Scriveva il professor Umberto
Galimberti – sul settimanale “D” del 4 di agosto dell’anno 2012 col titolo “La chiesa dell'amore e la chiesa del
potere” -: E se la forza della Chiesa consistesse proprio nel far convivere queste
due realtà tra loro palesemente inconciliabili? La contrapposizione (…) tra la
Chiesa dell'amore e della carità e la Chiesa del potere è evidente a tutti, ma
viene facilmente assorbita, non con l'argomento che la Chiesa è fatta da
uomini, che come tutti gli uomini possono sbagliare, ma per due ragioni ben più
sostanziose. La prima è che la Chiesa dell'amore e della carità non reggerebbe
se non fosse assistita dalla Chiesa del potere, la seconda è che il bisogno di
trascendenza e di speranza in una vita ultraterrena è così radicato nell'umano
che non si lascia scalfire dalla condotta dei suoi alti interpreti. La Chiesa
opera su entrambi i registri. Ma sono quei due “registri” che anche per
l’illustre Autore risultano “palesemente inconciliabili” a
creare non poche perplessità in moltissime coscienze allorquando uno dei due
tende o riesce a tacitare l’altro. E non è un caso che il registro
che ha saputo meglio prevalere nel corso della lunghissima storia di quella chiesa
sia stato proprio quello del potere. In tutte le sue manifestazioni e
sfaccettature. E qui la tentazione corre forte. È la tentazione di dire che
anche in questo frangente storico la chiesa di Roma gioca la sua carta del
potere per quanto le sia rimasto da esercitare, e non è poco. Lo si “sospetta”
nei nuovi atteggiamenti che, almeno in queste primissime apparizioni e
manifestazioni, l’alto vertice di quella chiesa va rimarcando. È tutto un
fiorire di posizioni nuove, di pronunciamenti inattesi ed insospettabili che
renderebbero quella chiesa in rottura profonda e fragorosa con la sua storia
più che millenaria. Anatema contro il capitalismo. Anatema contro il potere
della finanza. Anatema contro le banche. Sembra quasi che un novello “spin-doctor”,
adeguatamente esperto dei media, abbia sostituito quello spirito definito santo
che quella chiesa avrebbe dovuto nei secoli guidare illuminandone il pensiero
ed il cammino. Con i risultati in verità deludenti che sono la cagione prima
dell’arretramento di quella chiesa sul piano vocazionale e della
frequentazione. Ho avuto già occasione – nel post del 26 di maggio – di citare
abbondantemente Mara Einstein. Ne riprendo un pensiero che risale al 12 di
luglio dell’anno 2008 pubblicato sul settimanale “D” n° 606. Scriveva Mara
Einstein: Per dimostrare il proprio valore, la religione deve essere confezionata
e venduta, deve dotarsi di un marchio. Che consiste di un simbolo (o una
persona) e una mitologia. Le chiese di tutto il mondo usano il loro leader come
simbolo. Possono avere o meno un logo, ma senza dubbio hanno una mitologia. Non
quella del sistema di credenze a esse connesso, ma quella che ruota intorno
alla persona diviene lo strumento attraverso il quale vendere la credenza. La
commercializzazione della spiritualità abitua le persone all'idea di poterne
diventare acquirenti, e questo è sufficiente a renderle più disponibili a
comprare. Quando la gente vede la fede come qualcosa che si può acquistare, la
religione deve incrementare il livello di marketing per potere competere contro
le altre fedi. È questo pensiero “forte” rinvenuto in quello scritto
che mi “tenta” assai e mi spinge a parlare oggi di un aggiustamento “mediatico”
intuito come necessario affinché quella chiesa di Roma possa almeno arginare il
suo lento ma inesorabile disfacimento. Sono gli aggiustamenti di oggi che nel e
col tempo però dovranno misurarsi, con quell’esercizio millenario del potere
che quella chiesa non ha mai disdegnato, aggiustamenti che se sostanziati e
resi attivi e certi renderebbero veritiere le nuove posizioni assunte contro il
potere del denaro e di tutte quelle pratiche che sanno più di “mammona”
che di una chiesa dell’amore e della carità. Amore e carità che, in verità, ai
livelli che non siano però quelli delle gerarchie di quella chiesa, sono stati
testimoniati coraggiosamente e spesso anche al costo della vita dei tantissimi
che a quei precetti non hanno voluto rinunziare. Ma il passo è questo. Inevitabile.
E difficile. Forse irrealizzabile. Il domani saprà rivelarci quanto di
autentico sia insito nei nuovi atteggiamenti delle gerarchie della chiesa di
Roma. Ed alla luce di questa “tentazione” mi viene di condividere
pienamente un altro passo di Mara
Einstein: Una grossolana operazione di commercio riflette lo stato della fede
oggi. Più che con un luogo presso il quale recarsi, abbiamo a che fare con un
prodotto da erogare. La frequenza alla chiesa è in declino in tutto il mondo. E
che la chiesa di Roma abbia trovato conveniente appoggiarsi al potere, sotto
qualsivoglia forma esso si sia presentato e realizzato, è la dura, durissima
storia universale che essa è andata scrivendo nel corso della sua più che
millenaria azione. Scrive in proposito il professor Galimberti: E
come Chiesa del potere, accreditata dai milioni di fedeli che si professano
cattolici, parla con i potenti della terra, e là dove può, impartisce i suoi
principi "non negoziabili", che vengono poi sostenuti da quei
politici che, per ottenere consenso, hanno bisogno delle sue credenziali,
mentre come Chiesa dell'amore e della carità, raccoglie denaro, aduna folle di
volontari che si dedicano al prossimo in nome della loro fede cristiana,
sentendosi così in pace con la loro coscienza e con il messaggio evangelico. Se
poi la Chiesa dell'amore e della carità soccorre i disperati della terra
accusando chi li tiene in questa condizione, come hanno fatto i teologi della
liberazione, allora interviene la Chiesa del potere a condannarli, perché la
loro denuncia incrinerebbe i rapporti con i potenti della terra. Ne è un esempio
la condanna della teologia della liberazione da parte di Giovanni Paolo II, che
allontanò dai vertici della gerarchia i suoi esponenti come padre Leonardo
Boff, che subì diversi processi ecclesiastici, ma non esitò a benedire la folla
dal balcone del Palazzo della Moneda a fianco del dittatore Augusto Pinochet.
Contraddizioni della Chiesa? Ipocrisia? No, doppio registro, per cui si
predicano le pratiche d'amore e di carità finché queste non confliggono con
l'esercizio del potere, perché in questo caso sono le prime ad essere
condannate. Il risultato è che chi si dedica a dette pratiche, in perfetta
conformità al dettato evangelico, evita, per poter continuare nella sua opera,
di denunciare quanto non va nella Chiesa del potere, e perciò si affida alla
testimonianza, oltre la quale non è consentito esporsi. Sarà forse per questo
che figure come (…) Davide Turoldo, Ernesto Balducci e oggi Luigi Ciotti e
Andrea Gallo (…) non hanno avuto, non hanno e non avranno mai alcuna
possibilità di diventare papa, se non altro per far coincidere la chiesa
dell'amore con la chiesa del potere. La “rottura” non solamente
annunciata ma praticata nella vita reale – “La povertà non si racconta, la si prova”
come detto dalla “Santa” nel film di Paolo Sorrentino “La grande bellezza” - tra il potere politico o della ricchezza e
la chiesa che vuole essere universale sarà la cartina di tornasole di una reale,
invocata, in verità dai pochi, inversione d’azione nella storia della chiesa di
Roma; una “rottura” solo annunciata, al contrario, sarà un rimanere nelle
più che secolari pratiche di sempre, ovvero delle finte denunce e di un
razzolare nel potere politico o della ricchezza ignominioso. In memoria di don
Andrea Gallo, prete di strada, e di tutti coloro che sono stati autentici
testimoni di amore e di carità.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 28 maggio 2013
domenica 26 maggio 2013
Cosecosì. 53 “La grande bellezza”.
