Questo è un post inconsueto per questa rubrichetta
senza pretese. “Doveravatetutti”? La domanda per l’appunto, che stava bene se fatta
al passato, poiché chiedeva conto, in quel tempo andato, un passato prossimo
ancora vivo in milioni di cittadini del bel paese, chiedeva conto a quella
larghissima parte della pubblica opinione, dell’indifferenza e della colpevole
assenza verso i tentativi del sig. B. di sovvertire un ordine costituto a tutto
beneficio della sua parte. È che quando essa è nata, la rubrichetta senza
pretese intendo dire – il 14 di settembre dell’anno 2011 –, la sua ragione d’essere
stava tutta nella ventennale, continua e senza cedimenti opposizione, da parte di
una fetta consistente della cosiddetta “società civile” – società della
quale mi sento di far parte -, verso quel tentativo di snaturare il convivere
politico e sociale del Paese. Oggi questa rubrichetta senza pretese non parlerà
– come sempre - al passato ma guardando al futuro di tutti noi. Lo spunto mi è
dato dalla lettera aperta, riportata su “il Fatto Quotidiano” di oggi 29 di
luglio - “Caro Presidente, è il momento
di aprire gli occhi” -, che Sandra Bonsanti ha indirizzato al Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano. Scrive infatti Sandra Bonsanti in un passo
- che anticipo - della lettera: Un giorno i tuoi e i miei nipoti si
chiederanno: ma voi da che parte eravate? Con chi stavate? Col partito unico
renziano o con i dissidenti che chiedevano spazio e ascolto? Ecco il
punto: un “doveravatetutti” che tutt’oggi non è ancora Storia.
Poiché la fonte chiara e limpida di quella che un tempo si definiva come la “sinistra”,
ovvero la “Dialettica” intelligente e pacata, si è inaridita come per
sempre. Mi ha scritto un incauto, spericolato, “di parte” nonostante
tutto, navigatore della rete approdato su questo blog dopo la mia decisione di
sottoscrivere l’appello de’ “il Fatto Quotidiano” a tutela della Costituzione –
nel tipico idioma della terra dei Bruzi -: “Aldù, cchi c.......cunti! Scusami la
volgarità, ma quando cce vo cce vo!” (l’ortografia è tutta dell’autore
n.d.r.). Ha scritto Sandra Bonsanti…
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 29 luglio 2014
lunedì 28 luglio 2014
Cronachebarbare. 30 “Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi”.
Proviamo a dipanar la matassa. Ché,
per il dizionario Sabatini-Coletti, sta per “avvolgere in gomitolo il filo
dalla matassa”, onde averne un capo che inizio ha, ma anche “risolvere
una questione complicata”. Non è
detto che si riesca. E la “questione complicata” è la politica
del bel paese. Sono passati venti anni dalla infausta “discesa in campo”. Sappiamo
oramai quanto siano costati quei venti anni di politica gridata, di annunci
senza realizzazioni, di insulti a chi esprimesse opinioni diverse, ma bastava
pure, non esprimendo opinioni contrarie, essere individuati come appartenenti
all’altro campo. È pur vero che dalla parte avversa si registravano timide
obiezioni, un sommesso tintinnar di spade di cartone, un rullare di tamburi
muti. A quell’atteggiamento che sembrava rinunciatario allora oggigiorno vien
proprio da attribuire un significato ben diverso. Poiché chi sta ora a condurre
la cosa pubblica riproduce e rivitalizza quegli atteggiamenti fintamente osteggiati.
