Riporta il professor Umberto
Galimberti in “La profonda affinità tra cristianesimo e marxismo” del 24 di
marzo 2012, sul numero 784 del settimanale “D”: Scrive il filosofo cattolico
Jacques Maritain in "Umanesimo integrale": - Si può criticare
efficacemente il marxismo solo rimanendogli, sotto molti punti, debitori -. Tra
cristianesimo e marxismo c'è una profonda e sotterranea parentela che non
consiste tanto nella pretesa di educare l'umanità, quanto in una concezione del
tempo, non più cadenzato sui cicli della natura, come lo era per i Greci, ma
sui processi della storia carichi di promesse salvifiche, utopiche e
rivoluzionarie. Se non si comprende questo, si rimane, come i più rimangono, in
quella visione superficiale che contrappone il cristianesimo al marxismo sulla
base dell'affermazione o della negazione dell'esistenza di Dio, che marca la
differenza e nasconde quella sotterranea visione del mondo che li accomuna. All’approssimarsi
della Pasqua cristiana i termini della riflessione proposta dall’illustre
Autore tornano nella loro pregnanza. Ed è da quei termini che bisognerebbe
ripartire oggi che le ideologie sono date per morte e che le moltitudini
brancolano come se avessero perduto il senso della loro Storia e delle loro
vite. Un brancolare che sino allo scoppio della “crisi” trovava una parvenza
di appiglio – e di incerta salvezza - nella fatica del “consumare”, fatica che
non trova oggigiorno più possibilità e senso stretti come si è nella tenaglia
economico-finanziaria che stritola singoli e comunità. E quel qualcosa che
accomuna le due visioni della vita e della storia, seppur all’apparenza
contrastanti, trova ragione d’essere nella misura in cui esse, quelle visioni,
sono state e permangono come anelito non riposto per un egualitarismo tra tutti
gli esseri umani che sia intuibile e sperabile. Ambedue le visioni sono state
(e lo sono tuttora) portatrici di quelle “promesse salvifiche, utopiche e
rivoluzionarie” che solamente le grandi ideologie sono capaci di far
permanere nonostante l’indifferenza sovrana ed imperscrutabile del cosmo che ci
circonda e lo scorrere inarrestabile del tempo. È che le “
strutture e le sovrastrutture”
che quelle due ideologie hanno artatamente costruito nel corso della
loro storia le hanno portate a contrapporsi come avversari irriducibili, ché la
sola scomparsa dell’uno avrebbe concesso credibilità maggiore all’altro,
risultato il vincente. Ed invece è potuto accadere che ambedue oggigiorno
trovino le loro strade ingombre delle macerie di quelle “strutture e sovrastrutture”
rovinosamente cadute a pezzi. Ha scritto Tahar Ben Jelloun nel Suo volume “La scuola o la scarpa”: Il
cielo non ama i poveri. Nessuno li ama. È ingiusto e crudele. Ma cosa
significa, poi, essere poveri? Significa risvegliarsi, il mattino, chiedendosi
se la giornata passerà senza che i bambini piangano per la fame. Significa non
avere fortuna, o più precisamente non avere nulla, neanche fave per i tempi di
siccità. Significa non avere che le proprie mani, le proprie braccia e grandi
occhi per controllare l’orizzonte. Qui, tutti hanno gli occhi rivolti
all’orizzonte. Si pensa che il salvatore venga da lì. Si crede anche che le
carestie siano un’invenzione degli uomini. A che cosa deve assomigliare un
salvatore? A un branco di cammelli che porti cibo a tutto il villaggio? A un
mago su un cavallo, con una bacchetta magica capace di rendere la terra fertile
e gli uomini più produttivi? A un uccello rapace che rinunci alla sua rapacità
e sappia trasformare le nuvole in
pioggia? A un profeta che parli del bene e del male, del paradiso e
dell’inferno, e prometta la fine della miseria, a patto che si obbedisca ai
suoi ordini? No, il salvatore non sarà né un profeta né un mago. Sarà l’insieme
degli uomini che si uniscono, lavorano la terra, reclamano i loro diritti e
impediscono che la carestia colpisca il villaggio. E la storia sta lì a
parlarci di questo non-amore rivelato per i “poveri”, anzi per
l’umanità tutta che stia fuori dalle “strutture e sovrastrutture” create con
e per le ideologie imperanti e che hanno contribuito a creare elite di
privilegiati e di indifferenti. Scrive ancora il professor Galimberti: A
differenza dei Greci, per i quali il tempo, in quanto eterna ripetizione dei
cicli della natura, non ospitava alcun senso, per la tradizione
giudaico-cristiana, il tempo è fornito di "senso" dove, come scrive
Salvatore Natoli in Teatro filosofico (Feltrinelli): "alla fine si
realizza ciò che all'inizio era stato annunciato". E quando il tempo è
fornito di un senso, nasce la "storia", dimensione del tutto assente
nel mondo greco, dove gli "storici" Erodoto, Tucidide, si limitano a
narrare le vicende di cui furono testimoni. Del resto la parola
"hístor", in greco, significa "testimone". Una volta
tradotto in storia, gli eventi che accadono nel tempo sono sottratti alla loro
insignificanza e proiettati in una finalità: che per il cristianesimo è la
salvezza che si realizza nell'altro mondo e per il marxismo il miglioramento
della condizione umana da realizzare in questo mondo. Per quanto differenti
siano gli obiettivi, ad accomunare le due visioni del mondo è la visione
"escatologica" del tempo, dove alla fine (éschaton) si realizza
quello che il cristianesimo annuncia e il marxismo si ripromette. La promessa
cristiana non ha verifiche e la promessa marxista è storicamente fallita, ma
non è esaurita la visione ottimistica della storia con cui il cristianesimo ha
animato l'Occidente, contagiando col suo ottimismo la scienza che guarda il
futuro non alla maniera greca come eterna ripetizione del passato, ma come
"progresso", la sociologia come miglioramento delle condizioni umane,
e in generale tutti i saperi le cui ricerche sono promosse dalla fiducia nel
futuro che il cristianesimo e non altri ha istillato nella nostra cultura. Ma
se è vero come ha annunciato Nietzsche che "Dio è morto", perché
"non fa più mondo", dal momento che se tolgo la parola
"Dio" non ho difficoltà comprendere il mondo contemporaneo, mentre se
tolgo la parola "denaro" o la parola "tecnica" con tutta
probabilità non capirei più come si muove il mondo, allora anche l'ottimismo
che il cristianesimo ha immesso nella cultura occidentale, si spegne e, dalla
"storia" carica di senso, si torna al "tempo" come
successione di giorni senza finalità. Il denaro e la tecnica, infatti, non
hanno altro scopo che il proprio accumulo (il denaro) e il proprio
autopotenziamento (la tecnica), per cui non sono più "mezzi" per
conseguire una finalità, ma, come oggi constatiamo sulla nostra pelle, "fini"
da raggiungere in sé e per sé. Chi non si rassegna a vivere in un tempo senza
finalità, chi non rinuncia a una visione escatologica del tempo come il
cristianesimo e come il marxismo: non vedo che difficoltà si frapponga a un
loro incontro, magari in nome del Vangelo, dove ai poveri era promesso un
riscatto in "nuovi cieli e in nuove terre" per il cristianesimo, su
questa terra per Marx. Ora che le macerie di quelle “strutture
e sovrastrutture” ingombrano il cammino degli uomini e ne impediscono
una rinascita non resta che essi, tutti gli uomini di buona volontà di questo
mondo, come un sol uomo, si mettano a spalare di buona lena quelle macerie, si
uniscano come fratelli, lavorino operosamente la terra, reclamino i loro
diritti e impediscano “che la carestia colpisca il villaggio”
degli umani.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 30 marzo 2013
giovedì 28 marzo 2013
Cronachebarbare. 8 Le “troie” di B* e la scarnificazione del pensiero.
È pur vero che gli sarebbe richiesto
un linguaggio diverso e, si sarebbe detto appena quindici mesi addietro, più “sobrio”.
Ma abbiamo visto la tristissima fine della “sobrietà”. Si è come volatilizzata,
disciolta ai primi raggi di sole. Il contagio del potere non risparmia nessuno.