Scriveva il 12 di luglio dell’anno
2008, sul numero 606 del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, Mara
Einstein docente di “Media studies” al Queens College di New York: Nessuno
vi segnerà a dito il lunedì se non siete stati a messa la domenica, perché la
mancata partecipazione all'istituzione religiosa non genera più biasimo
sociale. Ora siamo liberi di scegliere come praticare la nostra fede, o di
praticarne anche più di una. Me ne sono ricordato, del ritaglio amorevolmente
conservato intendo dire, nell’intervallo della proiezione dell’ultima
straordinaria opera cinematografica di Paolo Sorrentino “La grande bellezza”. Non perdetela, andate a vederla. C’è un momento,
nel film, che mi ha riportato a Mara Einstein. È quando su di un terrazzo lussuosamente
arredato prospiciente il Colosseo, tra i rappresentanti di quel genere sociale
che un tempo si definiva il “generone”, arriva l’ultra
centenaria suor Maria, missionaria nell’Africa più povera, che nelle fattezze
ricorda (o si allude) alla Teresa di Calcutta. Suor Maria – 104 anni - è
definita la “Santa” e come tale è attesa e riverita. Avviene che, alle
insistenze di una direttrice di rotocalco, per il quale scrive lo straordinario
protagonista del film Toni Servillo, nella parte di Jep Gambardella, affinché
la Santa conceda un’intervista, la stessa, come ispirata dall’alto, risponda: “La
povertà non si racconta, la si prova”. Una risposta da gelare gli
astanti di quel “generone” che ha determinato non poco le sorti del bel paese. È
uno dei momenti topici del film. E prima di tornare allo scritto di Mara
Einstein voglio ancora soffermarmi sul film. Uscendo come in trance dalla sala
di proiezione si ha come l’impressione di ritornare alla più pura luce del
giorno. Si ha l’impressione di tornare a respirare a pieni polmoni. E sì che il
film è solare nella fotografie e nelle splendide immagini della città eterna. Una
Roma così è ben difficile da vedere così come anche solamente da immaginare. Ma
con tutta la luminosità delle riprese cala comunque sullo spettatore uno
sconforto tale che gli animi è come se si incupissero per l’enorme degrado
umano che il film porta coraggiosamente allo scoperto. E l’animo dello
spettatore non può non cogliere la fortissima contraddizione, anzi l’opposizione,
tra quel degrado umano e la bellezza storica, artistica e monumentale della
città e dei suoi più che millenari lastricati. Paolo Sorrentino rende con
coraggio, e come per magia d’immagini, questa contrapposizione tra una bellezza
eternata e la bruttezza del mondo che quella bellezza popola ingordamente e
sprezzantemente. È, il film di Paolo Sorrentino, la più amara delle metafore
che abbia visto sul bel paese. Una contrapposizione stridente tra la bellezza
immutabile di quel sito urbano e la bruttezza totale degli umani che lo degrada
con la sola sua presenza. Quel “generone” così spietatamente
rappresentato da Paolo Sorrentino rientra bene ed a tutto suo diritto nella
rappresentazione che ne ha fatto Mara Einstein nel Suo scritto di allora: Ancora,
la proliferazione dei media ci ha permesso di venire a conoscenza di una
quantità di pratiche spirituali disponibili. Nell'odierna cultura della merce
anche la religione è diventata un prodotto da vendere o da acquistare. Insieme
alla pratica religiosa, anche il consumatore moderno è cambiato. Più di
sessant'anni di consumi massificati combinati con l'azione dei mass media ci
hanno portato a credere alla favola che l'acquisto dei prodotti giusti possa
cambiarci la vita. Crediamo quindi che potremmo comprare anche salvezza e pace
interiore. È ciò che incupisce l’animo dello spettatore che assiste
alla proiezione de’ “La grande bellezza”.
Un mondo, quello che ruota attorno al protagonista Jep Gambardella, che ha come
punto di riferimento un’istituzione religiosa che più becera non la si potrebbe
immaginare e che Paolo Sorrentino affida, nella rappresentazione che ha pensato
e voluto, alla maestria recitativa di Roberto Herlitzka, il cardinale
ossessionato dalle sue prodezze culinarie. Scriveva – nell’anno 2008, sembra quasi
un’epoca preistorica - ancora Mara Einstein: Per dimostrare il proprio valore,
la religione deve essere confezionata e venduta, deve dotarsi di un marchio.
Che consiste di un simbolo (o una persona) e una mitologia. Le chiese di tutto
il mondo usano il loro leader come simbolo. Possono avere o meno un logo, ma
senza dubbio hanno una mitologia. Non quella del sistema di credenze a esse
connesso, ma quella che ruota intorno alla persona diviene lo strumento
attraverso il quale vendere la credenza. La commercializzazione della
spiritualità abitua le persone all'idea di poterne diventare acquirenti, e
questo è sufficiente a renderle più disponibili a comprare. Quando la gente
vede la fede come qualcosa che si può acquistare, la religione deve
incrementare il livello di marketing per potere competere contro le altre fedi.
È così che stupendamente Paolo Sorrentino rappresenta quello che viene
definito il centro della cattolicità. Una cattolicità vuota, corrosiva, senza
un’anima e che non disdegna di convivere con ben altri “poteri” che l’affiancano
senza esserne concorrenti, giammai avversaria per contrastarli nella loro
azione criminogena. Ed è a questo punto che mi viene di parlare dell’altro
momento topico del film. È quando Jep Gambardella dal suo lussuoso terrazzo prospiciente
il Colosseo scopre che il coinquilino del terrazzo superiore viene portato via
dagli agenti della DIA. È il più chiaro dei tantissimi messaggi che il film
trasmette allo spettatore. Quel “generone”, oggigiorno e come sempre
forse, è contaminato sin nelle più sottili delle sue fibre dalla malavita
organizzata; è il bel paese tutto che vive come soggiogato da quell’intreccio
che nessuna politica, succedutasi al governo del paese, è riuscita a sciogliere.
È il messaggio più difficile da recepire, quello che sarà impossibile da
accettare se si vuole che la democrazia e la vita associata non degradino nelle
peggiori forme di confusione e corruzione istituzionale. Scriveva ancora Mara
Einstein il 12 di luglio dell’anno 2008: Il marketing non è una novità - basti
pensare ai testimoni di Geova che distribuiscono Torre di Guardia o ai Beatles
quando promuovevano il Maharishi - ma la strategia si è fatta più pervasiva.
Una grossolana operazione di commercio riflette lo stato della fede oggi. Più
che con un luogo presso il quale recarsi, abbiamo a che fare con un prodotto da
erogare. La frequenza alla chiesa è in declino in tutto il mondo. Persino negli
Stati Uniti, dove la credenza religiosa raggiunge i picchi più alti tra le
culture industrializzate, il 50% degli americani attinge la fede da luoghi
diversi dall'istituzione religiosa. Media, organizzazioni paraecclesiastiche,
turismo d'avventura spirituale, abbigliamento, libri: qualsiasi cosa può
diventare fonte di sostentamento per lo spirito. Ma è difficile credere davvero
di trovare la fede in una t-shirt, o nell'ultimo best seller. E sono
convinto, profondamente convinto, che il mondo abbia camminato, in questo
lustro che ci separa da quello scritto, nella direzione immaginata da Mara Einstein.
E l’opera cinematografica di Paolo Sorrentino è una testimonianza dell’oggi. Non
perdete “La grande bellezza”.
venerdì 24 maggio 2013
Eventi. 7 A proposito di referendum.
Ricevo la e-mail – “A proposito di referendum” - del
dottor Nicotera – il “compagno” Ennio – che volentieri
posto: Nella Assemblea Costituente c’era il meglio dell’Italia del tempo. Mi
piace ricordare Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti,
Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Costantino Mortati. E poi i politici come De
Gasperi, Togliatti, Nenni, La Malfa Ugo e non Giorgio naturalmente. L’elenco di
quelli che possono essere definiti i padri della repubblica sarebbe troppo
lungo. Scrissero, nonostante le forti diversità culturali e come solevo dire ai
miei alunni, una sana e robusta Costituzione. Tre culture diverse erano
presenti in Costituente e per alcuni versi agli antipodi:la socialcomunista, la
cattolica e la liberale. Ma c’era un paese da ricostruire dalle fondamenta e
furono trovati i doverosi compromessi. Ricordo gli articoli dove, a mio
giudizio, il compromesso, tra le tre culture si realizzò più compiutamente. L’art
7 e l’art 8 dove da un lato si attesta che “tutte le confessioni religiose sono
egualmente libere davanti alla legge”e poi si
prefigura una situazione di privilegio per la religione cattolica e si
stabilisce che i Patti Lateranensi, per poter essere modificati
unilateralmente, abbisognano di un procedimento di revisione costituzionale.
(…). Altri articoli, diciamo compromissori, sono quelli cosiddetti economici. (…).
E poi c’è l’art. 33 che al 3° comma recita: “Enti e privati hanno il diritto di
istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. 4° comma:
“La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che
chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un
trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle Statali”. Sul
combinato dei due articoli le interpretazioni sono le più varie, né io voglio
avventurarmi in disquisizioni giuridiche, quanto meno in questa sede. (…). Voglio
in aggiunta riportare un breve stralcio della seduta dell’assemblea Costituente
del 29 aprile 1947. Viene presentato l’emendamento aggiuntivo “senza oneri per
lo Stato”. Corbino che è stato uno dei firmatari dell’emendamento così si
espresse: “Non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore di
istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il
diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa: si tratta
della facoltà di dare o di non dare”. Ed ancora Codignola a nome del gruppo
Calamandrei prese la parola per dire: “Dichiaro
che voteremo a favore dell’emendamento chiarendo ai colleghi democristiani che
con questa aggiunta non è vero che si venga ad impedire qualsiasi aiuto dello
Stato a scuole professionali; si ribadisce solo che non esiste un diritto
costituzionale a chiedere tale aiuto. Questo è bene chiarirlo”. E poi c’è la
questione “Del trattamento scolastico equipollente”. Come si può vedere la
questione del senza oneri per lo Stato è un po’ più complessa. (…). In una
delle ultime puntate di Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro,
un assessore del comune di Bologna spiegava il perché era giusto finanziare con
un contributo non grande le scuole dell’infanzia. Aggiungeva tra l’altro che il
comune di Bologna soddisfa con le scuole dell’infanzia comunali, e si sottolinea
comunali, il 60% del fabbisogno.