È qui che dipanar la matassa riesce difficile assai. Poiché nel campo che ha
prima rappresentato la cosiddetta opposizione si mettono oggi in atto gli
stessi strumenti e gli stessi comportamenti che prima, fintamente, si
detestavano. Ha scritto Marco Travaglio – “Il
guappo di cartone” – su “il Fatto quotidiano” di ieri 27 di luglio,
ricordando amorevolmente il Suo indimenticato maestro Indro Monanelli a tredici
anni dalla scomparsa: Berlusconi gli stava simpatico. Ma ciò che
subito lo allarmò, non appena nell’estate ‘93 quello gli preannunciò la sua
“discesa in campo”, fu la miscela esplosiva che sarebbe nata fra i tratti
caratteriali del suo ex editore e la voglia di padrone che alberga nella pancia
di una certa Italia. Quella che aveva fatto dire a un altro rabdomante,
Mussolini: “Come si fa a non diventare padroni in un paese di servi?”. Fra il
Duce e il Cavaliere ci fu un altro politico italiano che provò a diventare
padrone, e per un po’ ci riuscì: Craxi. Nel 1983, quando andò al governo,
Montanelli sul Giornale lo salutò così: “Come uomo di partito, Craxi ha
certamente grossi numeri. Come uomo di Stato, è tutto da scoprire… È arrogante,
un po’ guappesco e sembra avere del potere un concetto alquanto padronale…
Craxi ha una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti
coloro che non si rassegnano a fargli da servitori. Sono pochi, intendiamoci, i
politici immuni da questo vizio. Ma alcuni sanno almeno mascherarlo. Craxi è di
quelli che l’ostentano sino a esporsi all’accusa di ‘culto della personalità’…
che potrebbe procurargli guai seri. Non perché a noi italiani certi
atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché in fatto di guappi siamo diventati,
dopo Mussolini, molto più esigenti: quelli di cartone li annusiamo subito”. E
così fu: alla protervia di Craxi, che eccitava gl’intellettuali, gli italiani
preferivano il grigio e molliccio understatement dei democristiani, che
sapevano gestire il potere senza quasi farsene accorgere. Soltanto B., grazie
al fascino del denaro, del successo e delle tv, riuscì a far digerire per
vent’anni il suo guappismo molesto. Chissà cosa direbbe Montanelli oggi del suo
quasi concittadino Renzi, rara avis di democristiano che posa un po’ da Craxi e
un po’ da B. Certo, il ritratto di Bettino gli calza a pennello. Tranne forse
la profezia finale: a giudicare dalle Europee, si direbbe che ne vogliamo un
altro, di guappo di cartone. Renzi ne è convinto e ci marcia. Ma esagera.
sabato 26 luglio 2014
Storiedallitalia. 60 “Ma Renzi crede davvero in qualcosa?”.
Ha scritto Ferruccio Sansa su “il Fatto Quotidiano”
del 21 di luglio ultimo – “Ma Renzi
crede davvero in qualcosa?” -: (…). …il problema di fondo non sono queste
riforme dissennate, studiate nel weekend da ministri senza esperienza, portate
avanti a colpi di ultimatum con il sostegno di un “leader” pregiudicato. Il
punto è che Renzi non ci crede. Non ha una spinta profonda. Ideale, si diceva
una volta. Ormai sembrano essersene convinti in molti. Dopo il cinismo di
craxiani e dalemiani, dopo Berlusconi che governava per difendere se stesso e i
propri affari, ora tocca a Renzi con quella sua strabordante e nemmeno celata
ambizione. Anzi, è un tratto apprezzato del suo carattere così spiccio. Con
quella brutalità di sostanza che scambiamo per decisionismo. Addirittura per
schiettezza. Forse, però, meriterebbe porsi qualche domanda che vada oltre
Renzi (…). …quale deve essere, in chi si propone di governare, il confine
sottile tra affermazione di sé e dei propri ideali? Infine: alla leadership è
per forza connaturato un fondo di imposizione di sé? Tornano in mente le frasi
di John Kennedy: “Non chiederti quello che il tuo Paese può fare per te, ma ciò
che tu puoi fare per il tuo Paese”. (…). Impossibile entrare nel cuore di un
uomo, capire in che misura l’Io sia un mezzo per realizzare gli ideali o se non
avvenga il contrario. Il potere inquina. Anche chi ha le migliori intenzioni.
Soprattutto oggi, che i mezzi di comunicazione distorcono la percezione della
realtà, dilatano la personalità. C’è perfino il rischio che ad allontanare
dalla politica, dal necessario esercizio del potere, siano caratteristiche apprezzabili,
indispensabili dell’individuo: il senso della misura, il rispetto delle idee
altrui, la mitezza (quella forza paziente di cui parlava Norberto Bobbio),
l’umiltà. Ecco allora emergere chi pare meno provvisto di questi “limiti”. Ma
non sarà colpa anche nostra, che deleghiamo la selezione ad altri e non ci
sforziamo di individuare, di stanare, le persone migliori? Non è vero che dopo
Renzi c’è il diluvio: (…). Dopo il premier ci sono sessanta milioni di
italiani. E molti uomini straordinari.
venerdì 25 luglio 2014
Storiedallitalia. 59 “In politica le bugie funzionano, e come!”.