Diciamoci però la verità: ma “sobrio” perché? La signora Boldrini
ha avuto modo di dire essersi trattato di offesa alle istituzioni. Ma quali
istituzioni? È che quelle istituzioni, alle quali la signora Boldrini allude,
hanno da tempo perso la rispettabilità loro dovuta. E non per colpa di un dio
cattivo, quanto per il loro essere e fare. Ed allora non scandalizziamoci più
di tanto, sfuggiamo se è possibile alla più perversa delle ipocrisie. È questa,
anzi, un’ottima occasione per dire come il distacco tra il popolo e la “casta”
possa ritenersi annullato: infatti, milioni e milioni di italiani, ovvero
rappresentanti del cosiddetto popolo sovrano, avranno connotato e denominato i
tanti comportamenti di alcuni rappresentanti di quella “casta” proprio con il
termine usato da B.; altro che storie di rispettabilità delle istituzioni! Per
non dire poi della grave colpa nella quale è incorsa negli anni la “casta”,
ovvero a quella sua opera nefasta che ha generato la “scarnificazione”, come
vado ripetendo da tempo, del pensiero complesso ed anche di quello meno
complesso nella società del bel paese. Cosa ci si doveva aspettare da una tale
mortifera pratica dell’antipolitica che è al potere? L’antipolitica è lì,
seduta, incollata su quegli scranni. Ha scritto Nadia Urbinati il 3 di
settembre dell’anno 2012 – sul quotidiano la Repubblica, “Il cortocircuito dell’insulto” -: (…). Odio e violenza verbali
hanno scandito la nostra storia politica in questi anni di transizione. Anni di
transizione incompiuta dalla democrazia dei partiti di massa a qualcosa di cui
nessuno sa ancora vedere i contorni, da quando odio e violenza erano domati
all’interno di narrative ideologiche che consentivano a chi le condivideva di
imbastire discorsi, nei quali gli avversari non erano le persone ma le idee per
le quali le persone si spendevano. La politica delle idee è una politica di
civiltà perché induce i cittadini a trascendere la dimensione personale - a
comportarsi e sentirsi come rappresentanti delle idee che condividono; ad avere
avversari, mai nemici da distruggere. Dalla fine dei partiti tradizionali
questa civiltà della rappresentanza, della separazione tra dimensione personale
e dimensione politica è decaduta. L’antipolitica è una conseguenza di questa
decadenza, (…). Chiaro? Non si scandalizzino perciò i signori al
potere, espressione dell’antipolitica per l’appunto. Scarnificato ben bene il
pensiero delle masse l’unica mezzo per comunicare con esse è il parlare da bar,
da curva dello stadio, da discoteca assordante. E B., che è uomo dello
spettacolo sino in fondo, capisce e conosce la via per comunicare con un
pensiero scarnificato ma intellegibile dai più, dai tanti. Oggigiorno si sa come
la comunicazione faccia presa solo ricorrendo a quel parlare che ha inorridito
i più (ma solamente a parole, credetemi. Del resto basterebbe leggere le
intercettazioni giudiziarie di lor signori per rimanerne esterrefatti). A meno
che: a meno che tutti gli elettori, ma proprio tutti ed in special modo quelli
di una certa parte politica, non siano di colpo divenuti appassionati lettori
del professor Zagrebelsky, del professor Rodotà, o per dire, del professor
Franco Cordero. Ma via, non burliamoci a vicenda. Di clowns ne abbiamo a iosa.
Chi oggi si scandalizza per la battutaccia di B. dovrebbe assumersene tutta
intera la responsabilità, invece d’apparire stupefatto e contrariato. Sono
sicuro, infatti, che milioni e milioni d’italiani non leggono quanto quegli
esegeti da me citati vanno scrivendo e denunciando, anzi inclinano a pensare ed
a parlare come l’onesto, favoloso signor B. Oggigiorno la riuscita “scarnificazione”
del pensiero avrà, come risultato ultimo, l’indifferenza generale dinnanzi a
quel “troie”
che la dice lunga sullo stato delle cose della politica nel bel paese e che tanto
ha scandalizzato gli occupanti di quel Palazzo. Scriveva ancora Nadia Urbinati
nel Suo pregevolissimo pezzo: I candidati, i leader e i cittadini che con
loro si identificano hanno in questi anni di decadenza della politica dei
partiti cominciato a “metterci la faccia”, come si sente dire spesso, la loro
faccia personale, a parlare in prima persona sfoderando le emozioni più intime
e gusti privatissimi, cose dalle quali non si può né dissentire né convenire,
proprio perché personali e non mediabili. Tutti come sovrani assoluti in un
gioco di parole al massacro che non fa prigionieri. Le trasmissioni di
“approfondimento” hanno fatto la loro fortuna mettendo in scena questo tremendo
circolo vizioso di istigazione alla violenza verbale e denuncia dei suoi
effetti devastanti. La pubblicità è assicurata in entrambi i casi. E allora, i
gusti, le opinioni di pancia, le caricature dell’avversario, la distruzione del
carattere, il dileggio e il disprezzo sono diventati le componenti del
discorso, che discorso ovviamente non è. Questa privatizzazione del linguaggio
politico ha spalancato le porte alla pratica dell’insulto, con l’uso delle
parole brandite come clave e dei decibel usati come strategia per imporre il
silenzio. L’arena politica come un Colosseo. E la società civile stessa, dalla
carta stampata ai blog, come un ring nel quale non si valutano e discutono le
preferenze o le opinioni, ma si manda a ko o si distrugge moralmente chi non la
pensa allo stesso modo. Tutto questo per fare spettacolo, per attirare
l’attenzione, per crescere nei sondaggi. (…). Succede (…) che abitare in una
società democratica allena anche senza premeditazione alla riflessione, al
pensare con la propria testa, al rivendicare i limiti del potere, quale che
esso sia. (…). Con un certo sollievo teorico osserviamo che in democrazia non
c’è proprio modo di ingessare una condizione per sempre, di replicarla senza
rischio di vederla contestare, di accumulare consensi senza pagare il costo del
dissenso, di vincere solo e mai perdere, di crescere e mai calare nei sondaggi.
(…). Fine dell’illuminante citazione. Spero di non avervi tratto in
inganno: il signor B. in questione – che ho asteriscato nel titolo del post – è
il favoloso Franco Battiato.
martedì 26 marzo 2013
Lamemoriadeigiornipassati.3 “Il 26 di marzo dell’anno 2011”.
Il 26 di marzo dell’anno 2011,
imperversando il signor B., Giacomo Papi scriveva una “cronaca ingenua” che ha
per titolo “Il corredo”. La
pubblicava sul settimanale “D” nella rubrica “Cose che non vanno più di
moda”. Scriveva G. P. nell’occasione: Da
almeno cinque anni, l'Italia vive un boom del credito su pegno, il numero di
oggetti impegnati cresce, ma le tipologie di beni impegnabili diminuiscono. I
pegni si rimpiccioliscono e appesantiscono. Oggi si fa credito soltanto a
gioielli, pietre e metalli preziosi, oggetti senza valore d'uso ma con un alto
valore di scambio, oggetti, cioè, che assomigliano al denaro, l'unico possesso
che quando ti scivola dalle mani ti fa possedere altre cose, che serve perché
si usa, non se sta fermo. Eppure in quel tempo, che sembra essersi
perso nelle profondità oscure della Storia, qualcuno aveva l’ardire di negare
l’innegabile, di sproloquiare di “ristoranti pieni” e di “voli
vacanzieri” sempre al completo. E sì che da quella data, a pochi mesi
dopo, quel bontempone sarebbe stato sollevato e mandato via non da un risultato
elettorale ma da un “diktat” dei liberi mercati. Oggi, 26 di marzo di appena
due anni dopo quella cronaca, ricompare baldanzoso e pronto a bruciare,
sull’altare del suo personale tornaconto, le residue speranze di salvezza del
bel paese. A quel tempo, annota Giacomo Papi, le famiglie che avessero avuto
bisogno i dare in pegno altro che non fossero monili e preziosità varie avrebbero
incontrato grandi difficoltà sul “mercato amaro del bisogno”; la Sua memoria di
quel tempo rimanda alla pratica diffusa, in ben altre epoche storiche, di
portare ai cosiddetti “pegni” la ricchezza della famiglia, ovvero il “corredo”
ricevuto al momento del matrimonio o preparato per le figlie da maritare. “Care”
ricchezze familiari che non trovano più, nei cosiddetti mercati globalizzati,
un apprezzamento di valore. Facevano capolino a quel tempo le nuove attività
del “compro
oro”. Dalle cronache più recenti ho appreso che in quel mercato selvaggio
– e reso tale dal bisono degli individui e delle famiglie - del “compro
oro” qualcuno, sprofondato in disagiate condizioni economiche, ha
pensato d’impegnare l’oro contenuto nelle protesi dentarie. Una cronaca da
brivido! I nuovi “compro oro” si saranno attrezzati alla bisogna ricorrendo alla
pratiche dei “cava-denti” di un tempo andato? Di seguito il resto della “memoria”
di Giacomo Papi.
