"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 28 novembre 2012

Dell'essere. 9 Adolescenza infinita.



E poi ci sarebbe l’adolescenza. Una fase che dovrebbe essere ben delimitata nella vicenda terrestre degli umani. È che quella fase sembra oggigiorno non finire mai. Almeno per gli umani delle recenti generazioni cresciute nel bel paese. “Bamboccioni” per alcuni, “choosy” per l’ultima detta dalla Fornero che piange, se ne adontano molto. Perché mai? Cosa fanno per non meritarsi aggettivazioni di quel tipo? In verità credo ben poco – salvando i pochi, anzi i pochissimi che ci provano -. I segnali premonitori non sono mancati negli anni. Ce li ha forniti come sempre la “cattiva maestra” – secondo Popper -, madama la televisione. Che ha fatto abbondantemente ricorso ai “bamboccioni”, trentenni o quarantenni ed anche oltre nell’anagrafe, che negli spot si dilettano, gigioneggiano, fanno il “cascamorto” con il telefonino ultimo grido, o con qualsivoglia altro inutile oggetto di consumo che la televisione volesse imporre tra i desideri insopprimibile e/o le aspirazioni del suo non catafratto pubblico. Colpa della televisione allora? E perché no, colpa della scuola, tanto va di moda! La colpa a chi? Ha scritto Giacomo Papi sul numero del settimanale “D” del 10 di novembre scorso – “Adulti che non aiutano a crescere” -: (…). Negli ultimi decenni del secolo scorso tutti i bambini smisero, all'improvviso, di andare a scuola da soli. Prima era normale già in seconda elementare. Poi arrivò l'epidemia. Rispondendo a un'oscura chiamata culturale, i genitori decisero in massa che era troppo pericoloso, che c'erano troppe automobili in giro e troppi pedofili in agguato, (…). In realtà, i pericoli non erano aumentati e il tempo per i figli, mediamente, non era diminuito. A essere cambiata era la percezione degli adulti. Era aumentata la paura. I bambini incominciarono ad apparire creature fragili, incapaci di difendersi e diventare libere e autonome. Esseri viventi incapaci, letteralmente, di crescere. (…). L'allungamento della vita media deforma le età. Stiracchia in una post adolescenza infinita il periodo che va dai 20 ai 30 anni e rimanda la vecchiaia oltre i 70. Rende genitori e figli per sempre. (…). È in atto un innamoramento collettivo per le creature che rimangono piccole. Il sogno del cucciolo eterno. La nostra idea dell'infanzia è un tassello di un processo che iniziò con la moda dei bonsai, gli alberelli giapponesi che non crescono, ed esplode, oggi, per esempio, con l'invasione dei chihuahua. Ma se si rimane piccoli è per soddisfare una precisa richiesta sociale, una esigenza profonda dei grandi. Protrarre all'infinito la dipendenza dei figli è, infatti, prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi indispensabili, in un universo che sembra sempre in procinto di fare a meno di noi. Mi sento di condividere l’analisi sempre puntuale e precisa di Giacomo Papi. Alla quale analisi mi sento di affiancare la riflessione di un uomo di scienza, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica – “Adolescenza infinita”, 6 di ottobre 2012 -. Scrive l’illustre Autore: (…). Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in modo assillante una metafora educativa tristemente nota: "Siete come viti che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non orienta più - meno male - il discorso educativo. Oggi non esistono più - meno male - pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. E qui l’illustre Autore sembra concordare in pieno con l’opinionista Giacomo Papi laddove lo stesso scriveva, a proposito delle cosiddette “cure parentali”, che esse sono, o rappresentano “prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi indispensabili”. E di mio ci aggiungerei anche la tendenza da parte degli adulti a non differenziarsi di molto  dai pargoli loro affidati, in nome di un falso, consumistico “giovanilismo” che li conduce irrimediabilmente a confondere ruoli e competenze derivandone una deresponsabilizzazione non percepita nella giusta misura. Scrive infatti Massimo Recalcati: Non che gli adulti in generale non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare, non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli è aperta ad un sapere senza veli - quello delle rete per esempio - ma anche quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda, mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri genitori, seguono per lo più attraverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili della tradizione e della trasmissione familiare. È, come direbbe Bauman, la condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano  - nel bene e nel male - obbligate ad inventare un loro percorso originale di crescita. (…). L'iperedonismo contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti. Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire. Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile? Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? È all'altezza del compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida, ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. Mi soccorre per concludere, come sempre, il poeta libanese Kahlil Gibran: E una donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…). Ecco il punto: “non cercate di renderli simili a voi”. Poiché li renderete per sempre i vostri “bamboccioni”, senza responsabilità e senza cuore. Soli di fronte alla Storia. E senza la libertà.  

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