Ha scritto Alessandro Robecchi su “il Fatto
Quotidiano” di ieri 24 di luglio – “Le
citazioni che stanno bene su tutto, un po’ come il beige” -: “In
politica le bugie non funzionano”. È pur vero che la citazione in questione,
attribuita dalla storia politica poco commendevole del bel paese, viene
attribuita a quell’Amintore Fanfani esponente di rilievo di quella che veniva
definita, con sommo disprezzo dagli oppositori del tempo, la “balena
bianca”. A richiamare la citazione, nelle divenute poco solenni aule
parlamentari, è stato un ministro della cosiddetta “nouvelle vague”, ché di
quella cosiddetta “balena bianca” ha suzzato la linfa vitale. Sperava quel tale
ministro d’aver aperto vie inesplorate della cultura politica. Ahimè! Ben fa l’Autore
del pezzo a porsi la domanda che segue: Chissà
cosa ne pensa Matteo Renzi. Uno che tra dicembre 2013 e febbraio 2014 disse
cose come “Letta mangerà tanti panettoni”, o “Il Presidente del Consiglio per
il 2014 di chiama e si chiamerà Letta”, o “Nessuno trama contro Enrico Letta”,
o “Mai a Palazzo Chigi senza elezioni”. È strano che Matteo Renzi non abbia
letto Fanfani, e dunque dobbiamo dedurre che se l’ha letto non ne ha tenuto
conto. Possiamo perdonare invece a Fanfani di non aver visto in azione Renzi:
l’avesse fatto forse non avrebbe pronunciato quel bizzarro aforisma. (…). Ecco
un caso, uno dei tanti, su cui verificare l’affermazione di Fanfani rilanciata
dalla Boschi: “Le bugie in politica non funzionano”. (…). Che poi, a dirla
tutta, questo fatto delle bugie che in politica non funzionano fa un po’
ridere, detta da un ministro delle Riforme che si vanta davanti all’aula
dell’appoggio di Forza Italia alle sue riforme. La più grande fabbrica di bugie
mai vista in politica, insomma, dal milione di posti di lavoro all’aiutare chi
è rimasto indietro, a meno tasse per tutti, passando ovviamente per il classico
dei classici (la nipote di Mubarak), si è trovata l’altro giorno ad applaudire
una frase che smentirebbe, se fosse vera, tutta la sua storia. Dunque, a farla
breve e senza nulla togliere a Fanfani buonanima, si può dire che la frase
pronunciata con la veemenza dei missionari dalla ministra Boschi è, né più né
meno, una bugia. Di più: è una bugia in politica. E a giudicare dai commenti
benevoli dei giornali allineati e coperti che hanno lodato quel discorso, ha
funzionato. Alla grande.
martedì 22 luglio 2014
Storiedallitalia. 58 “Servi, per libera scelta”.
