Faccio un giro largo – e
possibilmente basso - per proporre la lettura di un pezzo forte che ha per
titolo – chilometrico - “Solo frutta per
ricchi o low cost così anche i banchi del mercato raccontano la fine del ceto
medio”. Ché, detta così, è quanto di meglio si possa pensare e dire
sull’appiattimento sociale che nei decenni passati aveva illuso i più.
Scomparsa delle classi sociali, tutti a banchettare allegramente. Mi aiuta a
fare quel giro largo – e non sempre basso - Giorgio Agamben con quella Sua
riflessione postata sul sito “Lo straniero” del 29
di aprile 2013. Titolo di quella riflessione “Benjamin e il capitalismo”. Scriveva Giorgio Agamben: Una
società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è
condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo
finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi
proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i
principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre
maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della
fine. (…). Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio
indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una
parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di
gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… (…). Nel corso del
XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il
capitale aziendale fa oggi ricorso in
misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario.
Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così
dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della
produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente
del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di
Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto.
Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito
(o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato atto di
fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli
l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito. Sin
qui Giorgio Agamben. È un volare alto il Suo. Dottrinale. Che coglie nel
profondo le ragioni e l’essenza delle cose che muovono l’economia degli umani.
Ben diverso è l’approccio di Federico Fubini che sul quotidiano la Repubblica
di oggi - 18 di agosto - ha esplorato molto elementarmente – ma competentemente
– le questioni dell’economia
globalizzata. Protagonista della Sua scrittura un Nobel dell’economia, Milton
Friedman. Il “pezzo” di Federico Fubini ha il pregio raro della semplicità e
della facile comunicazione anche dei problemi più complessi. Da tempo ne
apprezzo la competenza e lo stile. Scrive Federico Fubini: (…). …Friedman pensava che l’uomo
è un animale razionale, le cui scelte economiche sono dettate da un innato
talento nel perseguire il proprio interesse. Per questo — sosteneva — un
mercato lasciato a se stesso può rasentare la perfezione: un prezzo è sempre
“giusto”, una sintesi di domanda, offerta e di tutte le informazioni che le
influenzano. Poi però magari Friedman avrebbe dovuto comprare un chilo di
carote al mercato di via San Marco a Milano, un lunedì mattina. È in zona
Brera, l’area più ricca della capitale finanziaria e commerciale d’Italia. E lì
le carote vengono 2,90 euro al chilo. Invece quattro fermate di metropolitana
più in là in viale Papiniano — un quartiere del ceto medio — il prezzo delle
carote al mercato rionale crolla a 99 centesimi al chilo. In cinque minuti
trascorsi sui mezzi pubblici, un viaggio sulla linea verde del metrò dai ceti
abbienti alle classi medie di Milano, la quotazione collassa di due terzi. Si
può tentare poi anche un terzo viaggio: sempre partendo dal centro, fermata Turati
non lontano da San Marco, si percorre un tragitto di nove fermate e undici
minuti di metrò lungo la linea gialla fino al mercato di Corvetto, un quartiere
decisamente meno benestante. Lì le carote si trovano a 65 centesimi al chilo. In
sintesi, dall’apice fino alla metà della scala sociale dell’ortofrutta c’è un
brusco precipizio, seguito da un graduale declino dalla metà in giù. La carota
del ceto abbiente costa circa il triplo di quella del ceto medio; invece la
carota del ceto medio costa mezza volta più di quella delle classi che un tempo
si definivano, pudicamente, popolari. E qui all’analisi competente di
Federico Fubini subentra la cronaca che l’Autore coscienziosamente riporta: «La
frutta discreta non si vende più: i prezzi sono alti oppure popolari», osserva
Salvatore Esposito, un ambulante di 34 anni che il lunedì tiene il banco in San
Marco e il martedì in Corvetto. (…). «In centro in questi anni i prezzi hanno
tenuto — constata —. È nei mercati di periferia che sono scesi». Dunque Friedman
ha ragione, e la deflazione a macchia di leopardo nei rioni di Milano è davvero
“razionale”? (…). …gli economisti non fanno mancare una teoria per spiegare le
discrepanze in apparenza inconciliabili; di recente l’ha esposta il
neo-governatore della National Bank of India, Raghuram Rajan: un prezzo alto
funziona non solo perché risponde alla domanda, ma perché racconta qualcosa di
te. Se spendi molto quando potresti spendere meno, stai dicendo al mondo che
sei ricco e quello che compri è il prodotto migliore. Un grande banchiere comprerà
un prezioso orologio meccanico fatto a mano, anche se magari non segna l’ora
più esattamente di un modello al quarzo da venti euro. E un investitore che si
muove con il gregge punta su un titolo azionario sopravvalutato dopo mesi di
rialzi, non su uno ai minimi. Se quel che è vero in Borsa resta vero fra i
banchi ortofrutticoli, le differenze di prezzo lavorano sottilmente la mente
delle signore abbronzate e ingioiellate che passeggiano fra i banchi di San Marco.
