare, di fronte alla ricerca di quei contatti, non si può non vedere
che da parte di qualche collaboratore del Presidente ci siano stati
comportamenti altrettanto impropri e imprudenti. (…). Arrampicandosi
sugli specchi arriva a sostenere che “si è trattato di comportamenti inopportuni
e imbarazzanti; non censurabili, ma espressione di abitudini tipiche più dei
potenti che dei comuni cittadini”. A quale altro cittadino della
Repubblica sarebbe stato possibile avere quei “comportamenti inopportuni e
imbarazzanti”? E quale cittadino di questa malandata Repubblica avrebbe
trovato udienza presso “qualche collaboratore del Presidente” che
avrebbe messo in atto “comportamenti altrettanto impropri e
imprudenti” per favorirlo evidentemente? Il problema sta tutto
qui: diseguali di fronte alla legge. Alla faccia della Carta. Ma proprio sullo
stesso numero del quotidiano la Repubblica – “Mancino e il consigliere” - Attilio Bolzoni scrive: (…). Vent’anni:19
luglio 1992 e 19 luglio 2012, tutto è come prima, tutto è indicibile in questa
Italia che celebra pomposamente i suoi eroi ma non vuole mai scoprire la
verità. La storia della trattativa fra i Corleonesi e pezzi delle istituzioni è
tutta qua, una storia da dimenticare, da seppellire, da cancellare per sempre.
E ogni volta che qualcuno la fa riemergere, ci sono sempre tentativi di
indagati eccellenti per depotenziare un’indagine o addirittura strapparla ai
legittimi titolari. Se rileggiamo quelle telefonate fra un sospettato di avere
cercato il patto con la mafia e un altissimo funzionario di Stato, se
riascoltiamo quelle conversazioni fra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino
e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, c’è poco spazio per
commenti o interpretazioni: sono loro stessi che ci spiegano tutto su ciò che
stavano facendo per allontanare l’ex ministro dall’inchiesta di Palermo, sono
loro stessi che ci fanno capire ogni dettaglio con le loro parole. (…). Il
consigliere giuridico del Quirinale parla molto al telefono e fa sempre
riferimento al Presidente, accenna alla ferma decisione del procuratore
nazionale Pietro Grasso di non intromettersi nell’inchiesta palermitana, spiega
che solo il procuratore generale della Cassazione potrebbe in qualche modo
intervenire scavalcando lo stesso Grasso. L’ex ministro è molto agitato, teme
di essere incriminato dai pm di Palermo per la trattativa fra Stato e mafia. Il
consigliere giuridico del Quirinale gli comunica un giorno che il segretario
generale della Presidenza della Repubblica Vincenzo Marra ha inviato una
lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito,
chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di
Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa». E dice a Mancino: «…Per cui
in realtà quello che adesso uscirà, se esce, esce la lettera del Presidente,
esce la lettera di Marra a nome del Presidente. E cioè che gli dice: dovete
coordinarvi, tu Grasso, cioè fai il lavoro tuo ecco». È il 19 aprile di
quest’anno quando il nuovo procuratore generale della Cassazione Gianfranco
Ciani convoca Grasso sulla questione del coordinamento sollevata da Mancino e
condivisa da D’Ambrosio. Il procuratore Grasso ribadisce la sua posizione: il
coordinamento fra quelle procure c’è già. Non ci sono gli estremi per avocare
l’inchiesta come sperava anche un consigliere del presidente. Una
storia non proprio commendevole, “compagno Giorgio”!
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
martedì 17 luglio 2012
mercoledì 11 luglio 2012
Capitalismoedemocrazia. 27 Un Parlamento reso inutile.
Sei stato convocato ‘con urgenza
e tassativo ordine di partecipazione e puntualità’. Ma l’aula è vuota. Non c’è
alcuna presenza e alcun dibattito. Sono i commessi a dirti sottovoce:
annunceranno il voto di fiducia a mezzogiorno o all’una, e si vota qualche ora
dopo. Vuol dire che passi di fronte al banco della Presidenza della Camera e
puoi solo di dire un “sì” o un “no”. Segue una breve discussione finale sugli
ordini del giorno, più che altro un po’ di conversazione e una gentilezza verso
i pochi parlamentari che prenderanno la parola, ciascuno per pochi minuti, su
questioni che sono per forza marginali. Subito dopo siamo pronti per un altro
voto di fiducia. Perché è necessario? Perché il tempo è stretto, perché “il
governo non può rischiare cambiamenti”. Ogni dettaglio è già stato concordato
con amici e meno amici in Europa. Tecnicamente è una democrazia strana.
