(…). - Professor Foresti, qual è
il male psichico dominante che oggi fa soffrire gli italiani? «Noi mettiamo
l’accento sul narcisismo, questa epidemia di amore malsano verso se stessi che
fa sì che la gente si ritiri dallo scambio sociale. In apparenza è in
relazione, ma fa fatica a fidarsi». E mi fermo qui, per il momento. È
un interessante passaggio che ho letto nell’intervista al professor Giovanni
Foresti apparsa sul quotidiano l’Unità – “La
solitudine del consumista” per l’appunto - del 25 di maggio 2012 a firma di Maria Serena
Palieri. Poiché l’intuizione brillante dell’illustre intervistato penso possa
offrirmi la spiegazione ad un interrogativo che mi ha assillato non poco. Un
interrogativo che mi ha fatto insorgere, come sempre leggendo le Sue
corrispondenze, Vittorio Zucconi nella corrispondenza Sua del 17 di novembre
ultimo scorso. Titolo della corrispondenza:
“I consumatori alla prova dell'uragano Sandy”, pubblicata sul settimanale
“D” del quotidiano la Repubblica. “Amore malsano verso se stessi” afferma
il professor Foresti nell’intervista di cui sopra. Si chiede Vittorio Zucconi nella Sua corrispondenza: “Ma
ci deve essere qualche cosa di più profondo in quelle cataste di rotoli che
vedevo uscire dai negozi”. Poiché l’argomento che mi appresto a tratteggiare
abbisogna di molta pudicizia, così come ne abbisognano tutte le cose afferenti
alla sfera del “privatismo” degli umani. È invocata, in questo caso, la
cosiddetta “solitudine” dell’umano,
del consumatore, nel momento degli attimi suoi più riservati ed
intimissimi. Avrete di già capito a quale delle funzioni della corporalità mi
stia spingendo a parlarne. Ma anche se si fa finta d’ignorarla, essa impregna
la nostra vita, almeno quella strettamente corporale. E prosegue il Vittorio
Zucconi con un Suo ricordo storico: Uscivano dalle porte sudice del negozio
sulla via Dorogomilovskaya di Mosca, con ghirlande attorno al collo, come i lei
hawaiiani, soltanto che invece di fiori erano fatte da rotoli di carta igienica
tenuti assieme da una corda, per trasportarne di più. Nell'Urss del Socialismo
Reale anni 80, la carta igienica era uno dei beni più rari e preziosi,
nonostante la non esemplare morbidezza, condannati a scomparire dagli scaffali
in poche ore per effetto dell'accaparramento. La certezza che la nuova partita
di rotoli sarebbe arrivata chissà quando spingeva ogni cittadino e cittadina
russi dotati di un sedere a comperare quanti più rotoli potessero trasportare,
magari legati attorno al collo, così garantendo che non ce ne fossero mai
abbastanza e la scarsità fosse permanente. E così si passa dalla Storia
grande alla cronaca dell’oggi. Scrive ancora Zucconi: È lo stesso fenomeno di psicosi
collettiva che ho visto scattare a fine ottobre, quando sulla Costa Atlantica
degli Stati Uniti si è abbattuta un'uragana chiamata Sandy, che ha investito
Washington, Baltimora, Philadelphia, New York, Boston. (...). Sotto il
martellamento dei media, tutti, dalla informazione su carta (non
necessariamente igienica) alla Rete, il panico si è scatenato fra le gente.
(…). Ma la prima cosa che è sparita completamente dai supermarket sapete quale
è stata? Appunto. La carta igienica. Sembra che i popoli delle nazioni
sviluppate, anche quelle molto parzialmente tali come era la Russia sovietica,
possano fare a meno di molte cose, sappiano risparmiare sul cibo e le bevande,
rinunciare al trasporto privato per i mezzi pubblici, pigiare sui pedali se la
benzina costa come il vino e bere acqua se il vino si fa troppo caro. Ma alla
conquista della carta igienica non si rinuncia. (…). Prodotti di qualità
scadente, riservati a coloro che devono risparmiare sui centesimi e
abitualmente languono invenduto, volavano via insieme con le celestiali
morbidezze pubblicizzate da orsacchiotti (non ho mai capito bene il rapporto
fra gli orsi e la toilette personale, ma pare che l'associazione pubblicitaria
funzioni). (…). Chi appartiene alla generazione che ancora ricorda con orrore i
ritagli offensivi di quotidiano o, peggio, di rotocalco, appesi a un chiodo nei
gabinetti pubblici può capire l'ansia con la quale oggi la cittadinanza si
preoccupa della carta igienica prima di preoccuparsi di cibo, acqua, batterie
per le torce elettriche, medicinali, candele o coperte nell'imminenza di una
catastrofe. (…). Ma ci deve essere qualche cosa di più profondo in quelle
cataste di rotoli che vedevo uscire dai negozi. C'è il bisogno di proteggere la
propria intimità più intima, la propria privatezza più privata dall'aggressione
bestiale del maltempo che tenta di riportarci tutti allo stato di natura più
primitivo. Tutte le creature bevono, mangiano, eccetera. Io sono umano perché
uso la carta igienica. (…). È la cronaca leggera e sarcastica che ne ha
fatto Vittorio Zucconi. E la “solitudine”? C’entra, eccome se
c’entra. Poiché anche nella “solitudine” di quell’atto della
corporalità la nostra marchiatura a vita di consumatori, anzi di “consumisti”,
per dirla con il professor Giovanni Foresti, non perde la battuta. Anzi, ne
offre conferma, si sostanzia. Immaginate Voi il “consumista” assiso sul
suo “vaso”,
come del resto la quasi totalità degli umani - e dico la quasi totalità – con
la sua ben fornita scorta di igienici rotoli, anzi “rotoloni che non finiscono mai”?