Nelle scuole comunali dell’infanzia
bolognesi trovano posto ben 5137 bambini. Aggiungeva l’assessore che il Comune
non aveva alcuna possibilità di aprire altre scuole per limiti di bilancio. Diceva
l’assessore che senza il finanziamento comunale le scuole parificate o
sarebbero state costrette a chiudere privando tanti bambini del servizio, o
sarebbero state costrette ad alzare le rette, con grave nocumento per le
famiglie meno abbienti. Vendola rispondeva ricordando l’art. 33 della Costituzione, e dissertando sul termine equipollente. Ma sul problema
concreto e cioè di una domanda sociale che il comune non riuscirebbe a
soddisfare e che viene soddisfatta dalle scuole paritarie, nessuna parola. Il
discorso lo affronta, come spesso fa, in termini ideologici. (…). Non
corro – non lo voglio - il rischio di farmi prendere la mano dai cosiddetti “termini
ideologici”, per la qual cosa resteremmo a discuterne sino a perdere la
voce se non la ragione. Al “compagno” Ennio – ed agli incauti,
avventurosi internauti capitati su questo blog – offro, in meditazione, una
riflessione dal tono contrario postata sul sito della rivista MicroMega a firma
di Wu Ming, del famoso collettivo di scrittura. Titolo della riflessione: “Perché votare A al referendum di Bologna”.
Wu Ming penso abbia carte certe in mano sulla situazione sottoposta a
referendum in quel di Bologna il 26 di maggio. Scrive infatti: (…).
Con il milione di euro stanziato per le scuole paritarie private nel 2011 si
sarebbero potuti creare, a settembre 2012, 330 nuovi posti alla scuola pubblica
comunale e statale ed esaurire abbondantemente la lista d’attesa. L’ipotesi di
un fallimento delle scuole paritarie private in assenza dei finanziamenti
comunali, con tanto di licenziamenti degli insegnanti ed esodo degli alunni
verso la scuola pubblica comunale e statale, è irreale e puramente
allarmistica. 26 delle 27 scuole dell’infanzia paritarie private di Bologna
aderiscono alla Federazione Italiana Scuole Materne (FISM), fondata su impulso
della CEI nel 1973. Le scuole della FISM dunque esistono da molto prima della
legge sulla parità scolastica, che è del 2000. Nel 1995, prima che il sistema
delle convenzioni venisse varato a Bologna, le scuole dell’infanzia private
accoglievano il 24% degli scolari; nel 2013 le scuole paritarie private ne
accolgono il 22%: è evidente che non è il milione di euro erogato dal Comune a
garantire la frequentazione di queste scuole. Infatti dividendo l’ammontare
dell’attuale finanziamento comunale – cioè 1.055.500 euro – per i 1.730 bambini
che frequentano le scuole paritarie bolognesi, si ottiene la cifra di circa 600
euro per bambino, che suddivisi sulle dieci rate mensili dell’anno scolastico,
equivalgono a un contributo per bambino di circa 60 euro al mese. Non è
credibile che un rincaro del genere produrrebbe un ritiro di massa dalle scuole
paritarie private e un’emigrazione di massa verso la scuola pubblica comunale e
statale, allungando a dismisura le liste d’attesa. Soprattutto è difficile
credere che le scuole paritarie private non possano reperire altrove quel
milione di euro l’anno, evitando così qualunque rincaro delle rette.
Considerando che tutte eccetto una sono scuole cattoliche, che la Curia di
Bologna possiede un patrimonio di circa 1.200 immobili in città, oltre a 22
milioni di euro dell’eredità FAAC depositati su un conto presso la LGT Bank di
Lugano, e che la Chiesa cattolica raccoglie l’8 per mille dai fedeli, un’idea
su quale partner potrebbe sostituirsi al Comune per integrare la cifra in
questione nasce spontanea. Le scuole dell’infanzia paritarie private
applicano criteri d’accesso diversi da quelli della scuola pubblica comunale e
statale. Si tratta infatti di enti privati no profit, a pagamento, che in base
alla legge 62 del 2000 fanno parte del sistema nazionale d’istruzione.
Attualmente, su 1.730 frequentanti le scuole dell’infanzia paritarie private
bolognesi, gli alunni stranieri sono 80, cioè il 4,6%, contro il 23,3% nella
scuola dell’infanzia pubblica comunale e statale; i bambini disabili sono lo
0,3%, contro il 2,1% nella scuola pubblica comunale e statale. Inoltre nella
scuola comunale e statale sono certificati 271 casi di disagio sociale. Questi
dati confermano che il sistema d’istruzione integrato pubblico-privato sta già
creando due tipologie di scuole molto diverse per composizione sociale e
culturale. Non ci sono dubbi su quale delle due sia la più inclusiva, si faccia
maggiormente carico dell’integrazione, rispecchi la varietà e la complessità
sociale e attitudinale, e di conseguenza debba avere la priorità nei
finanziamenti per esaurire le liste d’attesa. (…). Ho tralasciato, di
proposito, dalla lettera di Wu Ming, gli aspetti che afferiscono ai “termini
ideologici” molto abbondanti e ben circostanziati in essa. È che, per
la diffusissima paura dei cosiddetti “termini ideologici”, si è
contribuito a creare quella “scarnificazione” del pensiero, nelle
vaste moltitudini del bel paese, che vado da qualche tempo a questa parte denunciando
come il problema dei problemi. Con i risultati di una società che vive
nell’indifferenziato più spinto e senza quei termini di riferimento e di rappresentazione
che sarebbero necessari, contribuendo a costruire quella che il sociologo De
Rita ha definito, con grande intuizione, una “poltiglia sociale”. Ha scritto di recente – la Repubblica del 5 di
maggio, “Tutti ai remi per salvare la
nave” – Eugenio Scalfari: Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo
chiamavamo il popolo, il “demos”, sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano
la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati
sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di
sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il
futuro. La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai
crimini commessi da una classe dirigente anch’essa degradata; ma anche per
colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura
sguazzandovi dentro. È il recupero del senso più pieno e consapevole di
“bene
comune” che ci consentirà d’uscire dalla “crisi” diversi e con ben
individuate, irrinunciabili priorità sociali.
mercoledì 22 maggio 2013
Cronachebarbare. 14 “Ciechi, sordi, ottusi…oppure furbastri?”.
Botero. "Il ratto di Europa".
“Ciechi, sordi, ottusi…oppure
furbastri?” è il titolo di un’accorata lettera dell’amico carissimo
prof. Pelaggi Antonio Pasquale della quale non è possibile non condividere
preoccupazioni crescenti ed una fortissima carica d’indignazione per quella che
lo scrivente, consapevolmente, definisce come “la più semplice logica degli
usurai”. È che avviene un fatto straordinario: nella tenaglia di disagi
e di crescente povertà che stringe la vita di milioni e milioni di cittadini
della vecchia Europa i fatti politici che avvengono passano quasi inosservati,
per essi manca quella risonanza che sarebbe invece necessaria affinché ci fosse
piena consapevolezza delle scelte che la “casta” della politica compie nella
disattenzione – voluta, favorita, ricercata – del grosso delle moltitudini
europee. Donde un merito alla lettera – una email oggigiorno – dell’amico
carissimo che aiuta a conoscere retroscena non proprio commendevoli della “casta”
al potere. Donde la domanda che fa da incipit alla lettera: Chi
abbiamo mandato al Parlamento Nazionale ed Europeo? Gente cieca e sorda, persone tanto ottuse da non riuscire a intendere e
capire quel che intorno a loro si concerta ed avviene, o furbastri che sanno
ben tutelare interessi personali e di parte? E qui viene fuori il
non-ruolo che le fonti di comunicazione non dovrebbero svolgere in un paese a
democrazia avanzata. Poiché anche le revisioni costituzionali delle quali si
parla nella lettera – “Non è bastata, dunque, dopo tanti nefasti e
deliranti accordi, l’approvazione della legge Costituzionale n°1 del 20 Aprile
2012, che ha modificato gli articoli n° 81, n° 117 e n°119 della Costituzione
Italiana, approvata con il voto favorevole del PD, PDL e UDC e il voto contrario
di IDV e Lega Nord, che ha inserito in Costituzione, per imposizione dell’art.3 del trattato Europeo, l’obbligo
del pareggio di bilancio, ovvero parità tra entrate e uscite il che significa
che per ogni investimento fatto, ad esempio per costruire scuole, ospedali, strade,
ferrovie, deve corrispondere almeno un pari importo di entrate, evidentemente
detratto al popolo con le tasse? E ciò, nonostante le pesanti critiche a tale
scelta, avanzate da importanti economisti internazionale ed, in particolare,
dal Premio Nobel per l’Economia del 2008
Paul Krugman, che ha chiaramente affermato che inserire in Costituzione
l’anzidetto vincolo del pareggio di bilancio, potrebbe portare alla completa e
totale dissoluzione dello stato sociale” – sono passate nella
indifferenza generale e senza che di esse si siano date le necessarie
informazioni, anche semplificate, affinché fosse ben chiaro il contenuto di
decisioni comunitarie così rilevanti. Si renda quindi merito a quanti, nel mare
magnum della Rete, tentano di stendere un fascio di luce sulla vita comunitaria
europea. Anche se, come dalle ultime cronache politiche lette, l’inadeguatezza
delle azioni comunitarie sinora svolte, a fronte di un inarrestabile declino
della vecchia Europa, sembra essere divenuta senso comune tra i maggiori
partner politici europei. Ma viene da chiedersi: come conciliare questa
sopravvenuta consapevolezza della inadeguatezza dell’azione sinora svolta con
le ratifiche già avvenute degli accordi? O si vuole ancora sperare nell’indifferenza
delle moltitudini su questi aspetti così rilevanti della vita comunitaria
europea? O ancora di più, si tenta ancora una volta quel “mascheramento” nelle
fonti della moderna comunicazione affinché l’impensabile e l’impresentabile
negli accordi possano fare la loro strada invocando e denunciando poi la
sinistra azione di un fato “cinico e baro” senza quegli attori
responsabili ai quali chiedere di conto? Di seguito il resto della lettera del
prof. Pelaggi: Non è bastata, inoltre, l’imposizione della ratifica del Mes e del Fiscal
Compact, (…), effettuata in fretta e furia dal Parlamento Italiano nel Luglio
del 2012, grazie, soprattutto, alle pressioni esercitate dal nostro amato Mario
Monti, senza alcun dibattito parlamentare e nel silenzio assoluto della stampa, che ha dedicato all’importante
argomento soltanto qualche breve trafiletto? Ciò nonostante, i nostri aguzzini
europei continuano a inventarsi nuovi metodi di tortura! Continuano a voler
stillarci il sangue e a trarre profitto, a ogni costo, dalle nostre tragedie!