Costituzionalmente è un Parlamento inutile. (…). Ci muoviamo lungo un percorso
necessario e impossibile. Come se ne esce, a parte indignazione e protesta
(che, come abbiamo imparato, è mal tollerata)? Bisogna accettare una verità
amara e banale. Il male che sta rendendo assurda non solo la funzione del
Parlamento ma anche, e soprattutto, la vita dei cittadini, non è, come tutti
diciamo, la cattiveria aggressiva dell’economia e delle sue feroci
speculazioni. È qui, è tra noi, è politica. Partiti corrotti ci hanno portati
al terminal e consegnato ai guardiani. Partiti esangui si accodano senza volere
o sapere cos’altro fare. Guardali dentro. Non c’è vita. Osservali nelle piccole
cose, tipo la Rai. Ricominciano da capo, al livello della continua ricerca di
un minimo garantito. Niente coraggio, nessuna idea, neppure l’ombra di una
visione del che fare. Se la scorciatoia è illegale (come la sostituzione
arbitraria e improvvisa di un membro della Commissione di Vigilanza) la
prendiamo per buona in cambio di una cosina. A piccoli passi strascicati che
non lasciano traccia, usciamo dalla politica, dando la colpa all’economia, ed
entriamo nel sottomondo del baratto: ti do, mi dai. È una fine che non
assomiglia all’inizio. La Resistenza, ricordate? Così, sempre più
caustico, Furio Colombo nell’editoriale su “il Fatto Quotidiano” che ha per
titolo “Il Parlamento inutile”.
Tante volte si è detto che la “crisi” ci avrebbe cambiati. In
meglio? In peggio? Non è certo che ci abbia resi diversi dal come eravamo. Ed
il nostro “eravamo” era e rimane essenzialmente quella condizione disperante di
“consumatori” incalliti e per nulla disposti a rivedere le proprie abitudini.
La “crisi”
incide però da quel lato che la sprovvedutezza, per non dire l’indifferenza dei
tanti, hanno poco curato presi com’erano dalla salvaguardia di un benessere
raggiunto. La “crisi” cambia – se non uccide – la democrazia, per come essa è
stata costruita e per come essa è stata da noi conosciuta dopo i disastri di
due guerre continentali. E la cambia nelle forme che Furio Colombo ha
magistralmente raccontato. Una democrazia svuotata, succube delle scelte e
degli imperativi che “il mercato” impone senza indulgenza
alcuna, nel rispetto della sua idea di benessere per i pochi a scapito delle
moltitudini di quel ceto medio convenientemente “proletarizzato”. Una
democrazia senza nerbo, che subisce e non detta le condizioni per un vivere
associato di accettabile qualità. Si chiede Ronny Mazzocchi sul quotidiano
l’Unità: (…). È davvero possibile che sia bastata sempre l’esternazione di un
singolo - giusta o sbagliata che fosse - a vanificare gli sforzi di tutta la
popolazione? Davvero una frase di Giorgio Squinzi può annullare gli effetti di
una riforma delle pensioni lacrime-e-sangue o di quattro manovre restrittive? E
perché in tutti questi mesi la grancassa mediatica e la lunga serie di
autorevoli sostenitori dell’esecutivo non sono mai riusciti ad abbassare il
differenziale di rendimento dei nostri titoli pubblici anche solo di qualche
decimale di punto? E prosegue nella Sua interessante analisi che ha per
titolo “Monti, Squinzi e l’imbroglio
degli ultra-liberisti”: È chiaro che il giochino dello spread -
abilmente maneggiato da novembre in poi dai mass-media e dal governo - è sempre
più difficile da utilizzare. Il modo con cui il premier e la grande stampa
hanno attaccato il capo di Confindustria, oltre a stupire in negativo per i
modi utilizzati, lascia intendere un certo nervosismo. Tutti sanno benissimo
che lo spread dipende ormai molto poco da noi e moltissimo dalla difficile