Mi è capitato, frequentando abitazioni di amici carissimi, di trovare
disseminati quei rotoloni ovunque e non solamente ritrovarli appesi al
cosiddetto portarotolo. Ovunque, nei locali adibiti a quei servizi, la loro
traccia: su mensole e ripiani, cassetti e quant’altro atto a custodirli
ospitandoli amorevolmente. È per via di quell’“amore malsano verso se stessi”?
Ne ricavavo l’intuizione di una situazione di disagio psichico. Per via di un’abbondanza
e presenza disseminata ovunque ma ingiustificata. Perché tutti quei rotoloni? Concludo
a questo punto il “divertissement” che mi ha preso la mano per tornare a ben
altre sostanze dello spirito a ben altre“solitudini”. Un saltino all’indietro per tornare alla intervista
annunciata all’inizio del post: - Tra social network e salotti televisivi in
effetti si direbbe, piuttosto, che la gente non desideri altro che condividere
ogni istante di vita ed esibire i sentimenti più privati. (…). «Dilaga
un’intolleranza capillare della società civile a farsi disciplinare. Siamo
ancora nel mezzo di un ciclo che si è aperto alla fine degli anni Settanta, con
Margaret Thatcher, Ronald Reagan e le loro politiche di de-regolamentazione. Il
modello concettuale che i lacaniani usano da alcuni anni è semplice ma ha una
sua ragion d’essere: se un tempo l’imperativo era lavorare e produrre oggi,
dicono, è godere e consumare. Una volta gli adulti erano fieri della fabbrica
in cui lavoravano, oggi gli adolescenti sono orgogliosi del logo della
maglietta che indossano».
- A proposito di deregulation
ricordate che essa si ispirava al pensiero della Scuola di Chicago e aveva
l’obiettivo di liberare gli «animal spirits» dell’impresa. Ma alla lunga, nella
psicologia collettiva, non ha prodotto piuttosto un’infantilizzazione: dal
cittadino adulto che lavora, appunto, a quello, eterno infante, che consuma?
«Si dice addirittura che abbia prodotto un deperimento del concetto di
cittadinanza. C’è qualcosa di avido e distruttivo nel consumo. Mentre buona
parte di quanto viviamo è disciplinato dalle politiche di marketing. Ingordo,
avido e invidioso: è questo il tipo ideale di soggetto per la nostra società». (…).
- Noi italiani veniamo da un
ventennio in cui ci siamo fatti sedurre da un Grande Incantatore. Oggi invece
ci si uccide accusando lo Stato di essere un Grande Persecutore. È un rapporto
equilibrato tra cittadini e cosa pubblica? «È appunto il problema delle regole.
O si eludono, si negano, si trasgrediscono, oppure le si vive come l’arrivo di
un castigamatti. Il nostro è il Paese dove si teorizza che le tasse non vanno
pagate e chi ascolta sogghigna, poi arriva quello che dice che si pagano e
succede l’iradiddio. Non solo i suicidi, ma il grido “La Guardia di Finanza va
a Cortina a verificare che rilascino gli scontrini. Mio Dio!”. (…) …questa
nostra malattia risale alla Controriforma. Noi siamo tutti colpevoli ma non
responsabili. Anni fa ho pranzato con un alto prelato e, di fronte al cibo,
commentai “Non mi faccia cadere in tentazione”. Sa come mi rispose? “Guardi che
il miglior modo di affrontare il demonio è cedere subito”. Non è un
capolavoro?». (…).
Nella condizione di “solitudine”
– anche privata – del “consumista” la regola è una e
d’oro: “godere e consumare”. Con pudicizia parlando. Sempre.
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