"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 18 agosto 2013

Capitalismoedemocrazia. 37 Milton Friedman ed il mercato dell’ortofrutta.



Faccio un giro largo – e possibilmente basso - per proporre la lettura di un pezzo forte che ha per titolo – chilometrico - “Solo frutta per ricchi o low cost così anche i banchi del mercato raccontano la fine del ceto medio”. Ché, detta così, è quanto di meglio si possa pensare e dire sull’appiattimento sociale che nei decenni passati aveva illuso i più. Scomparsa delle classi sociali, tutti a banchettare allegramente. Mi aiuta a fare quel giro largo – e non sempre basso - Giorgio Agamben con quella Sua riflessione postata sul sito “Lo straniero” del 29 di aprile 2013. Titolo di quella riflessione “Benjamin e il capitalismo”. Scriveva Giorgio Agamben: Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la  trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della fine. (…). Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… (…). Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi  ricorso in misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati  in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito. Sin qui Giorgio Agamben. È un volare alto il Suo. Dottrinale. Che coglie nel profondo le ragioni e l’essenza delle cose che muovono l’economia degli umani. Ben diverso è l’approccio di Federico Fubini che sul quotidiano la Repubblica di oggi - 18 di agosto - ha esplorato molto elementarmente – ma competentemente – le questioni  dell’economia globalizzata. Protagonista della Sua scrittura un Nobel dell’economia, Milton Friedman. Il “pezzo” di Federico Fubini ha il pregio raro della semplicità e della facile comunicazione anche dei problemi più complessi. Da tempo ne apprezzo la competenza e lo stile. Scrive Federico Fubini: (…). …Friedman pensava che l’uomo è un animale razionale, le cui scelte economiche sono dettate da un innato talento nel perseguire il proprio interesse. Per questo — sosteneva — un mercato lasciato a se stesso può rasentare la perfezione: un prezzo è sempre “giusto”, una sintesi di domanda, offerta e di tutte le informazioni che le influenzano. Poi però magari Friedman avrebbe dovuto comprare un chilo di carote al mercato di via San Marco a Milano, un lunedì mattina. È in zona Brera, l’area più ricca della capitale finanziaria e commerciale d’Italia. E lì le carote vengono 2,90 euro al chilo. Invece quattro fermate di metropolitana più in là in viale Papiniano — un quartiere del ceto medio — il prezzo delle carote al mercato rionale crolla a 99 centesimi al chilo. In cinque minuti trascorsi sui mezzi pubblici, un viaggio sulla linea verde del metrò dai ceti abbienti alle classi medie di Milano, la quotazione collassa di due terzi. Si può tentare poi anche un terzo viaggio: sempre partendo dal centro, fermata Turati non lontano da San Marco, si percorre un tragitto di nove fermate e undici minuti di metrò lungo la linea gialla fino al mercato di Corvetto, un quartiere decisamente meno benestante. Lì le carote si trovano a 65 centesimi al chilo. In sintesi, dall’apice fino alla metà della scala sociale dell’ortofrutta c’è un brusco precipizio, seguito da un graduale declino dalla metà in giù. La carota del ceto abbiente costa circa il triplo di quella del ceto medio; invece la carota del ceto medio costa mezza volta più di quella delle classi che un tempo si definivano, pudicamente, popolari. E qui all’analisi competente di Federico Fubini subentra la cronaca che l’Autore coscienziosamente riporta: «La frutta discreta non si vende più: i prezzi sono alti oppure popolari», osserva Salvatore Esposito, un ambulante di 34 anni che il lunedì tiene il banco in San Marco e il martedì in Corvetto. (…). «In centro in questi anni i prezzi hanno tenuto — constata —. È nei mercati di periferia che sono scesi». Dunque Friedman ha ragione, e la deflazione a macchia di leopardo nei rioni di Milano è davvero “razionale”? (…). …gli economisti non fanno mancare una teoria per spiegare le discrepanze in apparenza inconciliabili; di recente l’ha esposta il neo-governatore della National Bank of India, Raghuram Rajan: un prezzo alto funziona non solo perché risponde alla domanda, ma perché racconta qualcosa di te. Se spendi molto quando potresti spendere meno, stai dicendo al mondo che sei ricco e quello che compri è il prodotto migliore. Un grande banchiere comprerà un prezioso orologio meccanico fatto a mano, anche se magari non segna l’ora più esattamente di un modello al quarzo da venti euro. E un investitore che si muove con il gregge punta su un titolo azionario sopravvalutato dopo mesi di rialzi, non su uno ai minimi. Se quel che è vero in Borsa resta vero fra i banchi ortofrutticoli, le differenze di prezzo lavorano sottilmente la mente delle signore abbronzate e ingioiellate che passeggiano fra i banchi di San Marco. Diffiderebbero delle stesse carote, se costassero la metà. Questo forse spiega perché dopo due anni di recessione italiana la gran parte dei clienti di Brera continuino a evitare quei cinque minuti di metrò fino a Papiniano che permetterebbero loro di spendere meno della metà. Se il mercato ha sempre ragione e i suoi attori agiscono razionalmente, alla Friedman, allora non prendono il metrò perché inconsciamente hanno fatto i conti fra costi e opportunità: stimano che nel tempo necessario per il tragitto perdono l’occasione di guadagnare più di quanto risparmierebbero comprando la frutta a Papiniano. Ma forse il mercato è fallibile, può prendere abbagli come gli uomini che lo animano. È la teoria di Roman Frydman, un economista della New York University. Le persone usano il loro denaro con “conoscenza imperfetta”, senza avere tutte le informazioni rilevanti per prendere le migliori decisioni. Non siamo robot. Così è fallita Lehman Brothers e così le famiglie ricche del centro di Milano pagano le carote il triplo anche se non sono tre volte migliori. Semplicemente, non hanno capito che a cinque minuti di metrò più in là pagherebbero meno. Detto altrimenti, i diversi ceti di Milano non si accorgono gli uni degli altri mentre vivono negli stessi spazi. Interessante vero? È che chi continua a comprare in quel di San Marco a Milano della “crisi” se ne fa un baffo. È il caso di dire, avendo parlato diffusamente d’ortofrutta, che quella gente lì non è “alla frutta”. Lo è, ma non solamente “alla frutta”, tutto il resto della popolazione che ha visto sgonfiarsi, come d’incanto, il ventre molle e  ben pasciuto negli anni passati del “ceto medio”. Scomparso, giunto oramai all’economico piatto di maccheroni. Come al tempo della guerra. Perché mai quell’iniziale, vizioso giro lungo? Per dire che un tempo anche quelli del “ceto medio” e dintorni sono stati “religiosamente impegnati  in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro”. Quale “atto di fede”? “Il credito-debito”, con buona pace del futuro dei figli e delle generazioni a venire. E la sapienza del mercato e dei suoi attori? Nella cronaca che chiude il “pezzo forte” di Federico Fubini – Autore da leggere sempre con attenzione - si parla dei sempre più numerosi signori e delle sempre più numerose signore della Milano bene che al termine del mercatino rionale dell’ortofrutta accorrono a rovistare tra le rimanenze se non addirittura tra gli scarti di giornata. Non dovrebbe rappresentare tutto ciò la fine del capitalismo finanziario che ha governato le nostre vite? Che ha depredato il futuro dei nostri figli?

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