Questa è una storia riprovevole avvenuta nel bel
paese. Storia che ha inizio con “L’amaca” del solito graffiante e sarcastico Michele
Serra, pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 20 di luglio ultimo. Ha scritto
nell’occasione il celebre notista: Essendo Mentana uno dei più abili e
consumati giornalisti/conduttori, è da escludere che la sua idea di mettere a
confronto Travaglio e Ferrara fosse “ingenua”: e cioè ignorasse che i due si
odiano e hanno scritto, l’uno sull’altro, le più vivaci sconcezze; oppure si
augurasse che una decennale e appassionata ostilità politica e umana potesse
finalmente sciogliersi, chez Mentana, in un’argomentata discussione. Difatti i
due, ciascuno con le sue armi verbali e secondo la propria indole (Travaglio
sarcastico e sprezzante, Ferrara fuori controllo e sbraitante: gatto e cane in
una delle più efficaci trasposizioni drammaturgiche mai viste), hanno quasi
subito creato un clima ucraino, subito ritratto e amplificato dalla rete che di
questi incidenti è appassionata consumatrice. Tornando al dubbio iniziale:
poteva Mentana non sapere? Li ha invitati su incarico di qualche Alto
Commissariato umanitario, per farli finalmente riconciliare? O li ha messi
nella stessa scatola per vederli battersi come in quei cupi combattimenti clandestini
tra galli o pittbull, e in studio la gente scommetteva, cinica, su quale dei
due avrebbe dato forfait per cedimento delle coronarie (Ferrara?) o perché le
urla dell’altro lo annoiavano (Travaglio?). Lavoro difficile come pochi, il
conduttore televisivo ogni tanto si concede una comprensibile vacanza e si
affida al facile: la rissa in diretta è un format di sicuro effetto e di facile
allestimento. Come più volte partecipatovi ho disertato questa inutile
logomachia per l’amore che porto al mio essere, essendo interessato a
salvaguardare la mia salute mentale. L’illustre notista ne fa discendere i
vergognosi risultati a quella che definisce “la rissa in diretta” e
che a Suo dire rappresenta “un format di sicuro effetto e di facile
allestimento”. Convengo sull’assunto dell’illustre Autore, donde ne è
derivato il mio convincimento dell’inutilità di quelle trasmissioni sul piccolo
schermo. Oso però dissentire in parte dall’illustre Autore. Me ne offre la
sponda lo scrittore Luca Canali che nel Suo romanzato “Diario segreto di Giulio Cesare”, a proposito della litigiosità
degli abitatori del bel paese, antichi o moderni, ha scritto:
lunedì 21 luglio 2014
Strettamentepersonale. 14 “Cara Franca ti scrivo…”.
Carissima Franca, ho deciso questa volta di darti
una risposta che sia pubblica. In altre occasioni ho voluto mantenere i nostri
contatti “epistolari” – è ancor
giusto così definirli nell’era dell’e -mail? – in quella forma privata che prediligo.
È che mi sta molto a cuore la Tua amicizia, la Tua sconfinata cortesia e,
perché no, la Tua sempre puntuale attenzione per le cose che vado maldestramente
scribacchiando. Ma il momento per il Paese che amiamo torna ad essere dei più
tesi e preoccupanti. Lo hai ben stigmatizzato nel commento al post di ieri 20
di luglio. Hai tu scritto: “Caro Ettore, sono vecchia e ho visto
nascere la Costituzione. Ora sto assistendo alla sua agonia. Che possiamo fare?
Un abbraccio”. Capisco la Tua angoscia, capisco il timore che ti
invade. È che simili Tue “preoccupazioni” sono la misura di
quella Tua sensibilità di “cittadinanza” che ha una diffusione
molto, ma molto limitata. Fa, quel Tuo sentire, onore grande a quella valorosa
insegnante che Tu sei stata ed a quella sensibile scrittrice che ho avuto il
privilegio di conoscere ed apprezzare (ricordi di quella Tua pubblicazione della
quale mi hai fatto dono alla nascita del mio nipotino Riccardo?). Ma le Tue preoccupazioni
sono le mie preoccupazioni, ma sono anche le preoccupazioni di quei 100.000 (fino
a ieri) lettori-sottoscrittori dell’appello de “il Fatto Quotidiano” che richiama all’attenzione ed alla mobilitazione
in difesa della nostra Costituzione. Io non ho visto nascere la Carta del
nostro Paese, per una ragione prettamente anagrafica. Entrava la Carta in
vigore (1° di gennaio dell’anno 1948) ed io mi apprestavo alla dentizione da
latte. Ma quella Carta è come se fosse stata scritta per me. Oggi ci risiamo. La
Carta sta stretta ai tanti. Nell’indifferenza dei più. Ha scritto ieri,
domenica 20 di luglio, Eugenio Scalfari sul quotidiano la Repubblica – “La sentenza forse è giusta ma disonora il
Paese” -:
domenica 20 luglio 2014
Storiedallitalia. 57 “Assolto in appello!!!!! In che mondo viviamo?”.
