Ripartiamo da Obama. Il risultato
elettorale non lascia dubbi: 303 contro 206. Sembra fatta. Nel
grande paese del “mito” del West; nel grande paese che è crogiolo di tutte le
razze umane; nel grande paese che è esempio d’accoglienza e di tolleranza; nel
grande paese che è stato anche il duro, spietato repressore dei “nativi” di
quella terre, si riaccende una speranza. Che non è solamente una speranza di
quelle genti. Diviene la speranza del resto del mondo. Leggo il grande titolo a
tutta pagina del quotidiano la Repubblica di oggi: “La festa di Obama, il gelo delle borse”. Leggo il grande titolo
de’ “il Fatto Quotidiano”: “Obama esulta
i mercati no”. Non poteva essere diversamente. Ecco perché il risultato di
quel grande paese è il risultato atteso con trepidazione anche, e forse
soprattutto, oltre i suoi confini. Poiché riaccende una speranza. Che si possa
in qualche modo imbrigliare l’azione disastrosa della finanza creativa. Che si
possano in qualche modo regolamentare i mercati che hanno dato prova di non
sapersi autoregolamentare. Da quella parte dell’Atlantico è questo il messaggio
di speranza che il risultato pro-Obama rilancia facendolo rimbalzare in ogni
angolo del globo terracqueo. Non era scontato che accadesse. Il suo rivale
aveva più volte affermato che gli Stati Uniti d’America avrebbero dovuto
tornare a “ruggire”; una visone ed una rappresentazione esplicita della
politica del più forte. Con quali scenari futuri? Ripartiamo da Obama. Non era
scontato. Il 7 di settembre dell’anno 2011 Federico Rampini pubblicava sul
quotidiano la Repubblica un dossier che ha per titolo “È a Wall Street il nemico di Obama”. In quei mesi la popolarità
del Presidente era in caduta rovinosa. Si contavano venticinque milioni di
disoccupati ed un debito pubblico alle stelle. Eppure il grande paese era
riuscito a liberarsi del pericolo pubblico numero uno, Bin Laden. Non bastava.
E tutto remava contro il Presidente. Il risultato di questi giorni che viene
dal paese del capitalismo riaccende una speranza: che il capitalismo ritorni ad
essere il “capitalismo manifatturiero” e non già il “capitalismo finanziario”
utile ai pochi, a quell’1% che si contrappone al 99% del resto dell’umanità. È
il messaggio dei giovani di Occupy Wall Street che ha vinto con Obama. Non che
tutto sia tornato ad essere facile e scontato. È una guerra di lungo corso; si
è vinta un’altra scaramuccia. Ma la speranza si è riaccesa. Ha dichiarato
Barack Obama: - Ho sempre pensato che la speranza è quella cosa cocciuta dentro di
noi che insiste, nonostante le prove contrarie, che qualcosa di meglio ci
attende se avremo il coraggio di continuare a lottare -. È
un’indicazione precisa: la lotta non è finita. Poiché non è giusto che si siano
salvate le banche e le altre istituzioni finanziarie da un disastro da esse
creato comprimendo sempre più lo stato sociale laddove esso è stato possibile
creare, frutto delle lotte consapevoli di milioni di uomini e di donne. Scriveva
Barbara Spinelli su la Repubblica del 29 di febbraio 2012 – “Il welfare da salvare” -: (…).