Ecco, infatti, che l’UE sforna l’ERF, ovvero l’European Redemption Fund!
Il Fondo di Redenzione Europeo: ma quali
peccati abbiamo fatto per essere obbligati a
redimerci? Il grande peccato è forse
il debito pubblico! Ma è stato proprio il popolo a commetterlo ed è per
questo che deve pagare? Il 13 Giugno del 2012, il Parlamento Europeo ha
approvato il regolamento per rafforzare la “governance” dell’UE, con due
risoluzioni. La prima (Gauzes),
approvata con il 73% dei voti, ha messo nero su bianco un principio da
far accapponare la pelle: l’assoggettamento a tutela giuridica di uno Stato
membro e, quindi, anche dell’Italia, a decorrere dall’anno 2017. Il che
significa che le Autorità dello Stato attueranno le misure raccomandate dalle
Istituzioni Europee e dovranno presentare alla Commissione della Europa per
l’approvazione un piano di ripresa e di liquidazione dei debiti: il Governo
Nazionale perderà quindi ufficialmente ogni tipo di potere decisionale e
operativo. Sarà quindi una definitiva e completa cessione della sovranità
nazionale alla dittatura dell’Euro e dell’UE! (…). La seconda (Ferriera), approvata
con il 74% dei voti, stringe il cappio, introducendo il fondo ERF: ma, in cosa consiste nel concreto questo
fondo? Ebbene, eccolo spiegato: gli Stati membri con la ratifica del detto
accordo, si obbligano: a trasferire nel fondo gli importi debitori superiori al
60% del Pil nell’arco di un periodo di
avviamento di cinque anni; ad attuare una strategia di consolidamento di
bilancio ed una agenda di riforme strutturali; a costituire “garanzie” per
coprire adeguatamente i prestiti concessi; a ridurre i disavanzi strutturali.
Sembra niente, vero? Ma, a pensarci un poco con attenzione, si scopre che il
passaggio più insidioso è proprio quello della garanzia! L’Italia, dovrebbe
partecipare al fondo con la quota maggiore (40%), ovvero con oltre 950 miliardi
di euro, questa è approssimativamente, infatti, la cifra necessaria per
ricondurre il debito pubblico al 60% del
Pil, per cui, per garantirla, si dovrebbe cedere almeno per 25 anni una
frazione maggioritaria del gettito delle imposte, vendere una parte del
patrimonio pubblico (asset) e dare in pegno tutte le riserve auree e di valuta
estera! Con la certezza di perdere ogni
cosa, cioè la quota d’imposte per 25
anni, la parte di patrimonio pubblico venduto e la riserva aurea e di valuta
estera, offerte in garanzia, nel caso non si riesca ad onorare il debito! Ma
siamo pazzi? Ma sono impazziti i parlamentari che hanno votato a favore di
questa risoluzione nel parlamento europeo, non hanno capito niente, dormivano o
sono fiancheggiatori della troika? Siamo dunque in un nuovo circolo vizioso:
riforme strutturali e ripianamento di un debito attraverso un nuovo ricorso a
prestito ed a debito, secondo la più semplice logica degli usurai: una persona
che sia molto indebitata ricorre a nuovi prestiti per saldare il primo debito e
poi ancora, fino al totale annientamento! Ma questa volta vogliono a garanzia
le nostre tasse ed il patrimonio del nostro Paese! Assurdo vogliono ipotecare
le nostre tasse per 25 anni e privarci delle riserve auree! Il Parlamento Europeo, lo voglio ripetere, fiancheggia
forse, più o meno ignaro, queste istituzioni europee antidemocratiche? Ed il
nostro Parlamento, che cosa fa e che farà? Ratificherà l’ERF? Ed in questo caso
come avverrà la crescita con questi enormi vincoli addosso? Come potrà
attenuare la disoccupazione e la crisi che attanaglia gravemente l’Italia? Il
Governo Letta, europeista ad oltranza, che si dibatte ancora oggi tra Imu sì o
Imu no, ed ancora tra mille difficoltà,
indecisioni e contraddizioni, non riuscendo e probabilmente non volendo
veramente opporsi fermamente alla Troika e rinegoziare i tanti Trattati
Europei, già accettati, senza condizioni, che probabilmente ha solo chiesto, timidamente,
all’Europa soltanto il rinvio dei tanti impegni assunti, come farà a traghettare
l’Italia fuori dalla crisi? Come farà a tirarci fuori dalla galoppante
recessione? Poveri noi, che brutti tempi ci aspettano! E soprattutto poveri
ragazzi che attendono ancora un lavoro!
venerdì 17 maggio 2013
Cronachebarbare. 13 Vieni avanti cretino!
C’è stato un film che nei lontani
anni ottanta del secolo ventesimo è divenuto un “cult”, il culto
dell’epoca, sicuramente per il titolo più che per i suoi modestissimi
contenuti. Quel titolo divenne a quel tempo un mantra ripetuto, ossessivamente,
in tutti gli angoli, anche i più reconditi, delle ubertose contrade del bel
paese. Non c’è stata persona che in quegli anni non abbia pronunciato quel
titolo a conferma di quanto le scempiaggini possano trovare fertile terreno
nell’immaginario collettivo del bel paese. Titolava quel film “Vieni
avanti cretino”. Il film – dell’anno 1982 – è stato diretto da Luciano
Salce. Protagonista assoluto Lino Banfi. Mi è tornato alla mente a seguito
delle vicende politico-elettorali recenti. Chi dovrebbe essere al tempo d’oggi
il “cretino”
di turno? Allora il regista del film e chi ne scrisse la sceneggiatura vollero
rendere omaggio a quella battuta che storicamente viene fatta risalire ai fratelli
De Rege, il maggiore dei quali, a nome Guido, era detto “Bebè” (1891– 1945) ed il
minore, che di nome faceva Giorgio, era invece detto “Ciccio” (1894–1948), un
duo dalla comicità popolare e spassosissimi interpreti della migliore tradizione
dell'avanspettacolo italiano. Oggigiorno non vi è più un duo che possa essere
interprete di quegli spassosissimi quadretti di comicità popolare. Oggi no:
esistono invece interi plotoni dei cosiddetti soloni dell’”antipolitica” al potere ai
quali potremmo benissimo rivolgere l’imperativo di quel duo “vieni
avanti cretino”, anzi, “venite avanti cretini”. E sono
arroccati in ogni angolo dell’”antipolitica” al potere. E si
sentono insostituibili, immarcescenti, nel senso che non marciscono a seguito
della loro enorme stupidità. Certo che al Banfi di quel film non si sarebbe
potuta attribuire colpa alcuna, se non la disgrazia d’essere nato in un certo
qual modo. Ma si era nella settima arte, nell’avanspettacolo più puro, che
alcune licenze ha il diritto di concedersi. Ben diversa la storia che l’”antipolitica”
al potere viene scrivendo in questi giorni. E qui il “vieni avanti cretino” ci
sta proprio tutto. Senza attenuanti di sorta. Scrive Bruno Tinti su “il Fatto
Quotidiano” di oggi col titolo “Pd, la
stupidità non è una disgrazia”: Oltre un
certo livello la stupidità non è più una disgrazia, è una colpa. Come
non dare ragione all’illustre opinionista. Anche il più digiuno di strategie e
di quant’altro aveva immaginato che l’apertura alle cosiddette “larghe
intese” avrebbe riconsegnato l’interesse generale del bel paese quale
subordinata all’interesse dell’uomo di Arcore. E non solo. Ma avrebbe ridato
tono e spazio vitale a colui al quale i mercati, perentoriamente, avevano
imposto di mettersi da parte. Ed invece no. I “cretini” di turno hanno
fatto ben altre valutazioni in barba – anche e soprattutto - a quell’atto della
democrazia che è il voto popolare. Scrive Bruno Tinti: Tutti sanno che il Pd ha fatto un
governo con il Pdl. In realtà non è vero: il Pd ha fatto un governo con B. che
ha ordinato ai suoi dipendenti di sostenerlo. Il Pd, grato (ci siamo salvati da
Grillo e grillini), ha immediatamente accettato la prima delle condizioni di
B.: abolire l’Imu. Naturalmente sia il Pd che B. sanno benissimo che l’Italia
non può togliere dal proprio bilancio 5 o 6 miliardi di euro che da qualche
parte dovranno essere recuperati; che l’unico modo per recuperarli è aumentare
le imposte, probabilmente l’Irpef; che, in questo modo, l’onere contributivo
ricadrà sui lavoratori dipendenti e sui pensionati visto che sono gli unici che
non possono evadere; che l’abolizione dell’Imu significherà, come di consueto,
privilegiare i ricchi e tartassare i poveracci. Fino a qui la stupidità cui
alludo è quella degli elettori di B. tra cui ci sono molti ricchi (che non sono
stupidi per niente) e moltissimi poveracci che non capiscono che i loro
interessi non possono essere gli stessi di quelli di una partita Iva con una
collezione di Ferrari nel garage della sua villa. E qui l’illustre
opinionista entra ad esplorare il campo minato dell’autolesionismo. Quello del
Partito democratico, che ha il privilegio – o il merito esclusivo, se tutto ciò
possa rientrare nelle facoltà degli umani - di possedere una stupidità
particolare, unica ed assoluta. Infatti, dall’autolesionismo non ci si può salvare.