Scrive la giovane, cara, anzi carissima Manuela Perdichizzi in una Sua pagina su Facebook:
“ASSOLTO
in appello!!!!! In che mondo viviamo?”. Comprendo il Suo disappunto, ma
non comprendo la Sua meraviglia. L’abbondanza degli esclamativi ne evidenzia la
misura. Ma con la meraviglia non si fa la Storia. Poiché la sentenza del 17 di
luglio trova una spiegazione che non fa una grinza. Tutto era stato preparato. Con
accortezza certosina. È che le cose non avvengono per un destino che un tempo
solevasi definire “cinico e baro”. La Storia ci insegna che le azioni degli
esseri umani traggono la loro forza dalla appartenenza a quegli aggregati che
un tempo la passatista sociologia definiva “classi”. E già, le “classi”
sociali. Ritenute morte e sepolte. Con buona pace degli ingenui. Poiché anche
il legiferare trova significato nell’appartenere ad una o ad un’altra di quelle
“classi”.
Anzi di più: quelle “classi” d’appartenenza esprimono quegli uomini al governo
affinché legiferino in sintonia ed in previsione di un futuro utilizzo della
legislazione più conveniente. È da tempo che vado sostenendo della incongruenza
di quella epigrafe – intesa come iscrizione su pietra, terracotta o altro
supporto diverso dai normali materiali degli scrittori - issata nelle aule dei
nostri tribunali per la quale “La giustizia è uguale per tutti”. Una
beffa! Tutto era scritto e tutto si è svolto secondo gli auspici. Torniamo al
dunque. Ha scritto Marco Travaglio – “Innocente
a sua insaputa” – su “il Fatto Quotidiano” del 19 di luglio, all’indomani
dello scontato pronunciamento di quella Corte d’Appello:
martedì 15 luglio 2014
Sfogliature. 28 “E se Marx avesse sbagliato solo per difetto?”
Ha scritto oggi Michele Serra sul
quotidiano la Repubblica: L’aumento della “povertà assoluta”, che
ormai affligge un italiano ogni dieci, conferma che la società di mercato
questa volta non sembra più in grado di rigenerare ciò che ha perduto, come fa
la lucertola con la sua coda. Chiunque rifletta sulle nuove penurie, sui buchi
lasciati nel tessuto sociale dal salto d’epoca delle tecnologie (…), si domanda
quando, e quanto, gli esclusi si metteranno in moto per presentare il conto, e
reclamare la fine della propria sfortuna; se lo faranno a gruppi sparsi,
secondo i modi della “società liquida”, o riusciranno a quagliare in qualche
maniera fino a farsi “classe”; se prevarranno forme di resilienza, un
intelligente adattarsi e risocializzare i costi; o di rabbia e di antagonismo,
tipo “riprendiamoci quello che ci serve”; se la storia prevede ancora
rivoluzioni strutturali, nel senso detto da Marx, o solamente redistribuzioni
anche traumatiche, anche cruente, ma non tali da rovesciare l’assetto della
convivenza. Una sola cosa, secondo logica, ci sembra impossibile: che niente
accada, e ognuno accetti il proprio destino senza fiatare. E a ben pensarci,
più di una rivoluzione o di rivolte sparse e assortite, fa paura l’idea di una
muta, infinita depressione che assecondi un infinito declino. Straordinari
pensieri anche se un tantino in ritardo. Scrivevo il 7 di ottobre dell’anno
2011 un post nel quale, nel suo incipit, giustappunto ritrovo il Michele Serra
di oggi che mi piace tanto.
domenica 13 luglio 2014
Doveravatetutti. 12 “Non meritiamo di essere salvati”.
“Doveravatetutti” allorquando
Massimo Fini scriveva su “il Fatto Quotidiano” del 5 di novembre dell’anno 2011
– “Non meritiamo di essere salvati”
-: Berlusconi
con le sue promesse e i suoi bluff è riuscito a ingannare gli italiani per 17
anni pur non avendo fatto, (…) nulla di notevole. E per 17 anni gli è andata
bene. Adesso, in una situazione di crisi economica drammatica, ha cercato, con
la sua ridicola “lettera di intenti”, di ripetere il giochetto con gli europei
sperando di farla franca anche con loro. Ma i fatti, in questo caso i mercati,
gli han dato la risposta brutale che si meritava e con lui l’Italia che gli ha
creduto e anche quella che non gli ha creduto, ma non è stata capace di
fermarlo. Berlusconi però non è che la ciliegiona marcia su una torta marcia.