partita che si sta giocando da mesi sui tavoli di Bruxelles e Francoforte. Due
anni di austerità non solo non hanno rimesso in sicurezza l’Europa, come ci
avevano garantito i tecnocrati della Commissione europea e della Bce ancora a
settembre dell’anno scorso, ma hanno addirittura aggravato la situazione,
estendendo il contagio dalla Grecia agli altri Paesi mediterranei, fino a
lambire pure Spagna e Italia. Il risanamento dei conti pubblici, che doveva
restituire fiducia agli investitori e rilanciare così crescita e posti di
lavoro, sembra aver funzionato al contrario, esattamente come prevedevano i
vecchi testi di economia: meno spesa pubblica e più tasse hanno ridotto le
prospettive di sviluppo future, con ricadute immediate su produzione e
occupazione. È quindi diventato chiaro pure al più ostinato dei fondamentalisti
liberisti che l’idea che fosse sufficiente fare «i compiti a casa» per uscire
dalla crisi si è rivelata del tutto inutile, e che per rompere il circolo
vizioso fosse necessario mettere mano ai due grandi problemi continentali: lo
stretto legame fra finanza bancaria e finanza pubblica e il crescente
differenziale di competitività fra i Paesi dell’area euro. (…). È tutto
qui “l’imbroglio”
di cui parla l’autorevole opinionista: far pagare ai “soliti
noti” il costo più pesante della “crisi” attingendo alle risorse
degli Stati per ripianare gli errori che il capitalismo finanziario ha creato
nella sua ossessionata volontà depredatrice di risorse umane e naturali. Ha
dichiarato Amartya, Sen Premio Nobel per l’Economia: - La crisi non è il sintomo di un
fallimento degli Stati ma l’effetto di un fallimento del mercato che a sua
volta è stato salvato dagli Stati -. Più chiari di così. Ma la politica
non ha più forza alcuna. Per non parlare poi delle idee e dei progetti. Vive
alla giornata, cercando di assicurarsi quel “minimo garantito” che ne
giustifichi una stentata esistenza. Il grande capolavoro è compiuto:
rendere inutile il Parlamento.
martedì 3 luglio 2012
Capitalismoedemocrazia. 26 Una domanda di sinistra.
Gran brutta “bestia” è il porsi
domande. Specialmente di questi tempi canicolari. “Caronte” non perdona. L’afa
opprime e le idee sembrano liquefarsi con essa. Ma continuo a considerare
insuperabile il vecchio Yves Montand nell’indimenticabile “L’amica delle 5 e mezza”
che ad una altrettanto straordinaria Barbra Streisand ebbe a dire: -
Credo che le risposte rendano saggi, ma le domande rendano umani -.
Ecco, nonostante tutto, continuiamo a porci domande. Per cercare risposte. Tanto
per salvare il poco di umanità che ci avanza. Uno che sembra averci fatto il
vezzo con le domande è certamente Michele Serra che nella Sua consueta,
giornaliera “Amaca” del 19 di giugno sul quotidiano la Repubblica si chiede – e
ci chiede -: (…). …chi diavolo sono, questi misteriosi “mercati”? Hanno fisionomia
giuridica, un portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche
nome o cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai votato per loro? Se sbagliano, si
dimettono? Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio (il famoso
“giudizio dei mercati”) conta più del giudizio dell’intera classe politica
mondiale? Perfino i più esecrabili dittatori ci mettono la propria faccia, e a volte finiscono la carriera appesi a un
lampione. Perché i mercati no? Se
contano tanto (tanto da affamare i popoli, volendo, e tanto da salvarli, sempre
volendo) perché sono l’unico potere, in tutto l’Occidente, che non si espone mai,
non parla nei telegiornali, non viene intervistato, fotografato, incalzato?
