(…). La crescita non è una scelta
ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico:
venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione
corale. Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica
soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti
così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare
sostenibile. Così scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini sul
quotidiano la Repubblica del 9 di novembre – “Se la crescita non basta più” -. Debbo questo post a M.B., negli
occhi della quale ho visto, nell’ultimo nostro fuggevole incontro, lo sgomento
e la paura. Lo sgomento suo che penso sia comune a tutti gli operatori
economici e commerciali in questo periodo di difficilissima navigazione
all’interno della “grande crisi”. È la prima volta che mi viene di aggettivarla,
la crisi intendo dire. Dicevo della paura che ho visto negli occhi della carissima
amica di una vita; la paura di un passo indietro che riporti una grossa fetta
della società alle soglie della povertà. Donde quella paura vista in quello
sguardo suo mi spinge a parlare di “grande crisi”, per l’appunto. E
dalle parole sue disperate e come senza speranza alcuna ho potuto cogliere anche
una punta di astio verso tutti coloro che, al pari dei due estensori della
nota, auspicano che l’uscita della crisi sia diversa nelle quantità economiche
ma anche e soprattutto nelle percezioni e nei nuovi atteggiamenti che i
consumatori in quanto tali dovranno necessariamente fare propri. Urgono nuovi
atteggiamenti e nuovi comportamenti, più responsabili e più consapevoli.
Continuano a scrivere Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: Ricordiamo
che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio
che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se
prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita
comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi
di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la
domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la
risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando
un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della
crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e
che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono
altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci
ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” (…)? Da
tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali
dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo
dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello
ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della
competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre
più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età
della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci
verso un’età di rinnovato benessere. (…). Ciò significa passare dalla quantità
alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione
illimitata all’equilibrio dinamico. (…). Un processo di riconversione ecologica
dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle
performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che
rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il
prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita
quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali
dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere
sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno
assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono
diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di
persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita
dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi
tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il
suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non
conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride
carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto
ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non
si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di
impoverimento sociale, economico e ambientale. Per uscire dalla crisi, dunque
non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un
nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori
che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse
consumate a livello globale. Spero che M.B., abituale ed attenta
lettrice delle cose che vado proponendo su questo blog, legga con attenzione le
sagge parole dei due illustri Autori e voglia ammainare la sua animosità verso
tutti coloro, me compreso, che sono dell’idea di uno sviluppo, di una crescita che
siano diversi e più adeguati e rispettosi dell’equilibrio dinamico della
troposfera. Senza una consapevolezza nuova grandi disastri ci attendono che
supererano di gran lunga, per gli effetti che essi dispiegheranno, i disastri economici
e finanziari prodotti dalla “grande crisi” che stiamo
vivendo. Ha scritto il filosofo francese
Serge Latouche – la Repubblica del 14 di settembre 2012 – in un Suo editoriale
che ha per titolo “Facciamo economia”:
Viviamo
in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che
tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo
primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del
consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite:
nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non
rinnovabili, nella creazione di bisogni - e dunque di prodotti superflui e
rifiuti - e nell'emissione di scorie e
inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico
della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal
consumo. (…). Per usare una metafora siamo diventati dei
"tossicodipendenti" della crescita. (…). Un meccanismo che tende a
produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il
desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad
un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. (...). …la
ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società
solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita.
Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di
bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo
complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa.
(…). L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la
soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite
distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere
all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una
volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all'opposto di
questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità
attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza
frugale". (…). Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando
disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo
stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne
risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica", (…).
La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella
dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto:
"Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa
accettare di non arricchirsi". Siamo dunque poveri, o più esattamente
miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La crescita del benessere (del
“ben”
“essere”
e non degli oggetti che non consentono di “essere, di stare bene al mondo”
n.d.r.) è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è
meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio. (…). Mi
ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla
fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti
di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere
d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza
commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni
della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare
questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di
riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la
condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della
decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino
funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità. Dedicato a M.B.,
operatrice commerciale in ansia, che mi è molto cara.
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