Il tramonto del corredo si
declina ovunque. Nelle migliaia di negozi "Compro oro" che, innaffiati
dalla crisi, spuntano in ogni città d'Italia e nei Monte di pietà ufficiali,
controllati dalla Banca d'Italia e gestiti dalle banche. Non esiste un
regolamento che lo vieti espressamente, ma è dagli anni 80 che biancheria e
filati, per quanto preziosi, vengono rifiutati. Per questo, pullulano nei
mercatini dove si può comprare anche il passato degli altri. La domanda è: per
quale ragione una forma di finanziamento così antica (…) ha ristretto in modo
così radicale l'ambito degli oggetti in cambio dei quali si può prestare
denaro? Esiste una ragione merceologica o è il sintomo di una trasformazione
profonda della nostra attitudine verso le cose? Forse, ho pensato, le ragazze
hanno perso interesse per asciugamani ricamati e lenzuola preziose. E certo, in
effetti, i corredi tramandati dalle bisnonne si sono dispersi o consumati, e
oggi appaiono incomparabilmente meno indispensabili. Poi ho fatto ricerche e ho
capito che il corredo si eredita o compra ancora, ma ha cambiato completamente
il suo modo d'essere. Non è più necessario che duri tutta la vita e che si
possa lasciare alle figlie perché, alla peggio, si ricompra più bello. A
eccitare le future spose è l'idea di ereditarlo o farselo per negozi con la
mamma. Esattamente come per il matrimonio, l'attitudine è quella di chi vuole
provare un'esperienza perché una volta nella vita va provata, anche se non
durerà per sempre, anzi, forse proprio perché non durerà per sempre, perché
forse niente dura per sempre tranne il presente, tranne quello che provi. Va in
scena una progressiva e silenziosa translazione dal capitale al consumo, dal
possedere all'acquistare, dall'avere al prendere. Il tempo lungo della
proprietà lascia spazio al brivido breve dell'acquisto. La rassicurazione
dell'avere cede il passo all'ebbrezza del comprare. Durare non è più un
attributo delle cose che hanno valore. La permanenza svanisce in un presente
assoluto. Scrisse Junichiro Kawasaki, il poeta: "D'inverno è nudo il ramo
dei mandorli in fiore". Perché nelle cose rimane incastrata la presenza.
(…). Resta l'assenza di cui è impregnata ogni cosa che esiste.
P.s. Le cronache di stamane, 26
di marzo dell’anno 2013 – Francesco papa -, informano dell’avvenuta conferma
della condanna, in appello, per il sodale del signor B.: 7 anni di galera!
sabato 23 marzo 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 2 “Il 23 di marzo dell’anno 2011”.
Che ne è stato della Libia?
Sparita dalla cronaca del nostro tempo. Rimane il ricordo del suo “conducator”,
ferocemente trapassato. Cancellata la Libia dalla nostra memoria, dai nostri
interessi. Fino a quando una delle risorse naturali da essa esportata non metterà
a grande rischio la nostra vita quotidiana, il nostro stile di vita, il nostro
apparente “ben-essere” – l’uso del trattino è decisamente intenzionale -.
Per il resto l’”indifferenza”. I più proveranno a dire: ma con tutto ciò che
ci coglie in questi giorni di tregenda – che minaccia tempesta in arrivo - vai
a ripensare alla Libia? Sono convinto che le cose che accadono in questi giorni
abbiano legami profondissimi anche con i giorni che definiamo passati. Sono
convinto che di passato, nella storia degli umani, non c’è un bel niente. Tutto
si tiene. In quel giorno, il 23 di marzo dell’anno 2011, Barbara Spinelli
pubblicava sul quotidiano la Repubblica un Suo editoriale che ha per titolo “Il crimine dell’indifferenza”. Di
seguito lo ripropongo in parte. Potrebbe apparire esagerata la titolazione del
pezzo. Ma gli esempi che l’illustre opinionista porta al Suo ragionare, rubati
alla Storia degli umani, hanno il pregio di richiamare alla memoria fatti e
misfatti che solamente l’”indifferenza” – criminale per
l’appunto - ha consentito che accadessero. E poi, perché non richiamare alla
memoria il comportamento leggero ed equivoco di chi allora era stato posto a
capo delle relazioni internazionali? E di tutta una “casta” politica? Del
resto il comportamento di questi giorni, truffaldino e maccheronico, dei
reggitori della cosa pubblica nei confronti dell’India non è una prova che
tutto si tiene? L’idea di questa rubrichetta è, intenzionalmente, quella di non
nascondere sotto il tappeto le briciole del vivere e di tornare a riflettere
sugli accadimenti della nostra Storia.
(…). Memorabile fu quel che disse
il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la
Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono
frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo
usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far
terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser
dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia
disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la
banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann
Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza. L’Onu
nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni
unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1.7, ma nello stesso
paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica
l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che
chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla
pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli
consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree,
navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire
la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni,
blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri
delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7). Le Nazioni Unite hanno
commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di
omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi
Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente
nel ‘94. (…). Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che
possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è
impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi
usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur
mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta
sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. (…). È il principio
invocato in questi giorni a proposito della Libia. A partire dal momento in cui
questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe
e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei
Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è
difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle
guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è
in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far
scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È
questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la
domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio,
in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il
mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha
estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri
Michèle Alliot-Marie? Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si
moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza.
In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo
invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale
molti perdono la bussola. (…). Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel
che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di
Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di
rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai
d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre
al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e
ubbidisce». Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da
clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già
la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa
discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. (…). Ha
detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia
fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli
organizzati come i fondamentalisti islamici. Pensando all’Italia, ho avuto
l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa
conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo
qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di
amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi,
come Gheddafi, politicamente immortali.
mercoledì 20 marzo 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 1 “Il venti di marzo dell’anno 2010”.
A fianco. Bruegel: "La parabola dei ciechi".
Penso d’aver compiuto una impresa ciclopica: ho risistemato cronologicamente il mio “tesoretto” di vecchi ritagli dei settimanali e dei quotidiani. Un’impresa che avevo in animo di realizzare da lungo tempo e che avevo sempre procrastinato. Complice la stagione non ancora primaverile ci sono riuscito. Una conquista. Ciò mi consente di accedere a quei ritagli secondo il calendario corrente, ma con una particolarità: rileggerò e proporrò letture di un tempo che sembra andato, perduto. Un modo come un altro per coltivare la memoria, in un tempo nel quale essa ottiene poco spazio e nessun ascolto. Ha lasciato scritto il grande Elias Canetti (1905-1994) nel Suo volume “Auto da fé”: “La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità, tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi – miseri sia per la loro natura sia per la loro acutezza -. Il principio dominante del cosmo è la cecità. Proprio essa rende possibile la presenza, l’una accanto all’altra, di tante cose che non potrebbero coesistere se si potessero vedere reciprocamente. Essa permette di troncare lo scorrere del tempo quando non si è in grado di tenervi testa. (…). Il tempo è una grandezza continua, e c’è solo un mezzo per sfuggirgli. Astenendosi di tanto in tanto dal guardarlo, lo si frantuma nelle schegge che di esso si conoscono”. Per l’appunto: lo scorrere del tempo che tutto ricopre e seppellisce sotto l’incalzare impetuoso ed incessante del vivere. Questa rubrichetta senza pretese ha lo scopo di riscoprire una memoria salvata non in tomi oramai polverosi ma in semplici, modesti ritagli di carta. È la carta che prova a restituirci una memoria che non è più tale. Si parta. Il 20 di marzo dell’anno 2010 il professor Umberto Galimberti pubblicava sul numero 686 del settimanale “D” una riflessione che ha per titolo “Assenza di gravità”. La ripropongo di seguito nella sua interezza. Scopriremo in essa un qualcosa che abbia a che fare con il nostro periglioso presente? E se non fossimo stati ciechi quel 20 di marzo dell’anno 2010?
Penso d’aver compiuto una impresa ciclopica: ho risistemato cronologicamente il mio “tesoretto” di vecchi ritagli dei settimanali e dei quotidiani. Un’impresa che avevo in animo di realizzare da lungo tempo e che avevo sempre procrastinato. Complice la stagione non ancora primaverile ci sono riuscito. Una conquista. Ciò mi consente di accedere a quei ritagli secondo il calendario corrente, ma con una particolarità: rileggerò e proporrò letture di un tempo che sembra andato, perduto. Un modo come un altro per coltivare la memoria, in un tempo nel quale essa ottiene poco spazio e nessun ascolto. Ha lasciato scritto il grande Elias Canetti (1905-1994) nel Suo volume “Auto da fé”: “La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità, tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi – miseri sia per la loro natura sia per la loro acutezza -. Il principio dominante del cosmo è la cecità. Proprio essa rende possibile la presenza, l’una accanto all’altra, di tante cose che non potrebbero coesistere se si potessero vedere reciprocamente. Essa permette di troncare lo scorrere del tempo quando non si è in grado di tenervi testa. (…). Il tempo è una grandezza continua, e c’è solo un mezzo per sfuggirgli. Astenendosi di tanto in tanto dal guardarlo, lo si frantuma nelle schegge che di esso si conoscono”. Per l’appunto: lo scorrere del tempo che tutto ricopre e seppellisce sotto l’incalzare impetuoso ed incessante del vivere. Questa rubrichetta senza pretese ha lo scopo di riscoprire una memoria salvata non in tomi oramai polverosi ma in semplici, modesti ritagli di carta. È la carta che prova a restituirci una memoria che non è più tale. Si parta. Il 20 di marzo dell’anno 2010 il professor Umberto Galimberti pubblicava sul numero 686 del settimanale “D” una riflessione che ha per titolo “Assenza di gravità”. La ripropongo di seguito nella sua interezza. Scopriremo in essa un qualcosa che abbia a che fare con il nostro periglioso presente? E se non fossimo stati ciechi quel 20 di marzo dell’anno 2010?