Perché siamo tutti ai piedi di un’entità
metafisica che per giunta non dispensa alcun genere di risarcimento spirituale,
anche scadente? È l’umanità di Michele Serra che emerge. Si pone
domande e salva il Suo resto di umanità. Vi sembrano domande da porsi con
“Caronte” che alita dalla lontana Tunisia? Mi pare che lo sia necessario, tanto
per continuare a restare e definirci umani. Una risposta alle domande del Serra
e di noi altri tutti l’ho rinvenuta in un editoriale – “Una domanda di sinistra” - a firma di Alfredo Reichlin sul
quotidiano l’Unità: (…). …non si era mai visto che un fondo di investimento americano
potesse mettere in gioco risorse paragonabili al Pil di una media potenza come
l`Italia. Si ammetterà che questo apre una qualche riflessione non solo
sull`economia ma sulla politica e direi anche sulla storia delle nazioni. In
fondo, allora, questi “mercati” hanno un volto, hanno anch’essi
la forma degli esseri umani con i quali bisognerebbe dialogare e, se il caso lo
richiedesse, contrastarne l’infausta loro azione. Ecco perché ritengo che il
vecchio Yves avesse ragione: che le risposte rendano saggi. Dovrebbero rendere
tutti saggi. Sol che lo si voglia. Individuati “questi misteriosi mercati” nella
loro corporalità spetterebbe alla politica affrontarli in nome di quel 99% che
subisce e patisce le loro micidiali azioni. Ma da un bel po’ di tempo sembra
che la politica tutta latiti – per debolezza, per paura, per connivenza? - su
questo fronte lasciando i singoli e le comunità in balìa del vento della
spregiudicatezza e dello sfruttamento. Continua nel Suo interessantissimo editoriale
Alfredo Reichlin: (…). La crisi non è congiunturale. Si è rotto l`ordine mondiale ed è
per questa ragione che siamo nel pieno di una guerra di dimensione mondiale,
sia pure monetaria. Il che significa che si sta decidendo come redistribuire la
ricchezza e quindi chi deve impoverirsi e a vantaggio di chi. La questione
sociale ha ormai questa dimensione, e c`è poco da scherzare. Se continua a
governare questa meschina destra europea è chiaro che le classi dirigenti
italiane sono disposte a tutto: non potendo svalutare la moneta svalutano il
lavoro: bassi salari, precarietà, disoccupazione, ciò che sta avvenendo sotto i
nostri occhi. (…). Stiamo attenti a non sbagliare. Il cuore del conflitto non è
più solo l`antagonismo tra l`impresa e gli operai. È l`insieme del mondo dei
produttori cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che
sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Pesa sui produttori delle merci e
sui beni pubblici l`onere di stringere la cinta per garantire i guadagni
astronomici, gli sprechi e i lussi della rendita finanziaria, per di più
esentata dal pagare le tasse. Sta, quindi, avvenendo qualcosa che colpisce le
ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile. Il fatto enorme
è questo. Stiamo assistendo non solo ai fallimenti dell`economia finanziaria ma
a un problema di “legittimità” di certi grandi poteri. Dove va il mondo se l`individuo
lasciato solo non può fare appello a quelle straordinarie capacità creative che
non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall`intelligenza
accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane? (…). …fermare il
predominio globale del capitale finanziario è possibile solo alla condizione
che l`individuo rompa il suo isolamento e si muova in modo creativo insieme
agli altri individui. Questa è l`arma. L`enorme domanda di senso e dello stare
insieme che esiste nella nuova umanità che si sta formando. In Italia come in
Egitto e in Brasile. Non a caso è riemerso il tema dei “beni comuni”. Del
resto, come diceva un vecchio intellettuale europeo tedesco ed ebreo, Carlo
Marx: «Che cos`è la ricchezza se non il pieno sviluppo del dominio dell`uomo
sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle
della propria natura? Che cosa è se non l`estrinsecazione assoluta delle sue
doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che
rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di
tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato?». Riporta
il quotidiano l’Unità di oggi una dichiarazione dell’economista americano Paul
Krugman: - La posta in gioco è molto alta e la maggioranza dei leader europei non
è né stupida né in cattiva fede. Ma la stessa cosa si diceva dei leader europei
nel 1914. Possiamo solo sperare che questi siano davvero tempi diversi –. Sappiamo
bene cosa ne è seguito al ’14 del secolo ventesimo. Una
carneficina nel cuore della vecchia Europa. Urge però una saggia, coraggiosa
risposta di “sinistra”; è questo il punto. Continuiamo perciò a porci
domande. Nonostante il caldo che asfissia e che inviterebbe a non porsi domande
troppo difficili.
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