Scrive Francesco Piccolo –
Corriere della sera del 2 di novembre “Il
vizio della raccomandazione che non ci
fa indignare più” -: (…). Quando un italiano è pronto per venire
al mondo, le probabilità che sua madre, appena arrivata in ospedale, abbia
chiesto, tramite vari gradi di conoscenza, una stanza singola per starsene in
pace, sono molto alte; ed esercita tramite terzi pressioni sulle infermiere,
esprimendo la volontà di avere il proprio figlio tra le braccia, qualche minuto
in più del consentito. Cioè, nella sostanza: qualche minuto in più degli altri.
Il sistema si alimenta fino alla fine dell'esistenza. Subito dopo, i congiunti
si muovono tra conoscenze varie per ottenere un funerale migliore e una
posizione favorevole al cimitero. In mezzo ai due punti estremi, ci sono le
scuole, i concorsi, il lavoro; ci sono i posti al teatro, le file da saltare, i
passaporti, i posti auto, un tavolo in giardino al ristorante, il pesce più
fresco in pescheria, e via con un elenco lunghissimo di eventi minuscoli o
sostanziosi nei quali la differenza la fa il tuo pacchetto di conoscenze, il
minor grado possibile di separazione dal potente di turno. La vita di un
italiano, (…), è legata alla raccomandazione come a uno statuto naturale. Le
tangenti, le minacce, le pressioni, gli imbrogli e le corruzioni sono
conseguenza (quasi) naturale di un sistema di vita basato sul concetto di
disuguaglianza. Perché in fondo la raccomandazione non serve ad altro che a
creare una differenza tra me e tutti gli altri. Io voglio ottenere tramite una
rete di amicizie cose, posizioni e rendite migliori; agli altri, lascio il
resto. Non voglio accettare le regole condivise con la mia comunità: voglio
qualcosa in più. Cioè: voglio vivere meglio degli altri. Una comunità dovrebbe
basarsi sul concetto contrario. Cercare cioè di ottenere il meglio per tutti.
La raccomandazione invece distribuisce disparità, e come conseguenza crea
sfiducia nella neutralità. Se vado al ristorante, in fondo ho paura che mi
rifilino cibo meno buono, perché non mi conoscono. E il cibo buono lo riservino
per coloro che hanno ottenuto la raccomandazione. Ma non mi rendo conto che
tale pratica l'ho messa in moto io tutte le altre volte. La vita italiana,
nella sostanza, è modellata sull'ossessione che si ha in provincia: lì, non
conta cosa vuoi fare, ma quante persone conosci. Ora, non tutti gli italiani
che praticano la raccomandazione quotidiana sono abili a farne una pratica di
corruzione ad alto livello. Però è come se qui la vita fosse un continuo
allenamento, una lunghissima preparazione atletica, minuziosa e quotidiana, al
malcostume, alla disuguaglianza dei diritti, alla propensione al privilegio. E
quindi, chiunque abbia il talento di approfittarne, arriva con il massimo della
preparazione. Il problema, però, non è se ogni italiano sia propenso a
diventare il protagonista delle ruberie della scena italiana. No: quello che
riguarda tutti noi, è se abbiamo la forza di riconoscere, indignarci e reagire,
quando qualcuno procede per vie traverse - noi che siamo abituati fin dalla
nascita a vivere in un mondo così. E ci sembra anche che, un mondo così, bene o
male, abbia funzionato. Esagerazioni del giornalista-scrittore
Francesco Piccolo? Esiste in natura uno stato – che si potrebbe definire una
condizione perfetta - che ben si attaglia all’italiano “tout court”, senza
discriminazioni di censo e/o di appartenenza politica o quantomeno
confessionale; questa condizione è definita dai biologi “simbiosi”. Nella “simbiosi”
due esseri viventi di specie diverse stanno assieme, fisicamente, intimamente, ed
una di esse fornisce il necessario alla sopravvivenza dell’altra in cambio di
un servigio necessario alla sua sopravvivenza. Si potrebbe dire che sia uno
scambio di vicendevoli mutualità, con vantaggi che assicurano la sopravvivenza
delle due specie. Sociologicamente parlando le due specie, che adottano una
mutualità reciprocamente vantaggiosa, sono i cosiddetti “politici” costituitisi
in casta ed i comuni cittadini. Donde ne deriva che dalla mutualità così
instaurata le due “specie” ne abbiano nel tempo ricavato vantaggi innegabili in
cambio di uno snaturamento evidente delle funzioni alle quali ciascuna era
chiamata a dare un fattivo contributo in nome della democrazia e della
cittadinanza responsabile ed attenta. Nello scambio tra i due simbionti a
perderci è stata la democrazia per l’appunto e la cittadinanza responsabile che
è andata a farsi benedire. In cambio le due entità in simbiosi si sono pasciute
ed hanno prosperato (chi più chi meno). Entrambe in fondo hanno concorso a fare
trionfare quella forma di politica fatta con altri mezzi ed alla quale sarebbe