Gli uomini hanno sempre cercato
di cambiare il mondo. Oggi si ha l'impressione che il mondo cambi senza neppure
la nostra collaborazione. E la cosa non sembra preoccupi granché. Le
sollecitazioni non mancano, ma a promuoverle sono le parole della passività che
si chiamano speranza, auspicio, augurio. In realtà siamo pervasi da speranze
deluse circa la possibilità di reperire un senso, e nella cadenzata successione
dei giorni ci accompagna quell'inerzia che neppure percepiamo, perché
mascherata da quel frenetico darsi da fare, di cui però fatichiamo a reperire
non solo lo scopo, ma anche il perché. Avvolti come siamo da una sovrabbondanza
e da un'opulenza che, nonostante la crisi, tali rimangono rispetto alle
condizioni del resto del mondo, ad esse ci affidiamo come ad addormentatori
sociali, per non assistere alla nostra quasi totale indifferenza rispetto a una
qualsiasi gerarchia di valori, quindi noia, spleen senza poesia. Tutti questi
fattori scavano un terreno dove si radica quel senso di insignificanza che non
è la disperazione che affligge quanti un giorno hanno sperato, ma una sorta di
assenza di gravità, di chi si trova a muoversi nel sociale come in uno spazio
in disuso, e dove non è più il caso di elevare una lamentazione, un grido di
indignazione e neppure un richiamo, perché l'impressione è che non ci sia
nessuno in grado di raccogliere quelle voci destinate a ritornare come ritorna
l'eco di un grido. La cultura dello stordimento, quella della televisione e
degli stadi per intenderci, bolla tutto questo come pessimismo. In realtà si
tratta di qualcosa di molto più grave che Nietzsche aveva chiamato nichilismo:
il più inquietante degli ospiti, e così definito: - manca il fine, manca la
risposta al perché. Che cosa significa nichilismo: che i valori supremi perdono
ogni valore -. Sono ormai 130 anni che risuona questo grido nietzscheano,
tenuto a freno e combattuto dall'ottimismo cristiano, nonostante le due guerre
mondiali, lo sterminio nazista, la fame nel mondo, la migrazione dei disperati
della terra, e da noi, occultato da quell'arma forse più semplice ed efficace
che è la distrazione, propagata a dosi massicce per evitare di pensare, di sentire
e persino di percepire ciò che ci sta realmente accadendo.
martedì 19 marzo 2013
Cosecosì. 47 Dialoghi.
C’è dialogo e dialogo. C’è il
dialogo impegnato e quello “tanto per ammazzare il tempo”. C’è il dialogo che
ti schiude la mente e l’animo ed il dialogo che ti incupisce o ti rattrista.
Dialogo. Proprio degli umani. Fatto di parole. A volte alate, a volte leggere,
a volte pesanti. Ma è nel dialogo che l’animo dell’uomo si innalza e si scuote
dalla sua iniziale ferinità. Non dimentico un dialogo. È che quel dialogo l’ho
pure detestato. Si può odiare un dialogo? Se sì, ebbene ho odiato quel dialogo.
Aveva un inizio quasi in sordina: Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi;
lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi? Passeggere. Almanacchi per l’anno
nuovo? L’ho odiato ogni qualvolta mi si costringeva a mandarne a
memoria un bel pezzo. Che noia! Memorizzare per esercitare la memoria. Che
barba! E poi quel “passeggere”! Non mi dava pace. Ma non si direbbe meglio “passeggero”?
V.
Sì signore. P. Credete che sarà felice quest’anno nuovo? V. Oh
illustrissimo sì, certo. P. Come quest’anno passato? V.
Più più assai. Un inizio così, pacato, sotto tono, come avviene in
tante melodie che iniziano con una nota, una sola, che permane un tempo che
sembra infinito, lì, in alto, come sospesa. È che in quel dialogo ci stanno
parole e non note. Ma a rileggerlo mi fa lo stesso effetto se ascoltassi una
melodia. E poi il fluire di un suono (parole) leggero, quasi sotto tono, come a
voler sospendere ogni altra incombenza per l’ascolto: P. Come quello di là? V.
Più più, illustrissimo. P. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli
che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? V.
Signor no, non mi piacerebbe. Ed è a questo punto, come nello
svolgimento d’una melodia, che ai fiati si sovrappongano gli archi. Archi. Note
(parole) sibilanti, con note prima sotto tono, poi sempre più marcate, alte, ma
sempre come sospese nell’aria: P. Quanti anni nuovi sono passati da che voi
vendete almanacchi? V. Saranno vent’anni, illustrissimo.
P.
A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo? V.
Io? Non saprei. E qui è come se ai fiati ed agli archi si unissero gli ottoni.
Ottoni dalle voci basse, possenti: P. Non vi ricordate di nessun anno in
particolare, che vi paresse felice? V. No in verità, illustrissimo.
P.
E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? V. Cotesto si sa. E la
melodia (parole) incalza. Incalza. Fiati. Archi. Ottoni. Ed ecco esplodere le
percussioni: P. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il
tempo passato, cominciando da che nasceste? V. Eh, caro signore, piacesse a
Dio che si potesse. P. Ma se aveste a rifare la vita che avete
fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? V.
Cotesto non vorrei. E l’armonia del tutto, come inatteso miracolo,
prende il sopravvento sulle note (parole) degli strumenti singoli: P. Oh
che altra vita vorreste rifare? La vita ch’ho fatta io, o quella del principe,
o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro,
risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che
avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? V. Lo credo cotesto. P. Né
anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
V.
Signor no davvero, non tornerei. Ed avanti di questo passo, con le note
(parole) che sembrano disegnare arabeschi, come nelle migliori scuole
calligrafiche: P. Oh che vita vorreste voi dunque? V. Vorrei una vita così, come Dio
me la mandasse, senz’altri patti. Alte s’innalzano le note (parole) dei
fiati, prima come rimaste sotto tono: P. Una vita a caso, e non saperne altro
avanti, come non si sa dell’anno nuovo? V. Appunto. Spegnendosi
quelle s’odono librarsi alte le note degli archi, struggenti: P.
Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che
il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che
ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è
toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo
bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa
bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita
passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi
e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? V.
Speriamo. Altissime s’innalzano le percussioni incalzate dagli archi,
dai fiati, dagli ottoni possenti in un tripudio di note (parole): P.
Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete. V. Ecco, illustrissimo. Cotesto
vale trenta soldi. P. Ecco trenta soldi. V.
Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
E le note (parole) si spengono ad una ad una. Chiudono i fiati, sotto
tono ed è come se rilasciassero note (parole) che non vogliano spegnersi più. È
come se volessero ondeggiare nell’aria all’infinito. Per non lasciarci più soli.
Come tutte le parole che abbiamo amato. Anche quelle non dette ma attese
invano. È dopo la vita da scolaro che ho amato il dialogo del grande di
Recanati.
Quadro secondo. Dialogo riportato in “Quei segnali in arrivo dai 5Stelle” di Eugenio Scalfari, sul
quotidiano la Repubblica del 17 di marzo:
“Volevo salutarla – (…) - Lei ci tratta molto male nei suoi articoli ma
io mi sono formato leggendola fin da quando ero al liceo, mio padre portava
Repubblica a casa e me la dava. Leggi con attenzione - mi
diceva -
leggi le pagine della cultura e dell’economia, ti aiuteranno a capire
qual è il mondo in cui dovrai vivere e lavorare”.
(…). Ha voglia di scambiare
qualche parola con me? Spero che non le crei problemi. “Nessun problema, anche
se la mia posizione politica è quella del nostro Movimento, perciò lei la
conosce già”.
Infatti, non ho domande politiche
da farle, vorrei invece capire quali sono i suoi sentimenti ora che è arrivato
fin qui. Lei guarda con interesse il lavoro che l’aspetta? “Sì, certamente,
siamo qui per questo”.
Pensa che durerà a lungo oppure
si augura nuove elezioni che forse vi darebbero più forza di oggi? “Credo che
ci siano molte cose utili da fare, soprattutto per quanto riguarda la moralità
pubblica, il lavoro precario e il sistema fiscale. Queste riforme non possono
aspettare, la gente ci ha votato per realizzarle. Quando saranno state fatte si
tornerà al voto”.
Non potrete farle da soli le
riforme che avete in programma. “Certo, ma non saremo noi a cercare gli altri,
sarà il popolo ad imporle”.
Siete contro l’Europa? “Siamo
europeisti ma vogliamo un’Europa dei popoli non della burocrazia e dei ricchi”.
Lei parla un linguaggio di
sinistra. Posso chiederle chi ha votato cinque anni fa? “Non ho votato”.
Non ha mai votato prima che
nascesse il grillismo? “Non lo chiami così. Dieci anni fa votai per Berlusconi
ma presto mi sono accorto di aver sbagliato”.