Nella crisi attuale, che è planetaria ed è dovuta alla cocciuta cecità delle
leadership mondiali che si ostinano a inseguire il mito della crescita quando
crescere non si può più, la particolare debolezza dell’Italia è data, com’è
noto, dall’enorme debito pubblico. Questo debito è stato accumulato soprattutto
negli Ottanta, gli anni della “Milano da bere” (per la verità bevevano solo i
socialisti), della triade dei santi e martiri Craxi-Andreotti-Forlani quando,
per motivi clientelari, di conquista del consenso si elargivano a pioggia
pensioni di vecchiaia fasulle, pensioni di invalidità false, pensioni baby,
pensioni d’oro. Inoltre dalla metà degli anni Settanta c’è stata la cassa
integrazione a tempo indeterminato, che è la forma che l’assistenzialismo ha
assunto al Nord. Quando il mercato tirava l’imprenditore si gonfiava di operai,
quando si restringeva li metteva in cassa integrazione, accollandoli alla
collettività. Si chiamava “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle
perdite”. (…). Giuliano Cazzola ha calcolato che la prima Tangentopoli ci è
costata 630 mila miliardi di vecchie lire, circa un quarto del debito pubblico.
E il calcolo si basa solo sulle sentenze arrivate a giudizio definitivo che
rappresentano, come per ogni reato, un decimo degli illeciti commessi. Poteva
essere una lezione salutare. E invece nel giro di pochi anni abbiamo visto i
giudici diventare veri colpevoli e i ladri le vittime, giudici dei loro
giudici. E tutto è continuato peggio di prima. Può un Paese del genere salvarsi?
Può darsi. Vi sembra che le cose da quel tempo, che appare remoto assai,
abbiano “cambiato verso” per come cicaleccia l’arrembante primo
ministro?
sabato 12 luglio 2014
Quellichelasinistra. 5 “Quelli che dicono che la sinistra è morta”.
“Quellichelasinistra” che dicono che
la sinistra “è morta”. “Quellichelasinistra”
che provano a spiegarne il motivo del decesso e non lo trovano. “Quellichelasinistra”
che non trovano di meglio che alla domanda dell’intervistatore “Le
feste a cui partecipava col sorriso comunista, i capitalisti che frequentava, e
quella comunione con volti particolarmente aderenti all’opposto vagheggiato. Un
ossimoro più che un compagno” provano a rispondere in questi termini: - Pensavo
che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, il mio lavoro di
operaio, le lotte a cui ho partecipato potessero immunizzarmi. Ero così tanto
distante da quel mondo e ritenevo che nessuno potesse trafugare il mio volto e
cambiargli colore -. Così Fausto Bertinotti risponde ad Antonello
Caporale su “il Fatto Quotidiano” del 10 di luglio - “Le feste mi hanno rovinato, la sinistra ora ha 5 stelle” -. Ora mi
va di divagare. Ma so già del vostro sorriso sornione, che vedo dipinto sui
volti dei più, del vostro sottile sarcasmo per quanto mi sento di pensare e di
scrivere. È che ritenendomi ingenuamente appartenere a “quellichelasinistra” ho
sempre posto ai primissimi posti una disposizione dell’animo che un tempo
veniva definita della “solidarietà”. Non voglio sollecitare
ed accendere il vostro sorriso maligno né tanto meno il vostro sarcasmo che più
sarcasmo non si può ma tantissimi anni addietro, avendo acquistato un’auto
proveniente da quelli che al tempo erano denominati i paesi dell’est, ovvero
del cosiddetto “socialismo reale”, ai commenti poco cortesi dei conoscenti ed
amici rispondevo che intendevo in tal modo aiutare i “compagni cecoslovacchi”.