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra
Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che
la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. (…). Secondo Michel
Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone "che avevano
attraversato una crisi economica e sociale gravissima", i governanti
dissero in sostanza: "Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo
che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei
vostri giorni" (Foucault, Nascita della biopolitica). (…). Non sono (i
“nemici” del welfare n.d.r.) il disgregarsi della convivenza civile, la
miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell'austerità,
l'"immediata reazione negativa" dei mercati. Perfino il voto
democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche
di aprile, e forse anche delle italiane. L'unico gigante che impaura è l'ozio,
la pigrizia figlia del Welfare. L'essere umano non è guardato con apprensione:
è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti. Per
la verità anche Foucault denunciò la "coppia infernale sicurezza
sociale-dipendenza", negli anni '80. Di fronte a una "domanda
infinita", s'ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La
sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a
processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del
mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e
benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un'ennesima
utopia, lo si era visto negli anni '30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli
anni di presa di coscienza sull'orlo del disastro. (…). È significativo che
mentre l'Europa dimentica, l'America tenti - assai timidamente con Obama - di
resuscitare Roosevelt e il New Deal. (…). Si vuol capire sin dove regge un
paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson,
economista dell'Università di Missouri a Kansas City: "La crisi greca è
usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza
può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come
nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando
le gambe gli si piegano e muore". Torniamo al dossier di Federico
Rampini. Scriveva: (…). …la vera storia dell'attacco mortale contro il capitalismo
americano ha una data d'inizio leggermente diversa dall'11 settembre. È ottanta
giorni dopo l'attacco alle Torri gemelle, il 2 dicembre 2001, la bancarotta di
Enron. Più di Osama Bin Laden, per affossare il capitalismo americano furono
efficaci Kenneth Lay e Jeff Skilling, i due capi della società texana legata a
doppio filo con George Bush e Dick Cheney, travolta dal falso in bilancio dopo
essere stata una star di Wall Street. E dopo di loro la vera galleria dei
nemici dell'America, quelli che dall'interno l'hanno logorata e stremata ben
più dei terroristi, prosegue con Bernard Ebbers, chief executive di WorldCom
(100 miliardi di perdite per gli azionisti, bancarotta fraudolenta nel 2002),
arriva fino ai banchieri come Dick Fuld (bancarotta di Lehman Brothers, 15
settembre 2008) e al tuttora potentissimo Lloyd Blankfein che alla guida di
Goldman Sachs dichiarò all'apice della recessione nel novembre 2009: «Sono un
banchiere che fa il mestiere di Dio». (…). La vera storia dei dieci anni più
disastrosi per l'economia americana non inizia l'11 settembre, ma subito dopo:
quando Bush incita i suoi concittadini «uscite di casa, andate negli shopping
mall, patriottismo è andare a spendere perché la nazione non si fermi». Da
quello slogan indimenticabile emana la più magistrale giustificazione
ideologica per il decennio della "vita a credito", del boom
immobiliare finanziato coi mutui subprime, della nazione in declino che vive al
di sopra dei suoi mezzi vendendo buoni del Tesoro ai cinesi. Nella storia
parallela di questa decade post-11 settembre i neoconservatori strumentalizzano
il terrorismo per giustificare un'agenda ideologica pre-esistente: tutti sanno
della guerra in Iraq, ovviamente. Ma altrettanto cruciale è la decisione di
Bush di giustificare così gli sgravi fiscali ai ricchi, di colpo legittimati
come una misura patriottica, anti-recessiva, essenziale «perché Al Qaeda non
deve mettere in ginocchio l'economia». Ha inizio così, dieci anni fa, quella
che l'allora Comptroller General (l'equivalente del presidente della Corte dei
Conti), David Walker, definisce «il più scellerato anno fiscale nella storia
della Repubblica». È un acceleratore formidabile delle diseguaglianze sociali,
a loro volta causa strutturale della recessione (per la mancanza di potere
d'acquisto della middle class). Frank Rich nel New York Magazine dedicato al
decennale è convinto che tutto ha inizio «con la decisione di Bush di escludere
ogni sacrificio nazionale equamente condiviso, per finanziare le guerre; nella
sua invocazione ai consumatori: andate a Disney World, andate in Florida» come
risposta alla strage. Sta lì perfino l'origine del Tea Party, «il cancro
politico dell'America di oggi: se non ci fu bisogno di tasse per pagare due
guerre, perché mai dovremmo pagare tasse per alcunché?». E c'è infine, dalla Enron
che aveva finanziato generosamente la campagna elettorale di Bush, l'avvio del
decennio senza regole per l'oligarchia finanziaria, le impunità per il
capitalismo predone, le bolle speculative che sarebbero deflagrate facendo male
solo a chi stava sotto: la maggioranza degli americani. In quanto a stabilire
chi ha vinto dieci anni dopo, il verdetto lo ha pronunciato il regista del
documentario-denuncia su Wall Street, "Inside Job" nel ricevere
l'Oscar: «A tre anni di distanza dal tracollo della Borsa e dell'economia
mondiale - ha detto Charles Ferguson - non un solo banchiere è finito in
galera». È andata peggio a Bin Laden.”
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