Non mi sembra che la lettura dei
miei articoli abbia avuto molto effetto su di lei. “Non è così, capii alcune
cose che mi sono rimaste bene fisse nella mente: l’eguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge, la libertà di ciascuno, i diritti di cittadinanza. Le
5Stelle vogliono queste cose, i partiti esistenti le vogliono a parole ma non
le hanno tradotte in fatti, perciò con loro non collaboreremo, ma accetteremo i
loro voti se ce li daranno”.
Non importa da dove verranno?
“No, non importa”.
Qual è stato il suo lavoro
finora? “Ho fatto volontariato per servizi all’estero dove ci sono i caschi blu
dell’Onu. Sono stato in Libano e anche in Kenya”.
Ed ora è un cittadino di 5Stelle.
“Già e mi sembra molto coerente col mio lavoro”.
Non ha figli? “No, non ancora”.
Un personaggio storico che sente
vicino? “Direi Papa Giovanni ma adesso la saluto, sento suonare il campanello,
si vota”.
Lei è credente? “Lo sono a modo
mio” e se ne andò correndo verso l’ingresso dell’aula. (…).
lunedì 18 marzo 2013
Uominiedio. 8 L’inferno.
Ove si parla dell’inferno e
dell’orribile belzebù, incubi entrambi del nostro immaginario collettivo da
medioevo. Ha scritto Paolo Flores d’Arcais – in “Papa Francesco, una partita ad alto rischio” su “il Fatto
quotidiano” del 15 di marzo -: Un ateo “auspica” secondo i propri valori,
nella convinzione (…) che tutto si giochi nella breve durata dell’esistenza,
perché con la morte tutto si conclude e ogni aldilà di riscatto, premio,
punizione, è pura illusione, pura superstizione. È questa una visione
della vita e della morte assieme. Visione che nulla vuole togliere a chi vive
per una vita futura durante la quale potrà godere della visione del supremo e
delle beatitudini del cielo. Una visione, quest’ultima, tra le tante. Una
visione che si fa forza di quelle “certezze” che afferiscono alla
sfera dell’individuo, del privato, e che abbisognano d’essere condivise con
altri che di simili “certezze” si nutrono nel periglioso cammino della vita. È che
con queste “certezze”, diffuse quali “verità”, si ha l’ardire di plasmare
il vivere civile per sé e per gli altri. Ciechi e sordi al mondo in cui si
vive. Ha scritto Giacomo Papi ne’ “L'inferno”
– sul settimanale “D” del 17 di luglio dell’anno 2010 -: (…). In pochi hanno preso alla
lettera Ratzinger quando ha affermato che all'inferno i pedofili bruceranno a
velocità doppia rispetto a ladri e assassini. Nessuno ha più la pazienza di
aspettare le felicità o di temere le dannazioni future. Nessuno ha più voglia
di attendere le conseguenze della vita. Tutto deve avvenire subito,
all'istante, ora, qui, in questa esistenza che quell'altra chissà se c'è
davvero e se mai arriverà. È in questa vita che bonus e malus vanno incassati e
liquidati, in contanti. Non esiste più una vita di prova, la vita è in diretta,
anche se il materialismo non ha trionfato. La modernità non ha affatto ucciso
il senso del sacro che sopravvive, sotto forma di caricatura, nei giornali,
nelle pubblicità, nei negozi. Scrisse Gafyn Llawloch, il grande anarchico
gallese, in Beauty is Beauty: "Ecco s'avanza la schiera delle nuove
reliquie. Sono le merci. Ecco s'avanza la schiera dei santi moderni. Sono le
star del cinematografo". Oggi, questi santi sono i vip. Non è esaltante,
ma ho qualche dubbio che le immaginette classiche, piene di frecce, piaghe e
sanguinamenti, siano meno grottesche e pagane delle foto di Corona e Belen che
limonano al mare. Il sacro, quando è rappresentato, ha sempre un che di comico
e kitsch. E non so se sia più sana un'epoca che, come la nostra, cerca la felicità
e il dolore nella vita che vive e il bene e il male nel mondo, o una che
rimanda ogni senso a una vita ulteriore. (…). Emerge, dallo scritto di
Giacomo Papi, il dramma dell’uomo in ogni tempo, allorché il suo sentire va a
cozzare con visioni statiche, artificiosamente costruite dell’umana esistenza e
che “rompe” con quelle indicazioni “pastorali” di vita sempre in
ritardo coi tempi e che non reggono alle mutazioni incessanti dell’umano
sentire. A proposito dei pedofili il nuovo vescovo di Roma ebbe a dire, nello
stesso anno 2010: “Se c’è un prete pedofilo è perché porta in sé la perversione prima di
essere ordinato. E sopprimere il celibato non curerebbe tale perversione. O la
si ha o non la si ha”. Caritatevolmente parlando. E sui matrimoni
omosessuali nel 2005 affermava: “I matrimoni gay sono un segno del diavolo e
un attacco devastante ai piani di Dio”. Ma quali sono questi piani di
dio? Non si è sempre detto come essi siano imperscrutabili? Altrimenti la
domanda: per quale motivo tollera il male, se quei piani si possano appalesare?
O si appalesano solamente per i matrimoni gay? Del pensiero che egli porta per
le donne si è già trascritta la lettera di Lidia Ravera. Conclude, senza
speranza alcuna, il Suo scritto Paolo Flores d’Arcais: (…). …Francesco continuerà a
confondere peccato e reato, e a opporsi con ferocia, come ha fatto anche
recentissimamente da primate dell’Argentina, a una legislazione liberale e
democratica in fatto di matrimonio egualitario (cioè anche tra omosessuali), di
pro choice della donna rispetto alla propria gravidanza, di libertà di decidere
sul proprio fine vita. Per il matrimonio omosessuale ha tirato in ballo Satana
che aggredisce Dio, e sarebbe ancora il meno, se avesse con ciò voluto
ricordare al gregge che un omosessuale finisce all’inferno (…). Un Papa che osa
scegliere il nome del poverello di Assisi, violando un timore e tremore di
secoli, pronuncia con questo gesto un giuramento solenne al miliardo e duecento
milioni di credenti, e a tutti “gli uomini di buona volontà” a cui fin dalla
sua apparizione al balcone di san Pietro ha voluto rivolgersi. Testimonia e
promette di voler prendere sul serio il vangelo, quando dice che non si può
servire a due padroni, a Dio e a Mammona (Matteo, 6,24), cioè oggi allo Ior e
alle “opere di religione”. Aut, aut: o le speculazioni dei banchieri e la
copertura a corruzione e riciclaggio, o l’elemosina ai poveri, la metà del
proprio mantello agli ultimi. Ci si augura, da “uomini di buona volontà”,
che la titanica lotta che il vescovo di Roma dovrà necessariamente ingaggiare
con la “struttura” millenaria per ridare dignità alla sua chiesa lo
veda vincente contro i demoni asserragliati nel suo marmoreo, fastoso palazzo. Scriveva
Giacomo Papi nel sottotitolo al Suo pregevole pezzo: “Il diavolo non sta più al centro
della terra, seduto tra le fiamme”. È il caso di dire che i “demoni”
sono tra di noi. Riconosciamoli e scacciamoli dal tempio e dalle nostre vite.
sabato 16 marzo 2013
Uominiedio. 7 Turiboli ed impazienti turiferari.
Si continui oggi a parlare degli
uomini. Ché ad essi, per come fu portato a scrivere il sommo poeta, fu dato e
detto: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma
per seguir virtute e canoscenza" – Inferno, canto XXVI, (vv.
112-120) -. Ma non nell’oggi che ci è toccato di vivere. Allora, considerati i
tempi bui. Oggigiorno il pensiero ha da essere “scarnificato”, ridotto
ai brandelli più minuscoli tali che di essi, i pensieri, non si rinvenga
storia. È così che l’”intelligentsia” dei media riduce “virtute
e canoscenza" degli umani del secolo ventunesimo. Laddove ci
soccorre il pensiero del grande di Ales per il quale la conquista della
marxiana “sovrastruttura” avrebbe consentito la conquista del potere
solamente al costo di strappare alla borghesia del tempo l’egemonia culturale.