Ed l’immancabile sorriso beffardo dei miei
interlocutori spuntava puntuale su quelle labbra che avevano dianzi criticato
la mia scelta d’acquisto. Bene. Al tempo della “grande crisi”, tuttora
imperante, altri gesti della cosiddetta “solidarietà” mi è parso di compiere
acquistando lo jogurt dai “compagni greci” o le comodissime
scarpe dai “compagni spagnoli”, greci e spagnoli i primi a cadere sotto i
colpi del dissesto finanziario che è stato all’origine della “grande
crisi”. Ho sempre creduto che per “quellichelasinistra” siffatti
gesti, seppur simbolici, facessero parte di quella naturale condizione dello
spirito di “quellichelasinistra” per l’appunto. Ovvero, di vivere o di
rivivere di quello che al tempo si definiva il “solidarismo internazionale”,
cancellato dagli effetti nefasti della globalizzazione che al contrario tende a
mettere a confronto, in una gara selvaggia e senza senso, gli uomini dei vari
paesi per abbassare sempre di più l’asticella delle loro speranze e delle loro
conquiste sociali ed economiche. Sostiene nell’intervista il Bertinotti Fausto:
- Ho
le mie responsabilità e ne sopporto il peso. Parlo da vinto, da commentatore,
da chi ha consumato il suo impegno politico. Mica ho da domandare -.
martedì 8 luglio 2014
Cosecosì. 86 “Il pubblico dell’impostore”.
E poi, nel breve saggio della psicoterapeuta Clotilde
Buraggi, c’è l’altra parte della medaglia come suol dirsi. Nello specifico,
quel comprimario che nella commedia dell’arte non manca mai e che, facendo da
spalla alla figura principale, viene da essa redarguito con un sonoro “vieni
avanti cretino”. Ché nella rappresentazione delle vicende del bel paese
un ruolo non secondario svolge quella figura che l’illustre studiosa definisce “il
pubblico dell’impostore”, per l’appunto. Ché senza questo pubblico particolarissimo
anche la figura principale ne uscirebbe ridotta assai. Anzi è da dire che la
figura dell’”impostore” trae la sua forza maggiore dalla perfetta simbiosi
con quel che si definisce “pubblico”. Scrive l’illustre studiosa:
lunedì 7 luglio 2014
Cosecosì. 85 “Chi è l’Impostore?”.
“Chi è l’Impostore” si chiedeva Clotilde
Buraggi, psicoterapeuta, all’inizio della campagna elettorale dell’anno 2001, figura
molto diffusa fra il personale politico del bel paese che ha fatto scadere la
politica gettando i cittadini nell’assoluto sconforto? “Chi è l’Impostore”, che
al tempo nel quale il breve saggio fu scritto – “L’impostore e il suo pubblico: un rapporto perverso” - aveva “in
analisi” ben altro personaggio della politica, personaggio privato oggigiorno
dei diritti politici per una grave condanna per frode fiscale? Il “chi
è l’Impostore” al tempo d’oggi è domanda assillante e che cerca lumi e
risposte che possono arrivare solamente dalle menti scientifiche e dai cultori
delle dottrine psicoanalitiche. Dai cosiddetti “professoroni”, così
tanto in antipatia agli arrembanti reggitori della cosa pubblica. Allora…
sabato 5 luglio 2014
Cosecosì. 84 “La missione di Telemaco”.
"A fianco: Telemaco e Calipso".
Rubo l’incipit di un pensiero del bravissimo Gianni
Mura che si può sempre leggere a pie’ di pagina di questo blog: “mettiamola
così”. “Mettiamola così”, ma dal Renzi Matteo non mi è mai pervenuto
un refolo di simpatia. Non so per voi. È che il suo parlare, o sproloquiare, continua
nello stesso verso del ventennio tenebroso che siamo stati chiamati a subire. È
che il suo irridente idioma fatto di “professoroni”, “rosiconi” e facezie
varie mi rimanda a quella benemerita pubblicazione che è “Il Vernacoliere” che, come riportato in testata, è un “Mensile
di satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano”.
Ecco, avrei pensato ad un Renzi Matteo molto ben inserito in quella redazione
gloriosa. Ché del resto condivide, con l’arrembante primo ministro, la
regionalità. È chiaro che il Renzi Matteo debba necessariamente affidarsi ad
una squadra di “ghostwriter”, lautamente ricompensati, affinché il suo parlare
si ammanti di una conoscenza profonda che suppongo non gli appartenga. Ma come
quel cavaliere che lo ha preceduto nel ventennio decorso utilizza linguaggi ed
atteggiamenti che non hanno nulla con quel “cambiamento di verso” che vanagloriosamente
ed impudentemente assicura di aver impresso al bel paese. Poiché al bel paese
un Renzi Matteo che mandi cultura e garbo a quel paese è figura sempre ben
accolta.
giovedì 3 luglio 2014
Sfogliature. 27 “Il treno del sole”.
