Da “Sta
cambiando il mercato troppo greggio nel mondo i prezzi resteranno bassi” di
Eugenio Occorsio, sul settimanale “Affari&Finanza”
del 20 di ottobre 2014: (…). …la Cina e la Russia rallentano, la
Germania è sull’orlo della crisi per non parlare del resto d’Europa: i valori
così bassi del greggio non sono semplicemente funzione del passo lento
dell’economia e della domanda mondiale? «Non è questo l’elemento prevalente.
Per capire la situazione dobbiamo andare indietro di dieci anni. Nel 2003-2004
le quotazioni cominciarono a salire, tanto che più o meno tutte le compagnie,
grandi o piccole, decisero di potenziare gli investimenti per aumentare la
disponibilità e quindi cogliere le opportunità di prezzi così alti che allora
sembravano dover durare per sempre (il picco fu a 150 dollari nel luglio 2008,
ndr). Nei dieci anni fra il 2003 e il 2013 si sono spesi nel mondo oltre 4mila
miliardi di dollari nell’esplorazione e nello sviluppo di nuovi giacimenti di
petrolio e gas. Bene, ora questi investimenti, che per natura richiedono in
media 7-8 anni anni per dispiegare i loro effetti, stanno dando i loro frutti.
Così aumenta a dismisura la capacità produttiva, più ancora che l’offerta: il
problema, come notava già lo sceicco Yamani, è che quando la capacità aumenta
ma la domanda è stabile o in declino, si crea quello che gli americani chiamano
glut, insomma eccesso di petrolio potenzialmente in grado di arrivare sul
mercato. È quello che sta succedendo.
Né è semplice per le compagnie rallentare
di colpo o addirittura interrompere gli investimenti, che vengono intrapresi di
solito in cooperazione con i Paesi produttori i quali non si lasciano sfuggire
tanto facilmente le opportunità di guadagno pur ridotte. Ma poi ci sono ancora
altri fattori». Quali? «Sempre negli ultimi dieci anni è intervenuta in tutto
l’occidente una serie di leggi molto stringenti sui consumi energetici, e
tecnologie importanti — pensate solo ai motori auto — sono state sviluppate.
Anche questo è un fattore importante per il calo della domanda di greggio. E
considerate che alcuni Paesi produttori non immettono sui mercati tutta la loro
capacità per non accentuare l’eccesso di offerta. L’Arabia Saudita, il maggior
produttore, esporta 9,4 milioni di barili al giorno pur avendo una potenzialità
di 12,5: da sempre aspira al ruolo di “banca centrale” del greggio, graduando a
seconda delle esigenze le quantità da immettere sul mercato». Una scorta di
sicurezza e un’arma politica, insomma. Ma l’elemento più asimmetrico è un altro
ancora: sono in corso furiosi combattimenti in uno dei Paesi cruciali dello
scenario petrolifero, l’Iraq, mentre la Libia (altro membro dell’Opec) è senza
governo e in balìa delle scorribande armate, e come se non bastasse il ganglio
altrettanto fondamentale Russia-Ucraina è diventato una polveriera. In altri
tempi, situazioni simili hanno comportato un’impennata dei prezzi del greggio. Ora,
il contrario. Perché? «L’Isis è una banda di orrendi tagliagole, non c’è
dubbio, però il danno che finora ha apportato ai mercati petroliferi è
limitato. La loro non è una guerra per il petrolio. Certo, qualche pozzo lo
controllano e con essi, vendendo di contrabbando 2-300mila barili al giorno,
riescono a finanziare la loro avanzata. Il contrabbando di petrolio c’è sempre
stato, dagli embarghi contro Teheran o Baghdad fino alle tante attività
illecite in giro per il mondo. Ma da questo a influenzare i mercati ce ne
corre. Per quanto riguarda la situazione attuale, la grande maggioranza del
petrolio iracheno viene estratto nel sud-est del Paese, al riparo
dall’invasione del Califfato. L’Iraq aveva prima dell’attacco dell’Isis
superato i 3 milioni di barili al giorno di produzione, il massimo da prima
dell’intervento americano, e sottraendo la quota “rubata” dall’Isis gli
equilibri complessivi cambiano poco. In Libia la situazione è ancora più
pesante perché la sottrazione di produzione arriva agli 800mila barili, la metà
del potenziale del Paese. E se volete aggiungiamo anche i cronici problemi
della Nigeria, altro Paese Opec, alle prese con i guerriglieri del delta del
Niger, nonché del Sudan. Tutto petrolio in meno che arriva sui mercati: eppure
la superofferta è sempre tale». Per completare il quadro dei fattori che
influenzano le quotazioni del greggio, non si può non parlare dello shale,
prima gas e ora petrolio, americano. «Ecco, questa è la vera grande novità di
questi anni. Gli Stati Uniti consumano oggi 18,3 milioni di barili di petrolio
al giorno e ne producono fra shale e tradizionale 11,5, compresi i
biocarburanti. Una bella differenza rispetto a soli cinque anni fa, quando gli
Stati Uniti importavano il 60% del greggio. E’ tutto cambiato: le quotazioni
interne della benzina, i costi industriali. E se parliamo di gas la situazione
è ancora più interessante: complessivamente, le industrie hanno costi
energetici pari a un terzo». L’Arabia Saudita e gli altri Paesi dell’Opec
temono che l’America cominci ad esportare, superando l’auto-embargo che si è
posto dai tempi dello strapotere dell’Opec, abbattendo così ancora di più le
quotazioni? «Beh, di sicuro sono molto attenti. Ma non sarà così facile per gli
Stati Uniti vincere le resistenze interne, politiche e di forti lobby, per
affrancarsi dai dogmi degli anni ‘70 e esportare grandi quantità di petrolio e
gas». Il petrolio è un’arma politica ormai da quarant’anni, dalla guerra del
Kippur del 1973. Nel suo nome si fanno guerre o si stringono inedite alleanze
come quella recente fra Mosca e Pechino per il gas. E l’altro giorno al vertice
eurasiatico di Milano è stato notato il febbrile lavorìo diplomatico di Putin
per evitare che l’“incidente” ucraino comprometta la diplomazia del gas. Qual è
la vera situazione della Russia? «Oggi di fatto Mosca è il maggior produttore
di petrolio al mondo con 10,4 milioni di barili perché a differenza dei Paesi
arabi produce tutto quello che può senza tenere alcuna capacità inutilizzata.
