E poi c’è quella straordinaria idea
della “quasità”. Un’invenzione che non ha pari. Roba da genio. L’ho
incontrata, la “quasità” di Francesco Merlo, leggendo il Suo straordinario
“pezzo” sul quotidiano la Repubblica dell’8 di agosto. Una folgorazione
linguistica. Titolo del pezzo “Pedoni”.
Ma è stata la “quasità” a catturare la mia mente. Nulla può rappresentare al
meglio lo stato di un paese e di un popolo che quel lemma, che è un dono della
scrittura di Francesco Merlo. Da rimanerne conquistati. In quella “quasità”
c’è l’italica concezione della vita, della politica e di tutto ciò che afferisce
alla vita collettiva del bel paese. È come dire che un popolo è quasi ricco ma
anche quasi povero. È, quel popolo, quasi felice ma anche quasi triste. È dire
che quel popolo è fatto di quasi cittadini ma anche di quasi servi. La “quasità”
è dire tutto ed il contrario di tutto. Scrive infatti Francesco Merlo: (…).
…la quasità come destino dell’Italia, quasi potenza, quasi industriale, quasi
bella, quasi moderna, quasi vincente come il Pd. E dunque, come il famoso
‘quasi gol’ di Nicolò Carosio, c’è anche il ‘quasi pedone’. Ed è a
questo punto che la scrittura di Francesco Merlo, che ha quasi del musicale
nella sua tessitura, affronta l’argomento del pezzo. I “pedoni”, per l’appunto.
Ne scrive in questi termini: Il pedone è il passante abituale, è don
Abbondio che “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa”. Il pedone è
Manzoni a passeggio per Milano con Vincenzo Cuoco: “adescati dalla dolcezza dei
colloqui, il Cuoco si fermava lungamente alla porta di lui, ed esso lo
riaccompagnava a casa sua, e il Cuoco daccapo gli teneva dietro per
riaccompagnarlo a sua volta”. Il pedone è Kant che voleva “respirare solo con
le narici e criticare, passeggiando solitario, la ragion pura”. Il pedone è la
filosofia dei peripatetici greci, il pedone è la civiltà occidentale. Nella
“quasità”
del bel paese anche la dolce arte del camminare è andata perduta. La gente non
cammina più. Corre. O, se non corre, percorre gli spazi come in preda ad una
ossessionante fretta. In città come al mare. Ovunque. Sono solito rispondere, a
coloro che mi consigliano d’affrettare il mio passo, d’essere impegnato in una
passeggiata. Preciso, una “passeggiata zen”. Riesco così a rubare un sorrisetto
al mio interlocutore. Ne sarà rimasto felicemente sorpreso? O piuttosto mi
compatirà? Non m’importa. Poiché il camminare è esercizio che coinvolge tutto
l’essere che lo compie. Trovo pertanto incomprensibili coloro che, intenzionati
ad essere pedoni, si tappano le orecchie con modernissimi strumenti d’ascolto.
Cosa ascolteranno? Musica? O la cacofonia dei programmi radio? Specialmente nel
periodo estivo che rappresenterebbe la vacanza anche del pensiero? E così
staccano una parte del loro corpo, quella superiore per intenderci, ché
dovrebbe essere anche la più nobile, da tutto il resto, cuore, polmoni,
muscoli, rompendo un’unità ed un’armonia che andrebbe invece salvaguardata. Per
non dire della barriera che così interpongono con l’ambiente esterno? Con la
musica “sparata” nelle orecchie, riusciranno ad ascoltare il sibilo dell’aria appena
“solcata” che diviene tenue venticello? Ascolteranno la musica emessa dal
frangersi delle onde del mare, per non dire poi, “pedonando” – mi si lasci
passare il neologismo – in un bosco, lo stormire delle foglie o il dolcissimo
canto degli abitatori di quei luoghi? È che, nella grande bruttezza dei tempi,
sarebbe stato impensabile che si salvasse l’umile arte del camminare. Sostiene
Francesco Merlo: E invece il pedone, che si perde e si ritrova nel colore di un mattone
o di una soglia, sacerdote delle petites rues che abita come una casa,
detective della strada raffinata o capricciosa o morbosa, il flaneur insomma è
l’utopia necessaria e urgente delle estenuate città storiche in cerca di un
nuovo Rinascimento: “io prendo Venezia a timone” diceva Le Corbusier che già
sognava di separare macchine e pedoni. Come l’Umanesimo, creando spazi e
pavimenti e piazze, portò fuori dalle anguste vie tortuose dei secoli bui
Firenze, Anversa e le città anseatiche, Norimberga, Siviglia…e, nel piccolo,
Pienza e Montepulciano, così oggi solo le metropoli che liberano i luoghi della
storia dal nuovo Medioevo delle macchine possono vincere la scommessa con la
sopravvivenza. Manca la consapevolezza che soltanto ritornando alla
“passeggiata zen”, durante la quale si ascolta il proprio corpo ed il proprio
animo e tutto quanto il creato ha messo attorno a noi, si potrà invertire il
corso del “nuovo Medioevo delle macchine” e
carezzare, in pari tempo, una speranza di “sopravvivenza”. “Il pedone è la civiltà
occidentale”. A saperlo. Tutto il resto è nella “quasità” di questo
triste paese.
Ciao, Ettore.Le mie gambe non sono più funzionanti per cui non solo non posso correre ma nemmeno fare una passeggiata zen.Posso uscire soltanto su una banale carrozzella. Ma ascolto molta musica e il cuore respira. Buon ferragosto. Franca.
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