giusto riconoscere la quintessenza dell’”antipolitica”. L’”antipolitica”
occupa di già il potere ed aborre tutto ciò e tutti quelli che domandano
semplicemente ed insistentemente un’”altra” politica, una politica “diversa”,
una politica “buona” per dirla con le parole del Bersani recente, che
riconosce “vivaiddio” esserci la possibilità di cambiare storia. Ha scritto
Guido Cranz sul quotidiano la Repubblica del 2 di novembre: (…). il
decennio craxiano avrebbe alimentato in modo decisivo i comportamenti destinati
a infangare l`immagine della politica nel vissuto di milioni di italiani; e
avrebbe consolidato un ceto di amministratori e politici (e di cittadini
beneficiari) sempre più convinti che non esistano confini fra i propri
interessi privati e gli interessi pubblici. Al tempo stesso, nel declinare di
una forma-partito basata sull`appartenenza, si delineavano forme di "conquista
del consenso" in cui il carisma del leader non era espressione di una
solida realtà organizzata ma quasi un surrogato di essa, fortemente alimentato
dai media. Nutrito di coreografie e di dissoluzioni della politica: l`irrompere
di "nani e ballerine"- (…) - faceva da contorno al primo delinearsi
di un "partito personale" che avrebbe avuto poi incarnazioni molto
più corpose (…). Contemporaneamente sistema politico e sistema televisivo
iniziarono ad intrecciarsi sempre più strettamente, sino a diventare quasi
indistinguibili. Vent`anni fa, nel crollo della "prima Repubblica",
fu forte l`illusione che i processi degenerativi avessero riguardato solo il
sistema dei partiti: furono così rimosse le loro conseguenze nel corpo vivo
della "società civile", sempre più aliena se non ostile - in una sua
parte non irrilevante - ad un universo di regole e vincoli. Mancò allora - come
già era accaduto in altri momenti della nostra storia - un esame dì coscienza
collettivo, una riflessione seriamente auto critica sul modo di essere del
Paese e sul suo deformarsi. Mancò anche una chiara proposta riformatrice,
intessuta di "buona politica": e così agli occhi di milioni di
elettori il "nuovo" fu incarnato dall`antipolitica e dal populismo
mediatico di Umberto Bossi e di Silvio Berlusconi. (…). Come non
convenire con l’illustre opinionista laddove scrive che la politica condotta
con altri mezzi (ovvero l’”antipolitica”) “avrebbe alimentato in modo decisivo i
comportamenti destinati a infangare l`immagine della politica nel vissuto di
milioni di italiani”? È la simbiosi di cui sopra. Ed ancor più, come
non convenire che, a seguito di Tangentopoli e dell’azione meritoria di “Mani
pulite”, che condusse alla scomparsa dei partiti implicati nella
scandalosa vicenda, furono (…) rimosse le loro conseguenze nel corpo vivo della
"società civile", sempre più aliena se non ostile - in una sua parte
non irrilevante - ad un universo di regole e vincoli? Scrive ancora
Guido Cranz che a generare “l’autunno (del nostro n.d.r.) disincanto”
sarebbe stato il “declinare di una forma-partito basata
sull`appartenenza”, sulla militanza, forma di partito sostituita dai
moderni “partiti personali” nei quali “il carisma del leader non era
espressione di una solida realtà organizzata ma quasi un surrogato di essa,
fortemente alimentato dai media”. Non ne siamo guariti. I “partiti
personali” si susseguono – IDV,
PDL, M5S – poiché essi sono, in fondo, funzionali a quella mutualità
simbiotica tra quelli della “casta” ed il popolo questuante.
Poiché in quello che fu il bel paese si è
“sempre più convinti che non esistano confini fra i propri interessi
privati e gli interessi pubblici”. È la nostra diversità antropometrica
che mi fa dire di essere ancora nel bel mezzo “dell’inverno del nostro
scontento”, tanto per ricordare il bel libro – “L'inverno del nostro scontento” (1961) – che fu l'ultimo romanzo
del grande John Steinbeck. Chiude il Suo pezzo Guido Cranz così: Pochi
giorni fa Massimo Salvadori ha ricordato la bellissima lettera scritta nel 1944
da un giovane partigiano, Giacomo Ulivi, alla vigilia della sua morte:
"Tutto noi dobbiamo rifare (...). Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare
noi stessi". In quella stessa lettera Ulivi aggiungeva: l`inganno peggiore
di una "diseducazione ventennale" è stato quello di convincerci della
"sporcizia" della politica, e di intaccare così "la posizione
morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi
(...), la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, ogni sua sciagura
è sciagura nostra". Ancora una volta, dobbiamo ripartire da qui. Titolo
del pezzo trascritto in parte: “L’autunno
del disincanto”.
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