Scrive Bruno Tinti: Ma c’è un altro genere di stupidità, quella propria del Pd.
L’abolizione dell’Imu si tradurrà automaticamente in incremento di popolarità
per B.: ecco uno che mantiene le promesse! Proprio vero. Solo che questo uno è
anche un delinquente (senso tecnico della parola: persona che delinque; e B. ha
subito 6 sentenze di prescrizione: reati commessi ma è passato troppo tempo
perché sia possibile mandarlo in prigione; 2 di amnistia e 2 perché il fatto
non è più previsto come reato per via di leggi che si è fatto apposta) che a
breve dovrebbe essere condannato – tra processi Ruby, Mediaset, De Gregorio e
Unipol – a circa 15 anni di galera. Il che significa che l’unica riforma che
proprio gli serve è quella sulla giustizia. Che sarà divisa in due parti:
quanto serve per annullare l’effetto di queste sentenze, dunque amnistia e
indulto (che tireranno fuori dalle prigioni tantissimi altri delinquenti)
ovvero nuovo accorciamento dei termini di prescrizione; e quanto serve per
bloccare le indagini in corso su B&C e altre che noi ancora non sappiamo,
ma che lui sa benissimo (blocco intercettazioni e abrogazione del potere di
iniziativa dei pm). Dunque B. pretenderà immediatamente la “sua” riforma della
giustizia. E a questo punto il Pd che farà? Ipotesi 1: sì è proprio vero, la
giustizia italiana è malata e costruita espressamente per perseguitare B. e gli
altri benefattori del Paese; questa riforma è una priorità. Con il che l’Italia
sarà fregata e l’illegalità, la prepotenza e il privilegio prospereranno.
Ipotesi 2: non se ne parla nemmeno, la legalità è il cardine della convivenza
civile; anzi, processo penale e processo civile vanno razionalizzati e resi
efficaci. Ah sì?, ghignerà B.; e io vi tolgo la fiducia: nuove elezioni. E
siccome gli stupidi, ipnotizzati dall’abolizione dell’Imu, saranno aumentati,
le vincerà. E la riforma della giustizia (e l’uscita dall’euro, l’insolvenza
programmata, la bancarotta etc. etc.) se la farà da solo. Questa stupidità non
è più una colpa; è un delitto. Oggi tutti i quotidiani riportano
dell’incredibile scalata del signor B. nei sondaggi elettorali. A giusta
ragione si oppone a che la “porcata” venga annullata. Mica è “cretino”!
martedì 14 maggio 2013
Cosecosì. 52 Quando è il denaro a dare valore alla vita.
Ha scritto il filosofo Giorgio
Agamben in un post – “Benjamin e il
capitalismo” - del 29 di aprile su www.lostraniero.net
: Il
capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti
postumi di Benjamin. (…). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta
soltanto, (…), una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso
essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a
partire dal Cristianesimo. Che esistesse quel “rapporto parassitario”
tra la trionfante religione dei cristiani ed il capitalismo, rapporto che ha
permeato la vita del mondo occidentale, non è da storicamente da negare e
permane sotto gli occhi di tutti. Non per nulla quella religione, divenuta
chiesa potente nella sua versione confessionale a Roma, ha stretto rapporti sempre
più stretti con il mondo del capitale sino a perdere la sua essenza primigenia
di chiesa dei poveri e che per i poveri opera nel tempo storico nel quale è
chiamata a testimoniare. E del resto sono storicamente avvenute, nel seno di
quella confessione, contrapposizioni stridenti che il più delle volte sono
state risolte in forma cruenta con la soppressione fisica, nonché nella
memoria, di tutti coloro che opponendosi propugnavano una chiesa più umile e
più vicina al mondo dei diseredati. Ha prevalso, in quelle tragiche dispute,
l’interesse per la conservazione di quel “rapporto parassitario” che ha tanto
giovato nella costituzione e nell’affermarsi di quel potere temporale che non
pochi danni ha arrecato alle vicende della Storia. Ne ha reso fuggevole
testimonianza in un Suo recente scritto il teologo Hans Kung – “Francesco e gli indignati”, sul
quotidiano la Repubblica del’11 di maggio -, laddove poneva anche interessanti
interrogativi sul nuovo ordine gerarchico creatosi nella chiesa di Roma: Nemmeno
due decenni dopo la morte di Francesco il movimento francescano rapidamente
diffusosi in Italia sembra quasi completamente addomesticato dalla Chiesa
romana, tanto da porsi ben presto al servizio della politica papale, come un
normale ordine monastico, e da farsi addirittura coinvolgere nell’Inquisizione.
Se dunque è stato possibile addomesticare Francesco di Assisi e i suoi compagni
nel sistema romano, ovviamente non si può escludere che alla fine un papa
Francesco venga catturato nel sistema romano che dovrebbe riformare. Papa
Francesco: un paradosso? Potranno mai conciliarsi il papa e Francesco, un
contrasto evidente? Solo con un papa delle riforme ispirato dal Vangelo. Non
dobbiamo rinunciare troppo presto alla nostra speranza in un simile pastor
angelicus! Infine, (…): Che fare se ci viene tolta dall’alto la speranza nella
riforma? I tempi in cui il papa e i vescovi potevano contare tranquillamente
sull’ubbidienza dei fedeli sono comunque passati. Dunque, non possiamo in alcun
modo cedere alla rassegnazione, ma di fronte alla mancanza di impulsi
riformatori “dall’alto”, dalla gerarchia, dobbiamo intraprendere decisamente le
riforme “dal basso”, a partire dalla gente. Se papa Francesco metterà mano alle
riforme troverà un vasto consenso da parte della gente, ben al di là della
Chiesa cattolica. Se però alla fine andasse avanti così e non sciogliesse il
nodo delle riforme, il grido «Indignatevi! Indignez-vous!» risuonerebbe sempre
più anche nella Chiesa cattolica e provocherebbe riforme dal basso che
sarebbero realizzate anche senza l’approvazione da parte della gerarchia e
spesso addirittura contro i tentativi di impedirle compiuti dalla gerarchia.
Nel caso peggiore – (…) – la Chiesa cattolica vivrebbe, anziché una primavera,
una nuova era glaciale e correrebbe il pericolo di ridursi ad una grande setta
poco rilevante. Nell’intreccio storicamente perverso tra il
cristianesimo ed il capitalismo, che si è venuto a creare a seguito di quel “rapporto
parassitario”, il capitalismo ha assunto caratteri che Giorgio Agamben
tratteggia dottamente così: Come tale, come religione della modernità,
esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più
estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in
riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2.
Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans
merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni
lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il
lavoro coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è
diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa.
“Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma
colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione
si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla
universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto,
ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”. (…). E nella creazione
di quel culto tanto caro al capitalismo la esasperazione estrema la si è avuta
con l’avvento del cosiddetto “capitalismo finanziario” che ha
soppiantato il capitalismo della produzione dei beni e dei servizi. In esso,
nella sua forma esasperata che oggigiorno domina lo scenario internazionale, si
è potuta realizzare quella trasformazione profonda nella vita delle moltitudini
dell’Occidente a seguito della quale il professor Umberto Galimberti ha potuto
affermare in un Suo scritto – del 1° di settembre dell’anno 2012 sul settimanale
“D” - “Quando è il denaro a dare valore
alla vita”: C'è una complicità inconscia tra il mondo della finanza e i nostri
comportamenti? Aristotele, nell'Etica a Nicomaco, scrive che il denaro non può
generare ricchezza perché il denaro non è un bene, ma solo il simbolo di un
bene. Questa tesi fu ripresa anche da Tommaso d'Aquino che la tradusse con
"pecunia non parit pecuniam", in ciò confortato anche
dall'indicazione che si legge nel Vangelo di Luca (6, 13) dove è scritto:
"Mutuum date nihil inde sperantes": prestate il denaro senza attendere
necessariamente la restituzione. E questo in base al principio della carità
cristiana. Nel Settecento, con la nascita dei primi trattati di economia di
David Ricardo e Adam Smith, si stabilì che il valore di un bene non consiste
nella sua capacità di soddisfare un bisogno (valore d'uso), ma nella sua
capacità di scambiarsi con altri beni (valore di scambio). Questa capacità
viene decisa da due assi cartesiani: la domanda e l'offerta, dal cui incontro
dipende il valore di un bene. Il discorso sembra razionale, anzi addirittura
matematico, quindi inconfutabile. Anche se Marx, un secolo dopo, considerava
che se il denaro diventa la "condizione universale" per soddisfare i
bisogni e produrre i beni, allora il denaro non è più un "mezzo", ma
il primo "fine", per conseguire il quale, si vedrà se soddisfare i
bisogni e in che misura produrre i beni. A seguito di questo capovolgimento, (…),
il mercato diventa il grande regolatore della vite umane, contro il quale
nessuna rivoluzione è possibile perché, come ci ricorda Hegel, la rivoluzione è
praticabile quando in conflitto ci sono due volontà: quella del servo e quella
del signore, ma il mercato non ha volontà (…). Il mercato è nessuno, anche se
il filosofo Romano Madera ci ricorda che "Nessuno, come ci ha insegnato
Omero, è sempre il nome di qualcuno", ma questo qualcuno non è
identificabile. E allora con chi possiamo prendercela? Questo Nessuno, che
ignora il monito di Aristotele e anche l'indicazione evangelica (…) porterà al
suo tramonto la nostra civiltà, e con l'Occidente, probabilmente tutto il mondo
in via di occidentalizzazione, perché se il denaro, da valore di scambio,
diventa il generatore simbolico di tutti i valori, la vita si contrae e si
rattrappisce, perché, come ormai è a tutti evidente, ci sono sempre meno
condizioni per vivere. E siccome la rivoluzione è impossibile, la cultura del
denaro come supremo valore diventa pervasiva e non riguarda più solo la
finanza, ma anche il comportamento di tanta povera gente che affolla le
tabaccherie per acquistare i biglietti delle varie lotterie, o tentare
improbabili guadagni alle slot machine. Rimedi? Non se ne vedono quando un
modello teorico (le regole del mercato) diventa così pervasivo da determinare i
comportamenti di ciascuno di noi. Siamo diventati complici.
venerdì 10 maggio 2013
Cronachebarbare. 12 L'onestà non paga.
Ha scritto Ilvo Diamanti su la
Repubblica del 6 di maggio – “Il governo
ideale per gli italiani” -: (…). …se questo Parlamento non favorisce la
formazione di una maggioranza politica, non è per colpa di una legge che
distorce e deforma le scelte degli elettori. Semmai, al contrario, è perché le
riproduce in modo fin troppo fedele. Accentuandone le distanze, più delle
affinità. Così oggi il governo è sostenuto da una coalizione precaria. Perché i
partiti e i parlamentari che vi partecipano fanno a gara nel marcare il proprio
distacco. Reciproco. Le proprie differenze. Berlusconi e il Pdl: impegnati a
promuovere i "propri" prodotti di bandiera. L`Imu sopra tutti. Ma
anche a "difendere" i territori critici, per il Leader Imprenditore:
la giustizia e le telecomunicazioni. Il Pd: impegnato a dimostrare il proprio
impegno, ma senza troppo impegno. Per rispetto verso la responsabilità che
spetta ai vincitori - che in effetti non hanno vinto - le elezioni. E per
evitare un nuovo voto ravvicinato, a cui oggi non sarebbe pronto. Infine: il
M5S, impegnato a esibire il proprio disimpegno. Ma con impegno. Come se fossero
gli altri a non volerne sapere di lui. E non lui a non volersi confondere e
contaminare, con gli altri. Fuori dal Palazzo, intanto, la piazza rumoreggia.
(…). E questo sforzo dei partiti dell’”antipolitica” al potere
a differenziarsi, ma solamente all’apparenza, pronti all’ammucchiata, come
dimostrato, pur rimanendo uniti nella difesa dello “stato” privilegiato raggiunto
ha caratteri e tratti che vengono da lontano, da quella che potremmo definire
l’impronta antropologica degli italiani. E di questa impronta dominante è quel
carattere che universalmente viene riconosciuto come “familismo amorale”. Il
paese tutto ne è contagiato, impregnato sin nelle midolla. Donde ne deriva che
qualsivoglia marchingegno istituzionale debba fare i conti, perdendo, con
quella tara antropologica che contraddistingue gli abitatori del bel paese dal
resto dei popoli definiti avanzati. Pur sforzandosi d’apparire diversi, pur
continuando ad amorevolmente coltivare vantaggi castali comuni che sono
difficili da abbandonare, la casta dell’”antipolitica” al potere inventa
soluzioni aberranti con il solo scopo di tenere sotto il suo controllo la vita
politica del bel paese. Il potere per il potere. E qui vengon fuori gli effetti
perversi e nefasti, per la salute della democrazia, di quella impronta
antropologica che accomuna alla casta la fetta grandissima dei suoi stessi
elettori-sostenitori. Scrive Ilvo Diamanti nel Suo pezzo d’analisi a proposito
degli sviluppi ultimi del tormentone politico: Tutto diventa - tutto viene
interpretato come - un segno di ribellione contro la Politica, i Politici, i
Partiti, il Parlamento. Lo Stato. E la Politica, i Politici, i Partiti, il
Parlamento, lo Stato: diventano - a loro volta- i mandanti, anzi, i veri
responsabili. Di ogni suicidio e omicidio, di ogni aggressione. Di ogni atto
disperato commesso da disperati. Per disperazione. Come se noi non c’entrassimo.
Come se la colpa fosse solo "loro". Dei Politici, dei Partiti, del
Parlamento. Come se questo governo - e questa maggioranza che non piace quasi a
nessuno (a me di certo no) - uscissero dal nulla. Come se questo Parlamento
fosse stato eletto "a nostra insaputa". Non è così. Purtroppo. Scriveva
il 9 di aprile dell’anno 2011 il professor Umberto Galimberti sul settimanale
“D”, in una Sua riflessione che ha per titolo “Siamo ancora tutti parenti”: (…). …l'onestà non paga. Dove non paga? In
un paese dove i vincoli sono ancora di parentela e non ancora di cittadinanza,
dove la legge del sangue è più forte della legge della città. Un problema
questo che già nel V secolo a.C. la tragedia greca, con Sofocle, aveva
affrontato, nell'Antigone, dove la protagonista perisce tragicamente per aver
violato, in nome del vincolo di sangue, la legge della città che negava la
sepoltura a suo fratello Polinice che aveva tradito la patria. Troppa
drammaticità in questo paragone? No. Perché di tragiche punizioni e di truci
delitti si alimenta qualsiasi associazione mafiosa che, come è noto, si fonda
su vincoli familistici e perciò antepone le leggi della famiglia a quelle della
città. A mio parere la mafia è solo la forma più vistosa e truculenta del
costume diffuso in chiunque antepone il parente, l'amico, il raccomandato, il
segnalato a chi davvero merita, a prescindere dai rapporti di parentela e di
conoscenza. A questo punto due sono le conclusioni: 1. Non sconfiggeremo mai la
mafia finché tutti quanti, nel nostro ambito di competenza, non debelleremo
quel comportamento che antepone il vincolo di parentela al vincolo di
cittadinanza. (…). 2. Non riempiamoci più la bocca con la parola
"meritocrazia", perché questo criterio è impraticabile finché il
vincolo di cittadinanza è subordinato a quello di parentela, finché il
ragazzino di colore è svantaggiato rispetto al nostro figlio "bianco
doc", finché le donne sono svantaggiate rispetto ai maschi, finché i
poveri lo sono rispetto ai ricchi, gli omosessuali rispetto agli eterosessuali.
(…)…quanto cammino culturale dobbiamo ancora fare anche solo per avere un
concorso senza imbrogli. Che poi vuol dire premiare i più bravi a prescindere,
e così garantire un minimo di eccellenza al nostro paese, senza costringere
all'emigrazione chi ne dispone. Ed il dato antropologico, così ben
delineato nella analisi del professor Galimberti, fa come da immagine speculare
all’analisi, che definirei di “tecnica elettorale”, di Ilvo Diamanti laddove
l’illustre opinionista arriva scrivere: Il problema, semmai, è che questa legge
elettorale orrenda ha prodotto un Parlamento che rispecchia in modo fedele gli
orientamenti e le differenze dell`elettorato. Dove coabitano tre Grandi
Minoranze che non si sopportano. Due Soggetti Politici e uno Antipolitico. O meglio:
premiato dal voto di molti elettori (due terzi, almeno) per risentimento contro
"i partiti". Contro la Casta. Così oggi si ripropone una scena nota,
in Italia. Il "governo nonostante". Subìto perfino dal premier,
Enrico Letta. Il quale, ospite di "Che tempo che fa", ieri sera (nella
trasmissione di domenica 5 di maggio n.d.r.), ha ammesso che «questo non è
certo il governo ideale per gli italiani». A torto, perché riflette gli umori
degli "italiani nonostante". Ai quali non piace perdere. Ma nemmeno
vincere. Perché non amano la concorrenza, né la competizione. Come in economia
e negli affari. Tutti liberisti, tutti contro le corporazioni e contro i
privilegi di gruppo e di categoria. Tutti contro il familismo. Tutti per il
merito. Eppure quasi tutti coinvolti in - e tutelati da - corporazioni e
gruppi. (…). Così oggi siamo guidati da un "governo di necessità"
perché viviamo in uno "Stato di necessità". Sostenuto da una
"maggioranza di necessità". Composto da partiti e politici che non si
sopportano. (…). Questo governo e questa maggioranza, dunque, sono
"rappresentativi". Perché "rappresentano" fedelmente gli
italiani. Ai quali piace stare "dentro" e "fuori", al tempo
stesso. Al governo, ma senza impegno. (…). Perché ci impongono sacrifici che
nessun governo "di parte" potrebbe imporre. Ma pronti a prenderne le
distanze, appena risulti utile e opportuno. (…). Gli italiani: un po’ Berlusconi
e un po’ grilli. Di governo e di opposizione - secondo il momento. E, talora,
un po’ di sinistra. Perché "bisogna saper perdere". Ma il problema
non è che "la Politica è lontana da noi". Al contrario: è fin troppo
vicina. Troppo simile a noi. Questo è il problema. Più facile cambiare la
Politica che gli italiani. Ed il “conto” torna. Ebbe a sostenere il
cavaliere in nero: “Governare gli italiani non è difficile, è inutile”. E sì che
fu, quel cavaliere, dalla maggioranza di essi osannato. Sino a quando non gli
venne a noia.
mercoledì 8 maggio 2013
Strettamentepersonale. 10 Perché le maestre hanno sempre ragione?
