"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 30 novembre 2012

Strettamentepersonale. 7 Se la crescita non basta più.



(…). La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale. Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Così scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini sul quotidiano la Repubblica del 9 di novembre – “Se la crescita non basta più” -. Debbo questo post a M.B., negli occhi della quale ho visto, nell’ultimo nostro fuggevole incontro, lo sgomento e la paura. Lo sgomento suo che penso sia comune a tutti gli operatori economici e commerciali in questo periodo di difficilissima navigazione all’interno della “grande crisi”. È la prima volta che mi viene di aggettivarla, la crisi intendo dire. Dicevo della paura che ho visto negli occhi della carissima amica di una vita; la paura di un passo indietro che riporti una grossa fetta della società alle soglie della povertà. Donde quella paura vista in quello sguardo suo mi spinge a parlare di “grande crisi”, per l’appunto. E dalle parole sue disperate e come senza speranza alcuna ho potuto cogliere anche una punta di astio verso tutti coloro che, al pari dei due estensori della nota, auspicano che l’uscita della crisi sia diversa nelle quantità economiche ma anche e soprattutto nelle percezioni e nei nuovi atteggiamenti che i consumatori in quanto tali dovranno necessariamente fare propri. Urgono nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti, più responsabili e più consapevoli. Continuano a scrivere Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” (…)? Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere. (…). Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico. (…). Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale. Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale. Spero che M.B., abituale ed attenta lettrice delle cose che vado proponendo su questo blog, legga con attenzione le sagge parole dei due illustri Autori e voglia ammainare la sua animosità verso tutti coloro, me compreso, che sono dell’idea di uno sviluppo, di una crescita che siano diversi e più adeguati e rispettosi dell’equilibrio dinamico della troposfera. Senza una consapevolezza nuova grandi disastri ci attendono che supererano di gran lunga, per gli effetti che essi dispiegheranno, i disastri economici e finanziari prodotti dalla “grande crisi” che stiamo vivendo.  Ha scritto il filosofo francese Serge Latouche – la Repubblica del 14 di settembre 2012 – in un Suo editoriale che ha per titolo “Facciamo economia”: Viviamo in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni - e dunque di prodotti superflui e rifiuti -  e nell'emissione di scorie e inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. (…). Per usare una metafora siamo diventati dei "tossicodipendenti" della crescita. (…). Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. (...). …la ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa. (…). L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all'opposto di questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza frugale". (…). Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica", (…). La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: "Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi". Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La crescita del benessere (del “ben” “essere” e non degli oggetti che non consentono di “essere, di stare bene al mondo” n.d.r.) è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio. (…). Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità. Dedicato a M.B., operatrice commerciale in ansia, che mi è molto cara. 

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