Nel gas tutto questo è ancora amplificato. La Russia, malgrado tutto, malgrado
il caso ucraino, ha ancora bisogno dell’Europa come mercato di sbocco in un
momento in cui le quotazioni del gas stanno anch’esse scendendo. L’accordo con
la Cina dispiegherà i suoi effetti fra molti anni. È importante ricordare che
per i leader prima sovietici e poi russi le quotazioni degli idrocarburi, prima
fonte di ricchezza del Paese, sono in diretta dipendenza con le loro fortune.
Breznev godette di un grande consenso popolare nella seconda metà degli anni ‘70
quando i prezzi salirono alle stelle. La crisi di Gorbaciov e dell’Urss iniziò
nel 1986, anno in cui il greggio era sceso fino a 9 dollari. Una nuova crisi
piombò sul Paese verso la fine degli anni ‘90, culminata nel default tecnico
della Russia nel 1998, e costò l’instabilità e il declino a Eltsin. Negli
ultimi anni Putin a sua volta ha cavalcato gli alti prezzi del petrolio del gas
fino a due anni fa e ora, non a caso, sta cercando in tutti i modi di evitare
che una caduta prolungata dei prezzi si traduca in una crisi personale di
consenso all’interno della Russia, che aprirebbe nuovi scenari».
Da “Petrolio,
tutti contro tutti così la strategia saudita indebolisce Usa e Russia” di
Federico Fubini, sul quotidiano la Repubblica del 29 novembre 2014: (…). Il
regno sunnita del Golfo che da solo vale circa 12 milioni di barili al giorno
(ma ne estrae solo 9), ha deciso che il prezzo può scendere ancora: non è il
momento di chiudere i rubinetti, benché il mercato sia fin troppo liquido. Sulla
domanda di energia si sta facendo sentire la frenata dell'economia europea,
quella della Cina e la svolta americana: la rivoluzione del
"fracking", il gas e il petrolio estratti dalla roccia di scisto,
avvicina ormai gli Stati Uniti all'obiettivo dell'autosufficienza nell'energia.
(…). A spiegare la scelta saudita di lasciar cadere le quotazioni, in fondo,
non basta la certezza che le soglie di profitto per Ryadh restano comunque
elevate: produrre un barile nel deserto della penisola arabica costa appena 12
dollari. Quando in gioco è il prezzo del greggio, anche la politica entra
sempre nell'equazione. Nelle banche d'affari di Wall Street da settimane si
stanno così facendo strada anche letture legate ai rapporti dei grandi
produttori Opec con la Russia e gli Stati Uniti. Nella scelta dell'Opec di non
procedere a un taglio, alcuni vedono un favore saudita all'alleato americano
contro la Russia di Vladimir Putin. Senz'altro per Mosca la caduta del greggio
è un problema più intrattabile di quanto non sia per Ryadh, il Kuwait o per Abu
Dhabi, il più potente dei sette Emirati Arabi Uniti. Putin ha ormai bisogno di
un prezzo sopra ai cento dollari al barile per garantire la stabilità della sua
economia e del sistema finanziario. Non era così anche nel 2007, quando la
Russia è cresciuta dell'8,5% con un prezzo medio del barile ad appena 72
dollari. Già però nel 2012, con le quotazioni in media a 111 dollari,
l'economia aveva più che dimezzato la sua velocità di crociera. Pesano
senz'altro i seicento miliardi di dollari di debito estero delle grandi imprese
russe. Il crollo del rublo, il cui valore si è quasi dimezzato in pochi mesi,
aumenta in modo esponenziale il peso di quei debiti. Solo l'anno prossimo
rimborsi per 130 miliardi attendono le aziende russe, gli introiti da petrolio
non bastano a finanziare le loro scadenze e qualcuno si trova in difficoltà: il
colosso statale Rosneft da solo vale il 5% della produzione mondiale di
greggio, ma ha debiti esteri per 60 miliardi e ha appena chiesto un aiuto a
Putin per sostenerli. Non è una sorpresa. Prima di finire sotto sanzioni,
Rosneft aveva già osato investimenti ovunque, anche in Italia (nella galassia
Pirelli e in Saras). A guidarla è Igor Sechin, un ex collega di Putin al Kgb.
Ora però la scelta saudita di non far muovere l'Opec non può che aggravare le
difficoltà degli oligarchi russi e mettere il leader di Mosca sempre più con le
spalle al muro. (…).
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