Ha scritto Claudia De Lillo, in
arte Elasti, sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la
Repubblica: La mia maestra si chiamava Irene. "Io sono Irene che in greco
vuole dire pace. Voi, però, mi chiamerete "signora", perché è quello
che sono. E dovrete darmi del lei, perché il rispetto si impara da
piccoli", disse il primo giorno della prima elementare, di fronte a una
ventina di sguardi rotondi e atterriti. Io tirai su con il naso e pensai che
non avrei mai avuto spalle abbastanza larghe per affrontare quel posto e la
signora Irene. Era il 1976. Ogni mattina, per cinque anni, ci fece cantare una
preghiera a gola spiegata, impermeabile alle proteste di alcuni genitori senza
dio, tra cui i miei. A lei devo una transitoria ma folgorante fase di fervente
religiosità, una passione viscerale per la grammatica italiana, una simpatia
balzana ma imperitura per la tabellina del 9, la fuga dei fantasmi acquattati
nella cartella o nell'astuccio, la convinzione che, a guardare bene, un talento
lo abbiamo tutti e si tratta solo di scovarlo e tirarlo fuori. Senza di lei non
saprei leggere, scrivere e nemmeno fare le divisioni con il resto. Senza di lei
ieri, non sarei quella che sono oggi. Perché loro, gli insegnanti, o almeno
alcuni di essi, tracciano solchi che segnano il nostro cammino, imprimono
direzioni al nostro movimento, aggiungono ingredienti decisivi alla pasta di
cui siamo fatti. Lo ha scritto per un “pezzo” di quel settimanale
veramente speciale che, chi per Lei, ha titolato “Perché le maestre hanno sempre ragione”. Non mi sento di
convenirne. Con il titolo, s’intende. Del mio maestro ho un ricordo vivissimo
che ho riportato nel mio libro “I
professori” – pubblicato nell’anno
2006 per i tipi di AndreaOppureEditore, pagg. 194 € 8,00 – che trascrivo: È tornare con i ricordi ad un fanciullo
goloso, al riparo del ripiano di un nero banco scolastico di legno, come lo
erano ai tempi della mia fanciullezza. Una leccornia amorevolmente infilata
nella cartelletta dalla mamma premurosa, il suo gustarne l’infinita
prelibatezza, al riparo dagli occhi vigili di un canuto maestro. Un ricevere,
inattesa, una pesante campana di ottone, strumento di richiamo solenne ed
imperioso al silenzio per noi scolaretti, sulla parte del capo non protetta dal
ribaltabile ripiano nero del banco. Un improvviso riemergere del fanciullo di
allora con le gote rigonfie, un palpitare del cuore come non mai, un sentirsi colpevole
ed inerme per un atto compiuto con l’infinita semplicità di tutti i fanciulli
di questo pianeta chiamato Terra. Un ricordo che ritorna ancora chiaro dopo
tanti e tanti lustri, a fissare in una perenne e folgorante immagine una oramai
lontana giornata di scuola, che il trascorrere veloce del tempo non cancellerà
mai più. Il mio maestro è stato per i cinque anni delle mie scuole
elementari P.C. Oggi mi osserva dalla foto a forma di ellisse che, di certo, un
caritatevole familiare ha fatto apporre sul freddo marmo che custodisce ciò che
è rimasto del mio antico maestro. Lo ricordo già canuto, alto nella sua figura,
possente, occhiuto abbastanza da scoprire quell’atto innocente compiuto al
riparo del ripiano di quel banco nero. Avrei ugualmente imparato a scrivere ed
a far di conto? Certamente sì. Con qualsiasi altro maestro. A quel tempo la sensibilità
della scuola e dei suoi operatori verso gli aspetti “emotivi” e “relazionali”
dell’insegnamento erano al grado zero. Zero assoluto. Ben diverso mi pare di
capire sia stato per Claudia De Lillo. Di quel maestro, in verità, mi vien poco
altro da aggiungere. Guardando la sua foto - che sembra quasi seguirmi nel
mentre transito per le visite ai miei cari - in quel posto di pace mi sovviene
del sacro terrore che il suo ingresso in aula suscitava a quegli innocenti
bimbetti di allora, quali noi si era. E venne così il mio ingresso nella scuola
media, al tempo non unica, ché esisteva il cosiddetto “avviamento”, una “scuola
di classe” destinata ai meno fortunati di quel tempo andato. Ne ho un
ricordo così nebbioso e sfumato che le figure di quasi tutti quegli insegnanti
sfilano come spettri indistinti, senza caratterizzazione alcuna, tra le volùte
di nebbia che si innalzano a rendere quasi irreale quel tempo andato. Ne
riservo un solo ricordo, quello del mio professore di lettere E.V., che nella sua
complessione fisica si avvicinava – anch’egli non è più di questo mondo - moltissimo
al ricordo del mio maestro P.C. È che il professor E.V. me lo sono ritrovato, tantissimi
anni dopo, io già adulto, quale preside di scuola media all’inizio della mia
attività d’insegnamento. Anche al tempo della scuola media nessuna attenzione
che sia alla sfera “emotiva” e “relazionale” di quell’arte sublime che
è l’”educare”.
Scrive Claudia De Lillo dei Suoi ricordi di scuola Media: In terza media c'era Paola,
un'altra signora, capace di destreggiarsi tra i grovigli dell'adolescenza e di
aprire crediti anche là dove nessuno li avrebbe concessi. E qui colgo
il “buco
nero”, che ha risucchiato gli anni della mia scuola media al pari, mi
pare di capire, di quella di Elasti. Solo alla terza media, infatti, Elasti
scrive di una nuova disponibilità dell’istituzione scuola per concedere “crediti
anche là dove nessuno li avrebbe concessi”. Così ricorda Elasti le
scuole cosiddette superiori: Alle superiori c'era Salvatore, un latinista
iracondo e di grande fascino, che stilò un index verborum proibitorum che
appese accanto alla lavagna, diffidandoci dall'uso di evitabili inglesismi, di
verbi con troppe zeta, che lui chiamava sprezzante "verbi zanzara", e
di aberrazioni linguistiche che avrebbero svilito la nostra lingua oltre che, a
suo dire, la nostra integrità intellettuale e morale. Mi ricordo poi di
Antonia, che amava la storia e la filosofia, ci parlava delle idee platoniche e
sussurrava, materna: "Bòn, dai, su!", al cospetto delle nostre
reticenze durante le interrogazioni. Serbo memoria nitida di una Carla che
insegnava chimica e, durante la guerra, aveva fatto la Resistenza. La incontrai
qualche anno fa, alla manifestazione del 25 aprile: quasi novant'anni e, tra le
braccia, un gonfalone dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia. Ognuno
di noi, nella sua formazione, ha incontrato un'Irene, una Paola, un Salvatore,
un'Antonia e una Carla che hanno lasciato tracce profonde del loro passaggio,
che danno un senso più alto alla scuola, al verbo insegnare, all'impegno e
all'esempio. E qui convengo con Elasti. Alle scuole superiori da me
frequentate ho avuto la fortuna – ché di fortuna bisogna parlare, nello zero
assoluto che la scuola superiore accordava agli aspetti che non fossero il mero
trasmettere le nozioni disciplinari - ho avuto la fortuna, dicevo, d’incontrare
F.M., mio insegnante di lettere. Solamente di F.M. ho conservato un ricordo
carico di un’umanità che ancor oggi mi scalda il cuore. Anche degli insegnanti
di quella fascia le sagome sono ombre che sembrano sfilare nei miei ricordi
come avvolte dalle volùte più spesse di una nebbia a momenti impenetrabile. Con
F.M. ho continuato a coltivare un rapporto che ha arricchito di umanità il mio
vivere e che mi ha spinto a privilegiare, nella mia attività d’insegnante,
quegli aspetti – delle “relazioni” e della “emotività”
- che mi sono stati negati nella mia vita di scolaro e di alunno. Al compimento
dei Suoi “primi ottant’anni” F.M. ha voluto incontrare, nella Biblioteca
Comunale della mia città, in un pomeriggio indimenticabile, amici ed ex Suoi
alunni per donare – Lui a noi, ancora una volta - un inatteso Suo volume - editato
in proprio - che ha per titolo “I miei
primi ottant’anni”. Per l’appunto. Nella occasione, nella generale, grande
emozione, ho pensato di rendergli omaggio dedicandogli una citazione – che ho
letto nel corso del pubblico incontro – tratta da una indimenticabile lettura -
“Essere insegnanti, divenire maestri”
del professor Raniero Regni –, lettura fatta sulla rivista di problematiche
scolastiche “School in Europe”, probabilmente oggigiorno scomparsa: Un
maestro ti aiuta a conquistare uno stile, ovvero il contrassegno di quello che
sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il
tuo. I grandi maestri (…) arano a fondo nel terreno dell’umano, sono primitivi
e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire
dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro
strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la sua e percorrerla. F.M.