Per quel grande dai pensieri profondi l'incontrastata preponderanza della
cultura borghese sul resto della società del tempo avrebbe impedito
qualsivoglia cambiamento e rinnovamento. Ed è così da sempre. A maggior ragione
al tempo nostro nel quale la preponderanza dei mezzi di comunicazione di massa fa
poltiglia e “scarnifica” il poco di pensiero che con difficoltà cerca di
farsi strada. Turiboli e turiferari sono sempre pronti all’azione, alla
dispersione dell’incenso nell’”aria fritta”. Per essi un’elezione
diviene “rivoluzionaria”. Tutto viene rapportato all’istante, durante
il quale il piccolo mostro costruisce la notizia e le dà forma e sostanza,
forma e sostanza che perdureranno nel tempo. Non si concede tregua e pacatezza
di pensiero. Tutto è ridotto ad interpretazione e proclami. Scriveva
l’indimenticato Norberto Bobbio, in una lettera Sua a Giulio Einaudi dell’anno 1968:
“Cultura
è equilibrio intellettuale, riflessione critica, senso di discernimento,
aborrimento di ogni semplificazione, di ogni manicheismo, di ogni parzialità”. Ciò
dovrebbe fare la cultura. Ciò dovrebbero fare gli intellettuali. Dare pacatezza
ai pensieri, favorire la riflessione sui fatti, sulle persone, non lasciarsi
andare ad improvvisazioni, soprattutto quando essi comunicano con il pubblico
più vasto. Ed in un’altra occasione ebbe a scrivere – nel Suo splendido saggio “Invito al colloquio” dell’anno 1951 -:
Il
compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei
dubbi, non già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della
fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene,
rigurgitanti, le cronache della pseudocultura, degli improvvisatori, dei
dilettanti, dei protagonisti interessati. Cultura significa misura,
ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di
pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non
pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo
irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. Nulla di tutto ciò
che spetterebbe alla cultura ed agli intellettuali può essere rintracciato nei
fatti di questi giorni. Ciò comporta la “scarnificazione” di ogni pensiero,
l’accostamento al pensiero sempre più debole per simboli semplificati e di
dubbia consistenza. È questo il tempo che ci è dato da vivere. Povero nelle
cose. Povero nelle idee. Dichiara Horacio Verbitsky a “il Fatto Quotidiano” del
15 di marzo – intervistato da Giampiero Calapà, “Documenti e testimoni: collaborò con i dittatori” – dopo
l’elezione del subentrante vescovo di Roma: “Una disgrazia, per l’Argentina e
per il Sudamerica”. Una scossa la sua, che segue alla mancata pausa di
riflessione, alla mancata pacatezza nelle notizie, alla mancata cura della
comunicazione che si richiederebbe alla cultura ed agli uomini della cultura
allorquando essi hanno a che fare, hanno da comunicare i fatti nuovi della Storia,
quando hanno da parlare dei protagonisti non conosciuti della Storia. Urge la
notizia, purché ci sia. È tutto ciò che massimamente danneggia l’uomo
dell’oggi. Di seguito trascrivo, in parte, l’intervista a Horacio Verbitsky.
(…). Verbitsky, Bergoglio papa è
“una disgrazia per l’Argentina e il Sudamerica”. Perché? - Perché il suo
populismo di destra è l’unico che può competere con il populismo di sinistra.
Immagino che il suo ruolo nei confronti del nostro continente sarà simile a
quello di Wojtyla verso il blocco sovietico del suo tempo, sebbene ci siano
differenze fra le due epoche e i due uomini. Bergoglio combina il tocco
populista di Giovanni Paolo II con la sottigliezza intellettuale di Ratzinger.
Ed è più politico di entrambi -.
Che cosa facevano i due gesuiti
Yorio e Jalics nella baraccopoli di Bajo Flores? - I gesuiti vivevano in
comunità ed evangelizzavano gli abitanti dei quartieri marginali, come parte
dell’impegno “terzomondista” della Compagnia di Gesù -.
Per quale motivo Bergoglio
avrebbe dovuto denunciarli? - Con l’avvicinarsi del golpe, Bergoglio chiese
loro di andarsene, a quanto racconta lui allo scopo di proteggerli. Secondo
loro, per smantellare quell’impegno sociale che disapprovava. Venne nominato
superiore provinciale della Compagnia all’inusuale età di 36 anni e da quando
arrivò, iniziò a svolgere un compito di sottomissione alla disciplina, a uno
spiritualismo astratto. Un documento di un servizio di intelligence che ho
trovato nell’archivio della Cancelleria si intitola “Nuovo esproprio dei
gesuiti argentini” e afferma che, “nonostante la buona volontà di padre
Bergoglio, la compagnia in Argentina non si è ripulita. I gesuiti di sinistra,
dopo un breve periodo, con grande appoggio dell’estero e di certi vescovi
terzomondisti, hanno intrapreso subito una nuova fase”. Si tratta della
Nota-Culto, cassa 9, bibliorato b2b, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9
-.
I documenti che ha trovato, nella
sua lunga indagine, negli archivi del ministero degli Esteri di Buenos Aires,
per lei sono la prova definitiva del collaborazionismo di Bergoglio con il
regime di Videla? - Sì. Ho trovato una serie di documenti che non lasciano
dubbi . In uno, Bergoglio firma la richiesta di rinnovo del passaporto di
Jalics senza necessità che venisse dalla Germania. In un altro, il funzionario che
riceve la richiesta consiglia al ministro di rifiutarla. In un altro ancora, lo
stesso funzionario spiega e firma che Jalics, sospettato di contatti con i
guerriglieri, ebbe conflitti con la gerarchia, problemi con le congregazioni
femminili (…), che fu detenuto nella Esma, la Escuela de Mecánica de la Armada
(non dice sequestrato ma detenuto) e che si rifiutò di obbedire agli ordini.
Finisce dicendo che queste informazioni gli vennero fornite proprio da
Bergoglio, oggi papa Francesco -.
Da Bergoglio arrivarono le scuse
per gli anni della dittatura, nel 2000, quando la chiesa argentina “indossò” le
vesti della pubblica penitenza. Crede che non basti? - Non c’è mai stata una
vera richiesta di perdono, sempre ambiguità. Non è la Chiesa, ma sono alcuni dei
suoi figli ad aver peccato e per loro chiedono il perdono -.
Personaggi molto popolari come
Maradona o Messi hanno espresso felicità per l’elezione di Bergoglio al
Pontificato. La cosa le ha dato fastidio? - No. (…). È ovvio che c’è un
trionfalismo generalizzato: il papa è argentino, la regina d’Olanda è
argentina, Maradona e Messi sono argentini. Ma questo non dice nulla su
Bergoglio e sui suoi meriti. La Kirchner non lo ama, ha avuto degli scontri su
temi come le nozze gay con Bergoglio -.
Crede che ci sarà mai un incontro
tra la presidenta e il papa argentino? - Suppongo di sì, lei è molto
conciliante con la Chiesa. Non nasconde mai quello che pensa, ma cerca di
mantenere buoni rapporti ed è contraria all’aborto. Il matrimonio omosessuale
fu un’iniziativa di Néstor Kirchner, il marito, ex presidente -.
Bergoglio ha scelto il nome di
Francesco. Molti lo apprezzano per uno stile di vita umile. - Naturalmente, è
uno tra mille simboli. Il papa austero, come il poverello di Assisi, che
viaggia in bus e metropolitana, che usa scarpe consunte, che celebra messa
nella stazione ferroviaria per i più poveri, dei quali ha pietà tra
l’indifferenza dei soddisfatti e dei corrotti. Populismo conservatore,
imprescindibile per sbiancare i sepolcri vaticani, aperti per il riciclaggio
del denaro, la pedofilia e la lotta tra fazioni. Sarà semplice come Giovanni,
severo come Paolo, sorridente come Giovanni Paolo I, iperattivo e populista
come Giovanni Paolo II e sottile come Benedetto -.
Bergoglio disse di aver molta
stima di lei, ma che il suo libro è “un’infamia”. Non ha mai avuto modo di
incontrarlo? Lo farebbe adesso che è papa? - Quando pubblicai L’isola del
silenzio inviò un sacerdote a chiedermi perché lo avessi fatto, nonostante
avessimo un bel rapporto e amici in comune che ci presentarono. Replicai con
un’altra domanda: che avrei dovuto fare con i documenti che avevo trovato?
Bruciarli? Fingere di non averli visti? Questa sì che sarebbe stata un’infamia
-.
venerdì 15 marzo 2013
Capitalismoedemocrazia. 34 “L’autunno della finanza”.
Scrivevo il primo post di questa
rubrichetta il primo di ottobre dell’anno 2011, quando ancora questo blog
stazionava su di un’altra piattaforma della grande Rete. È che il binomio “capitalismo-democrazia”
mi appariva sin da allora inscindibile ed avevo la consapevolezza che la deriva
dell’uno avrebbe comportato la deriva dell’altra. A tanti mesi di distanza da
quel post il professor Giorgio Ruffolo ha ripreso il temo ed ha provveduto, da
par suo, per una valutazione della “crisi” in atto che, perdurando
ancora, metterà sempre più a rischio le conquiste democratiche dell’Occidente.
Titolo della riflessione del professor Ruffolo – sul quotidiano la Repubblica
del 5 di marzo 2013 - “Capitalismo e
democrazia”, per l’appunto, giusto per segnare un punto a favore delle mie
personali preoccupazioni. Scrivevo nel post di quel lontano primo di ottobre
dell’anno 2011: “…non possiamo aiutarvi
ad irrobustire la ripresa poiché siamo impossibilitati a consumare di più
avendo tanto, per non dire tutto; non contate più su di noi che abbiamo avuto
ed abbiamo il superfluo invogliandoci a continuare a consumare il superfluo del
superfluo delle nostre vite; rivolgete le vostre attenzioni a tutti coloro che
sono stati tagliati fuori da questo godere, per anni e anni, ed approntate
strategie affinché siano posti nelle condizioni di consumare come si è fatto
sinora da parte di quel ceto medio di consumatori incalliti e senza rimorsi”. (…).