Non c’è più il treno del sole.
TreniItalia, da qualche giorno, l’ha soppresso. Passa oramai alla storia il
primo collegamento continuo dal Sud al Nord. Erano gli anni ’50 del secolo
scorso, e le ferrovie dello Stato inventarono il treno del sole. Fu una
necessità per soddisfare “meglio” il viaggio dalla Sicilia all’ambito Nord. Il
treno era soprattutto utilizzato dagli emigranti. Voglio ricordare che gli anni
’50, ’60 e parte dei ’70, hanno registrato il grande boom dell’emigrazione
interna. Dalla Sicilia, Calabria, Lucania, Campania a migliaia scappavano dalla
miseria e povertà del Sud. Interi nuclei familiari salivano sul treno del sole
per raggiungere Torino, Milano Genova o altre destinazioni del Nord. Erano in
gran parte braccianti e contadini, molti analfabeti o semianalfabeti, che
disperati ma con tanta speranza cercavano un futuro. Scappavano dalla fame e
dalle profonde ingiustizie sociali. Scappavano salendo sul treno del sole, laceri
e con null’altro che le braccia e la valigia di cartone. I bambini dal viso
tenero, sparuto, preoccupato, stavano in braccio alle mamme, che erano, quando
si trovava posto, sedute su i sedili di legno (terza classe). Partiva la gente
del Sud, con il pianto, non solo nel cuore, ma sul viso. Andava verso quell’avvenire
che la loro terra non gli aveva dato. Il treno del sole rappresentava la corsa
verso la vita. Una corsa che durava, quando andava bene, circa ventisei ore. Il
treno partiva da Siracusa per un viaggio pieno di sofferenze e disagi. Il treno
del sole degli anni 50/60 era in sostanza privo di ogni confort. Si saliva “all’arrembaggio”,
e conquistare un posto era difficile, molto difficile. In tanti, per tutto il
tempo del viaggio, restavano in piedi o buttati a terra. Ma il treno del sole
era il mezzo di fuga dalla non vita. Ma quella non vita che si lasciava erano,
però, gli affetti, i luoghi vissuti, gli amici. Il treno del sole, che ora non
c’è più, è, in ogni caso, parte importante della storia del Sud. In quelle
carrozze la sofferenza umana si materializzava e solidarizzava, ma si concretava
anche una speranza. È stato per tanti anni una “tradotta” che portava al lavoro,
al pane. Ma gli emigranti, i “terroni”, anche attraverso quel treno hanno tenuto
un legame profondo con le proprie radici, che si materializzava soprattutto a
Natale e ad Agosto; periodi in cui si tornava al Paese per rincontrare i nonni,
i genitori, la sposa, gli amici. Un’altra
occasione per la quale gli emigrati salivano sul treno del sole; era per venire
a votare. Non ricordo bene in quale occasione elettorale, certamente negli anni
’70, andammo a ricevere alla stazione di Sant’Eufemia, oggi Lamezia Terme, di
sera gli emigrati che scendevano sul treno del sole per votare. Dai finestrini
dei vagoni stracarichi sventolavano le bandiere rosse e forti erano i canti
degli inni della sinistra. Noi dirigenti e militanti del Partito Comunista
eravamo lì con un grande striscione sul quale avevamo scritto, “Torna per
votare e vota per tornare”. (…). Addio treno del Sole. Avete appena letto
la testimonianza che l’amico carissimo Sabatino Nicola Ventura, Consigliere
Comunale di Catanzaro e Presidente dell’Associazione “Pensiero Contemporaneo”, mi ha fatto
pervenire e che con grande piacere ho posto a prologo di questa “sfogliatura”.
Il venerdì 15 di aprile dell’anno 2005 postavo su questo blog un mio racconto
breve, “L’emigrante”, la stesura del
quale risale all’anno 1967. Lo ripropongo di seguito.
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