è stato un “Maestro”. Il mio “Maestro”. Un grande. Gli altri,
ombre che vagano indistinte ed irrilevanti sullo scenario della mia memoria.
lunedì 6 maggio 2013
Cronachebarbare. 11 I nuovi mostri: pacificazione e necessità.
Si era sempre rimproverato
all’uomo di Arcore la mancanza del “senso” – tra tutti i sensi in suo possesso
- dello Stato. Gli si era pure rimproverata la mancanza di una “virtù”
– minore forse, ed oggi alquanto disconosciuta - ovvero quella di dire non la “verità”,
il possesso della quale connoterebbe una condizione che non è per gli umani,
per la qualcosa la lasciamo appannaggio dei chierici di tutte le confessioni,
ma la capacità di dire con sincerità come procedessero le cose nella conduzione
della cosa pubblica. Tanto gli si è sempre rimproverato. Ché tutte queste sue
insufficienze – tanto da non poterlo considerare mai e poi mai un uomo di stato
– non fossero presenti ai soloni dell’”antipolitica” oggi al potere? Ché
il popolo minuto ne fosse consapevole e di conseguenza avesse orientato le sue
scelte elettorali non sarebbe stato motivo buono e bastevole per non
intraprendere azione comune con l’uomo di Arcore? È la tracotanza del potere ad
aver dettato le scelte ultime all’”antipolitica” al potere nel bel
paese. E sì che sarebbe stato chiarissimo il ruolo che l’uomo di Arcore avrebbe
svolto nelle circostanze – Quirinale e formazione del governo -. Gli si deve in
questa occasione riconoscere una qualità: la “specchiatezza” – orrendo
neologismo? - del suo comportamento che,
senza infingimento alcuno, ha dettato le regole all’”antipolitica”. E tutti
proni ai suoi voleri. Ha scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 1° di maggio un pezzo magistrale
che ha per titolo “Il vero padrone è il
Cavaliere”: È il linguaggio di verità sul patto con Berlusconi che manca. Gli
italiani (compresi gli 11,5 milioni che si sono astenuti, per rassegnazione o
rabbia) hanno condannato vent’anni e più di politica offesa da tornaconti
partitocratici. Sono stati ignorati: la politica sarà rimaneggiata non dai loro
rappresentanti ma da pochi cosiddetti saggi, di nuovo, che pretendono di sapere
più degli altri per potere più degli altri. Sarà verità sovversiva, dice Letta,
e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush
iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che
imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono. Ne citiamo
solo due: la parola riforma, sinonimo ormai di tagli ai servizi pubblici; la
responsabilità, per cui la compromissione è necessità naturale che esclude ogni
alternativa. Oggi l’eufemismo che imbellisce ed adorna il fatto
traumatico per qualsivoglia democrazia elettorale è “pacificazione”. “Pacificazione”?
Pacificare chi? Ed i contendenti dove stanno? E chi li ha guidati allo scontro
tanto da invocare oggigiorno una “pacificazione”
tra le parti? Un linguaggio belluino, che nega la responsabilità che
dovrebbe essere propria degli uomini dediti alla politica alta. Ha scritto
Nadia Urbinati – al semplice ed immediato sentore dell’inghippo che si sarebbe
preparato – sul quotidiano la Repubblica del 28 di aprile – col titolo “Pacificazione e impunità” -: La
pacificazione ha un senso in situazioni di guerra civile (…). È un dopo-guerra
nel senso più pieno. Se dunque la pacificazione entra ora in scena è perché uno
dei partner dell' accordo si sente in guerra e ha sempre interpretato la sua
condizione nei confronti della giustizia come una guerra. Il cui esito non può
che essere la pacificazione. Non per il bene del paese: ma per chiudere la
"guerra" che il Cavaliere dice di avere con la magistratura.
Pacificazione dei suoi contenziosi con la giustizia italiana. La più completa
pacificazione sarebbe quella che il Cavaliere otterrebbe se non soltanto i suoi
processi fossero congelati ma se la sua persona fosse messa al riparo per
sempre da ogni possibilità di riaprirli: la nomina a senatore a vita sarebbe il
suggello della pacificazione. Se non si ha chiara questa diversità di ragioni
strategiche che stanno dietro a questo nascente governo delle larghe intese,
questa alleanza farà solo il beneficio di un partner, regalandogli quello che
nessun comune cittadino può aspirare ad avere: l'impunità. Hanno un bel
dire i turiferari prestamente messisi all’opera. Delle parti messesi assieme
nell’ibrido politico di queste settimane una potrà, anche in un futuro non
lontano, rivestirsi di quella “specchiatezza” nei comportamenti e
nelle regole imposte della quale prima si è parlato. Ma che dire invece di
quella parte che con tracotanza, inadeguatezza ed insensibilità “politica” si è
acconciata alle regole imposte dalla spavalderia e dall’arroganza, sempre
ostentate, di quelli che un tempo si era soliti definire “avversari” irriducibili
con i quali mai e poi mai noi…? Spudoratezze che costeranno care, molto care.
Ché non si conoscesse il significato recondito ed il prezzo da pagare per la
tanto invocata “pacificazione”? E chi di noi si ritiene oggi persona da
pacificare? I più accorti tra i turiferari ricorrono ad altri eufemismi. Primo
tra i tanti “stato di necessità”. Ne ha scritto saggiamente sul quotidiano
l’Unità del 5 di maggio lo storico della filosofia Michele Ciliberto col titolo
“Oltre lo stato di necessità”. Lo
trascrivo in parte: Pensiamo alle previsioni che si facevano tre mesi fa: una forte
affermazione del Pd; la guida del governo al segretario di questo partito,
gloriosamente acclamato alle primarie; una prospettiva politica e governativa
nettamente alternativa al Pdl; l’elezione, infine, di un nuovo Capo dello Stato
al posto di Giorgio Napolitano. Di tutto questo non è accaduto niente: il Pd ha
perso quasi quattro milioni di voti; il suo segretario si è dimesso; al posto
suo Giorgio Napolitano, riconfermato alla presidenza della Repubblica, ha
incaricato un altro esponente del Pd prescindendo completamente dai risultati
delle primarie; è stato costituito un governo di larghe intese fra Pd, Pdl e
Scelta civica. Come in una sorta di specchio maligno, tutte le previsioni sono
state rovesciate, una per una: un sogno o un incubo, a seconda dei punti di
vista. In genere, tutti però sembrano d’accordo nel sostenere che questo
rovesciamento ha ragioni «obiettive». Lo giustificano, cioè, facendo appello al
principio di «necessità»: non ci sarebbero state altre strade. Come se una
giustificazione di questo tipo – quando fosse accettata – non significasse,
paradossalmente, che siamo in balia degli eventi, che non sappiamo dove stiamo
andando, che una forza più grande delle volontà e dei progetti dei singoli
partiti si impone sottomettendo ogni cosa a se stessa – secondo movimenti e
processi che appaiono, appunto, imprevedibili -. E non confermasse, insomma,
che siamo nel pieno di una crisi organica, nel senso stretto del termine. Ma
pur accettato il criterio della «necessità», e che fosse effettivamente
necessario seguire la strada che si è scelta, vanno segnalate, e distinte con
forza, le responsabilità delle classi dirigenti che hanno governato l’Italia – (…)
– e che ci hanno condotto in questa situazione. È loro responsabilità non avere
capito che cosa si muoveva nel fondo del Paese; così come è loro responsabilità
non avere approntato politiche in grado di contenere la crisi sociale, salvo
martellare i ceti più deboli e più indifesi: quelli che da sempre pagano i
prezzi più alti, quando la crisi dilaga nel modo più aspro e più violento; è
loro responsabilità infine non aver posto su basi serie il problema del
rapporto tra Italia ed Europa. Questo è lo stato delle cose. Che fare,
allora? La cosa più sbagliata sarebbe considerare ordinaria l’impossibilità di
prevedere; arrendersi al principio di «necessità»; continuare a sostenere la
logica – se così si può chiamare – della mancanza di alternative, dell’assenza
di strade differenti; rassegnarsi insomma al «grado zero». Come se questa
accettazione dell’esistente non fosse poi, a sua volta, una scelta, una
politica: quella della «necessità» è infatti un’ideologia come le altre, e come
tale va decifrata e criticata. Mentre invece – e dovremmo averlo imparato in
Italia, anche dalla storia recente – le democrazie vivono di differenze, di
contrasti, anche di conflitti. (…). Ecco il punto cruciale, dirimente:
e della democrazia che si suol definire “partecipata”? Che senso avrà chiamare,
in un futuro prossimo, i cittadini alle scelte primarie per farne strame
successivamente e riducendo quel popolo elettore e partecipante allo stato di
un’accozzaglia imbelle, secondo l’intuibile e non tanto mascherata considerazione
che di esso ha l’”antipolitica” al potere?
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