Lungi da me la tentazione di voler suscitare nel prossimo mio “incubi” di sorta; ma sono convinto che
in un tale momento di difficoltà sia giusto cogliere “l’occasione della crisi” per rivedere il nostro essere, “per proporsi seriamente una conversione
del modo di produrre e di consumare, e dei modi di vivere”. (…). Colgo
l’occasione per aprire una nuova sezione del blog, “Capitalismo&democrazia”, poiché sono convinto che dalla “crisi” globale siano messe in gioco
non soltanto le ricchezze e/o le consistenze materiali delle persone ma le
caratteristiche stesse, le idealità e le prerogative proprie delle democrazie
per come esse ci sono pervenute sino ad oggi. Nella nuova sezione andrò a “raccogliere” tutte quelle letture che
abbiano un’attinenza con le preoccupazioni in tal senso esternate da opinionisti
e pensatori di sommo valore. È certo che in un qualsivoglia modo si uscirà
dalla crisi presente. Il problema è come, soprattutto sul piano della
realizzazione di un’equità sociale che sia presupposto irrinunciabile per
democrazie sempre più compiute. Ha scritto Giorgio Ruffolo nella Sua dotta
riflessione “Sono dolori se la ricchezza
è un fantasma” pubblicata sul quotidiano l’Unità: Braudel (…) ha definito ‘autunno della finanza’ quella fase,
attraversata da tutti i cicli storici capitalistici nella quale, a causa del
declino dei rendimenti delle attività economiche reali (agricole, commerciali,
industriali) le risorse in esse impiegate vengono ritirate dai loro impieghi e
rese disponibili per essere investite in nuovi impieghi: funzione preziosa per
la circolazione e lo sviluppo delle attività economiche, ma transitoria. Una
volta svolto il suo compito, la finanza esce di scena e le risorse sono
reinvestite in attività produttive. Siamo quindi nel bel mezzo di un ‘autunno della finanza’; l’ennesimo, stando
alla autorevolissima opinione di Giorgio Ruffolo. Se ne uscirà di certo per via
di quelle ciclicità delle crisi capitalistiche delle quali aveva parlato con
sorprendente preveggenza il grande di Treviri. Uscirne per “riprendere come se niente fosse dal punto cui eravamo arrivati”?
Mi sembra un azzardo incredibile, insostenibile. “L’occasione della crisi” c’è; basta coglierne le opportunità. “La crisi non è se non la velocità
bruscamente vertiginosa che ha preso il guazzabuglio ingovernato che chiamiamo,
ormai pigramente, capitalismo”. È questa l’amara conclusione di Adriano
Sofri. Il binomio capitalismo-democrazia reggerà al vento impetuoso della
finanziarizzazione globale che ha svuotato il “capitale produttivo” a favore di un “capitale finanziario” che non conosce regole e non possiede
finalità sociale alcuna? Così scrivevo nel post di quel lontano primo di
ottobre. A tutt’oggi la “crisi” ci sommerge e ci sballotta con i suoi violenti
ed incessanti marosi. Trascrivo di seguito, in parte, la riflessione ultima del
professor Ruffolo.
Due grandi forze si contendono la
storia dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Esse si alternano
nell’egemonia prevalendo volta per volta l’una sull’altra e dando così luogo a
cicli storici, l’ultimo dei quali è quello che viviamo dall’inizio del secolo
passato e che comprende tre fasi: l’età dei torbidi, l’età dell’oro e l’età
della controffensiva capitalistica. L’età dei torbidi è caratterizzata da forti
conflitti tra i capitalismi nazionali ciascuno dei quali cerca di assicurarsi
vantaggi decisivi sui rivali. Il risultato è una competizione selvaggia che
ostacola la crescita comune. Età dell’oro. La definizione è di Hobsbawm. La
caratteristica principale sta nel tentativo di raggiungere un “compromesso
storico” tra capitalismo e democrazia che esalti le capacità di sviluppo di
queste due forze senza provocare contraddizioni strutturali. Il principio
fondamentale che regge il sistema è quello del libero scambio. Delle merci ma
non dei capitali che sono assoggettati a controlli severi da parte dei governi
nazionali. (…). Tuttavia l’equilibrio che ne deriva si rivela tutt’altro che
“storico”. Esso è costantemente messo in dubbio dai tentativi delle forze
capitalistiche di sottrarsi agli obblighi costituiti dai controlli statali.
Questi tentativi conseguono un decisivo successo negli anni Ottanta del secolo
scorso con la decisiva eliminazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti di
ogni controllo sui movimenti internazionali di capitale che assicura a
quest’ultimo una superiorità decisiva sugli altri fattori della produzione. La
superiorità è realizzata attraverso la sua possibilità di spostarsi nello
spazio secondo le convenienze assicurate dagli investimenti. Si potrebbe dire
che l’arma fondamentale del capitale è la valigia. La sola minaccia di uno
spostamento blocca le possibilità di far valere l’autonomia della politica.
L’eliminazione di ogni ostacolo al movimento dei capitali determina un
vantaggio decisivo del capitalismo sulla democrazia pregiudicando il relativo
equilibrio che si era raggiunto tra queste due forze. Questo vantaggio si
traduce in una forte diseguaglianza tra i redditi del capitale e quelli del
lavoro. Una diseguaglianza che potrebbe tradursi in una debolezza della
domanda, costituita soprattutto dai redditi di lavoro. A questa minaccia il
capitalismo reagisce con una “mossa” decisiva: l’indebitamento, che permette di
compensare il minore aumento dei redditi di lavoro. L’indebitamento diventa un
fenomeno generale e sistematico al punto che il capitalismo viene definito da
un economista come quel sistema nel quale i debiti non si pagano mai. Una
caratteristica chiaramente insostenibile alla lunga e che si traduce prima o
poi in una inevitabile crisi determinata da insolvenze, come nel caso dei cosiddetti
subprime. (…). Questa condizione è affrontata, diversamente da ciò che accadde
negli anni Trenta, con un colossale salvataggio finanziario dello Stato. Da
fattore di perturbazione dei mercati — così definito dalla retorica liberistica
— lo Stato diventa il salvatore del capitalismo. La logica del sistema tuttavia
non muta. Esaurito il “salvataggio” il sistema torna alla logica
dell’indebitamento, (…). La soluzione che l’ideologia liberistica imporrebbe,
di lasciare che i fallimenti si compiano secondo l’inflessibile regola dei
mercati, naufraga nella vicenda della Lehman Brothers: un fallimento che, se
esteso all’intero contesto capitalistico, ne determinerebbe il crollo. La
verità si crea alla fine il suo spazio. I debiti si pagano. Come si chiude la vicenda?
Chi paga alla fine? Pagano i contribuenti e i lavoratori, sotto forma di
aumento delle tasse e/o di contrazione dei salari. Al fenomeno
dell’indebitamento si somma quello della “finanziarizzazione”. La ricchezza è
rappresentata dall’emissione di “titoli” che da semplici indicatori della
ricchezza finiscono per diventare ricchezza essi stessi. Una ricchezza
letteralmente inesistente ma che costituisce la base di una “taglia” imposta
alla comunità dal potere finanziario. Questa taglia è percepita dalle banche e
soprattutto da una classe di intermediari finanziari che approfitta della sua
posizione“strategica” nelle transazioni finanziarie. È così che il capitalismo
industriale basato sulla realtà delle “cose” diventa capitalismo finanziario
basato sulla rappresentazione dei “titoli”. (…). Il capitalismo non ammette (…)
che il settore pubblico diventi un elemento decisivo dell’economia. Si profila
una condizione nella quale il rallentamento della crescita determinato da
politiche repressive della finanza pubblica si accoppia con l’iniquità. Due
elementi che rischiano di suscitare una depressione di lungo periodo.
giovedì 14 marzo 2013
Uominiedio. 6 “Francesco” e quella chiesa di Roma.
Questa rubrichetta, che non ha pretese,
l’ho denominata “uominiedio”. E perciò, oggi, senza pretese, si parlerà solo
degli uomini. E che il dio riposi in pace. Il salto sul divano l’ho fatto alla
notizia che il subentrante vescovo di Roma avrebbe scelto di chiamarsi
“Francesco”. È da giorni che gli allibratori davano questa scelta come la più
probabile, da qualsivoglia eletto fosse pervenuta. Era scritta nelle carte,
anzi su nel cielo. Una scelta imposta dalle impietose cronache correnti. Una
scelta che sapesse d’espiazione per tutti i torti commessi da quella chiesa
asserragliata nei suoi sontuosi palazzi ed abbastanza lontana dagli uomini. Un
ritorno alle origini? “Ma mi faccia il piacere” avrebbe
esclamato la grande maschera della italianità? La chiesa fattasi stato non
potrà mai e poi mai operare quel salutare ritorno alle origini: è il suo
vissuto plurisecolare che lo impedisce. E così abbiamo il primo “Francesco”.