Diffiderebbero delle stesse carote, se costassero la metà. Questo forse spiega
perché dopo due anni di recessione italiana la gran parte dei clienti di Brera
continuino a evitare quei cinque minuti di metrò fino a Papiniano che
permetterebbero loro di spendere meno della metà. Se il mercato ha sempre
ragione e i suoi attori agiscono razionalmente, alla Friedman, allora non
prendono il metrò perché inconsciamente hanno fatto i conti fra costi e
opportunità: stimano che nel tempo necessario per il tragitto perdono l’occasione
di guadagnare più di quanto risparmierebbero comprando la frutta a Papiniano.
Ma forse il mercato è fallibile, può prendere abbagli come gli uomini che lo
animano. È la teoria di Roman Frydman, un economista della New York University.
Le persone usano il loro denaro con “conoscenza imperfetta”, senza avere tutte
le informazioni rilevanti per prendere le migliori decisioni. Non siamo robot.
Così è fallita Lehman Brothers e così le famiglie ricche del centro di Milano
pagano le carote il triplo anche se non sono tre volte migliori. Semplicemente,
non hanno capito che a cinque minuti di metrò più in là pagherebbero meno.
Detto altrimenti, i diversi ceti di Milano non si accorgono gli uni degli altri
mentre vivono negli stessi spazi. Interessante vero? È che chi continua
a comprare in quel di San Marco a Milano della “crisi” se ne fa un
baffo. È il caso di dire, avendo parlato diffusamente d’ortofrutta, che quella
gente lì non è “alla frutta”. Lo è, ma non solamente “alla frutta”, tutto il
resto della popolazione che ha visto sgonfiarsi, come d’incanto, il ventre
molle e ben pasciuto negli anni passati
del “ceto
medio”. Scomparso, giunto oramai all’economico piatto di maccheroni.
Come al tempo della guerra. Perché mai quell’iniziale, vizioso giro lungo? Per dire
che un tempo anche quelli del “ceto medio” e dintorni sono stati “religiosamente
impegnati in questo continuo e
generalizzato atto di fede sul futuro”. Quale “atto di fede”? “Il
credito-debito”, con buona pace del futuro dei figli e delle
generazioni a venire. E la sapienza del mercato e dei suoi attori? Nella cronaca
che chiude il “pezzo forte” di Federico Fubini – Autore da leggere sempre con
attenzione - si parla dei sempre più numerosi signori e delle sempre più
numerose signore della Milano bene che al termine del mercatino rionale
dell’ortofrutta accorrono a rovistare tra le rimanenze se non addirittura tra
gli scarti di giornata. Non dovrebbe rappresentare tutto ciò la fine del
capitalismo finanziario che ha governato le nostre vite? Che ha depredato il
futuro dei nostri figli?
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