Una scelta che fa i conti con la tristissima, cruenta storia di quella chiesa.
Nulla di più, nulla di meno. E così è stato, come facilmente pronosticato nei
giorni del grande bla bla bla, per rispondere a quell’ansia ed a quello
smarrimento che nelle coscienze di tanti adepti ha suscitato l’invereconda
cronaca di questi anni. Al sobbalzo è seguita la domanda mia: quale
“Francesco”? Quello di Assisi? Un ritorno alla povertà predicata da quel pover’uomo?
Ai buoni costumi? A suo tempo fra’ Francesco osò contrapporsi alla chiesa di
Roma. Ma fu accorto abbastanza per non rimetterci la pelle. È che nella storia
di quella chiesa ci fu un certo fra’ Dolcino da Novara che finì come finì,
ovvero bruciato sul rogo nell’anno del signore 1307. È che contro i Catari il
vescovo di Roma Innocenzo III organizzò, nell’anno sempre del signore 1208 una crociata,
la prima che affondasse le lame affilatissime e benedette delle armate cristiane
nelle carni di altri inermi cristiani – avendo i catari commesso un errore
capitale, ovvero di congregarsi in chiesa al pari della chiesa di Roma e
divenendone di fatto una concorrente -. È che, nonostante tutto il massacro che
ne conseguì, per rimediare all'inefficacia della “soluzione finale” voluta con la crociata da quel vescovo di Roma e per
debellare l'eresia catara sino alle sue ultime fibrille, fu appositamente
creato dal vescovo di Roma Gregorio IX, forse su ispirazione dall’altissimo del
cielo, il Tribunale dell'Inquisizione, che impiegò ben settant'anni per estirpare
il catarismo dal sud della Francia. Intanto lui, il poverello d’Assisi, si
destreggiava abilmente per non incorrere nelle materne ire di quella chiesa e per
non lasciarci prosaicamente la pelle. Dunque: “Francesco”. Ma quale? Qualcuno
ha suggerito che si trattasse di un Francesco Saverio. Sarà. Ha scritto il
teologo Vito Mancuso – su la Repubblica del 9 di marzo, “Adesso la chiesa apra le sue porte” -: La curia romana è considerata
luogo e causa degli scandali morali e finanziari che hanno condotto (…) molti
cattolici a non sentirsi più tali. La curia però non è piovuta dall’alto. Se la
sono disegnata i Papi lungo la storia secondo una determinata concezione del
papato emersa a partire da Gregorio VII con i celebri Dictatus Papae (1075) che
hanno fatto del Romano Pontefice un dictator e del papato una dictatura. Tale
concezione verticistica del papato rispecchia a sua volta la cosmologia del
passato, quella specie di universo a tre piani con amministrazione
centralizzata che abbiamo studiato a scuola con la Divina Commedia. Cosmologia,
ecclesiologia e politica formavano un tutt’uno, ed è in base a quella
concezione ormai in frantumi che ancora oggi vengono pensati il papato e la
curia. La rivoluzione scientifica e le altre rivoluzioni susseguitesi a tutti i
livelli della vita umana hanno distrutto la visione tradizionale del mondo e
per questo oggi tutte le istituzioni verticistiche sono in crisi: lo sono,
perché la mente umana non guarda più in alto per capire cosa fare. E con il
verticismo della tradizione sono in crisi i valori che esso, almeno
formalmente, garantiva, come il primato del diritto sul denaro, della
gentilezza sulla volgarità, dell’onestà sulla furbizia, dell’aristocrazia
dell’animo sulle passioni delle masse, del ragionamento sul populismo. Le
conseguenze di tutto ciò si manifestano oggi come nichilismo delle anime e
anarchia dei corpi, disperazione interiore e lacerazione sociale. La crisi
della Chiesa si salda alla crisi della società, ormai massa anonima di
individui e non più societas di cui ci si sente soci e di cui si tutela il bene
come fosse il proprio. (…). Scriveva Francesco Merlo – la Repubblica del
30 di giugno dell’anno 2012, “Don
Puglisi e gli altri santi che vanno tolti alla mafia” – al tempo della
canonizzazione di quell’uomo coraggioso: Non basta fare santo un eroe dell’antimafia,
la Chiesa deve adesso strappare tutti gli altri santi alla mafia (in
senso lato, come potere criminale n.d.r.), compreso Gesù Cristo che nella devozione
malata dei criminali è reso pari ad ogni malacarne messo ai ceppi dagli
sbirri. Don Puglisi rischia dunque di
sentirsi solo in un Paradiso affollato
dalle troppe preghiere dei boss, dai ceri dei sicari, dai te deum degli
estortori, dalle orazioni degli stragisti, dalle devozioni lautamente
finanziate, dai peccatori sanguinari che hanno fatto della Chiesa (…) il loro
covo, la banca dei loro sentimenti. (…). Ma di certo è ancora troppo poco in un
universo religioso che è dominato e pagato dal devoto violento, dal killer che
prega e spara, dal mafioso che bacia il crocifisso e strangola, dal boss che
domina il delitto e innalza altarini alla Madonna, legge e annota la Bibbia e
allo stadio di Catania fa calare sulla
curva sud un enorme striscione,
venti metri per trenta, con l’immagine di Sant’Agata in carcere, il viso
reclinato verso la finestra della prigione da cui arriva un fascio di luce
divina. Come si può santificare il martirio – la testimonianza - di don Puglisi e non sospendere, come primo
atto di purificazione, le feste religiose che sono esplosioni collettive
dell’anima antica e oscura per un tema liturgico, quello della Passione, in cui
la mafia, bestemmiandolo, si riconosce, si specchia: il tradimento (Giuda),
l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è
vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della
Sicilia spagnola e si capisce che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di
consenso, cerchi la folla. Ma le processioni sono le palestre del rancore
popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana che i boss riciclano
per riaffermare il controllo assoluto del territorio. E nel cappuccio sono
depositate tutte le pratiche più lugubri, precristiane e anticristiane, un
armamentario devozionale che è apparentato con le processioni sciite, con il
peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran. Ma il cappuccio
è anche il nascondersi che in latino si
dice lateo, quindi latitare, quindi latitante, tra fucili e crocefissi, bombe a mano e immagini dei santi, di tutti i
santi. È la chiesa che abbiamo conosciuto e riconosciuto nelle tante
occasioni nelle quali essa ha negato a qualcuno la carità che le dovrebbe
essere propria, volgendo altrove lo sguardo; o quando abbiamo visto i potenti accorrere
per toccare il suo manto ed impetrarne i favori e le indulgenze e sollecitando in
cambio, ad essi, la difesa dei cosiddetti “principi irrinunciabili”, dimentica
delle vergognose tolleranze accordate. È che quei potenti, violenti, malfattori
o politici di turno, hanno assicurato ai vertici di quella chiesa la
possibilità di creare una ricchezza che stride con l’insegnamento che l’uomo di
Nazareth ha speso invano. Quella chiesa è stata sempre schierata da una precisa
parte, e da quella parte ha ottenuto considerazione, protezione, privilegi e
ricchezza. La verticistica struttura di quella chiesa ha bagnato ed intriso la
sua storia, irreparabilmente. Scrive ancora Vito Mancuso: L’ordine scende dall’alto,
l’organizzazione sale dal basso, l’ordine è maschile, l’organizzazione è
femminile, laddove maschile e femminile indicano due modi diversi di stare al
mondo e di considerare gli altri: da un lato un modo dominante, dall’altro un
modo cooperante; da un lato il primato, dall’altro la relazione; da un lato il
dictatus, dall’altro il collegium. Oggi in Occidente nessun sistema complesso
può essere governato dall’alto imponendo ordine in modo direttivo. I popoli e
le società, la scuola e il mondo dell’educazione, le famiglie de iure e quelle
solo de facto, persino le aziende più innovative mettono in discussione il
modello tradizionale di leadership. Ma è soprattutto la mente (…) a non poter
più essere governata dal principio di autorità. (…). L’unica soluzione sta nel
comprendere che il principio che può dare direzione, governo e senso,
trattenendo dal precipitare nel nichilismo interiore e nell’anarchia sociale, è
la fede nella logica relazionale, nell’armonia, nella ricerca del bene, della
giustizia, della pace, non in quanto conosciuti una volta per sempre secondo la
logica verticistica dei “principi non negoziabili” (…), ma quali volta per
volta è possibile realizzare nella situazione concreta alle prese con il
chiaroscuro della vita (…). E Francesco Merlo annota nel Suo scritto: E
pensate al linguaggio che è sempre carne
viva, pensate a quanto c’è di cattolico nelle parole e nel codice della mafia:
cupola, papa, padrino, mammasantissima, e poi il bacio dell’anello, il rogo del
santino nell’iniziazione… E a tutto i latitanti rinunziano ma non ai battesimi,
alle cresime, alle processioni appunto. Finirà tutto ciò con il nuovo
vescovo di Roma?
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