E poi ci sarebbe l’adolescenza.
Una fase che dovrebbe essere ben delimitata nella vicenda terrestre degli
umani. È che quella fase sembra oggigiorno non finire mai. Almeno per gli umani
delle recenti generazioni cresciute nel bel paese. “Bamboccioni” per alcuni,
“choosy”
per l’ultima detta dalla Fornero che piange, se ne adontano molto. Perché mai?
Cosa fanno per non meritarsi aggettivazioni di quel tipo? In verità credo ben
poco – salvando i pochi, anzi i pochissimi che ci provano -. I segnali
premonitori non sono mancati negli anni. Ce li ha forniti come sempre la “cattiva
maestra” – secondo Popper -, madama la televisione. Che ha fatto
abbondantemente ricorso ai “bamboccioni”, trentenni o
quarantenni ed anche oltre nell’anagrafe, che negli spot si dilettano,
gigioneggiano, fanno il “cascamorto” con il telefonino
ultimo grido, o con qualsivoglia altro inutile oggetto di consumo che la
televisione volesse imporre tra i desideri insopprimibile e/o le aspirazioni
del suo non catafratto pubblico. Colpa della televisione allora? E perché no, colpa
della scuola, tanto va di moda! La colpa a chi? Ha scritto Giacomo Papi sul
numero del settimanale “D” del 10 di novembre scorso – “Adulti che non aiutano a crescere” -: (…). Negli ultimi decenni del
secolo scorso tutti i bambini smisero, all'improvviso, di andare a scuola da
soli. Prima era normale già in seconda elementare. Poi arrivò l'epidemia.
Rispondendo a un'oscura chiamata culturale, i genitori decisero in massa che
era troppo pericoloso, che c'erano troppe automobili in giro e troppi pedofili
in agguato, (…). In realtà, i pericoli non erano aumentati e il tempo per i
figli, mediamente, non era diminuito. A essere cambiata era la percezione degli
adulti. Era aumentata la paura. I bambini incominciarono ad apparire creature
fragili, incapaci di difendersi e diventare libere e autonome. Esseri viventi
incapaci, letteralmente, di crescere. (…). L'allungamento della vita media
deforma le età. Stiracchia in una post adolescenza infinita il periodo che va
dai 20 ai 30 anni e rimanda la vecchiaia oltre i 70. Rende genitori e figli per
sempre. (…). È in atto un innamoramento collettivo per le creature che
rimangono piccole. Il sogno del cucciolo eterno. La nostra idea dell'infanzia è
un tassello di un processo che iniziò con la moda dei bonsai, gli alberelli
giapponesi che non crescono, ed esplode, oggi, per esempio, con l'invasione dei
chihuahua. Ma se si rimane piccoli è per soddisfare una precisa richiesta
sociale, una esigenza profonda dei grandi. Protrarre all'infinito la dipendenza
dei figli è, infatti, prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e
rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi
indispensabili, in un universo che sembra sempre in procinto di fare a meno di
noi. Mi sento di condividere l’analisi sempre puntuale e precisa di
Giacomo Papi. Alla quale analisi mi sento di affiancare la riflessione di un
uomo di scienza, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, riflessione
pubblicata sul quotidiano la Repubblica – “Adolescenza
infinita”, 6 di ottobre 2012 -. Scrive l’illustre Autore: (…).
Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in
modo assillante una metafora educativa tristemente nota: "Siete come viti
che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo
di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che
ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva
interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti
di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non
orienta più - meno male - il discorso educativo. Oggi non esistono più - meno
male - pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è
diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove
generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia
iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. E
qui l’illustre Autore sembra concordare in pieno con l’opinionista Giacomo Papi
laddove lo stesso scriveva, a proposito delle cosiddette “cure parentali”, che
esse sono, o rappresentano “prima di tutto, una strategia di
auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a
sentirsi utili, anzi indispensabili”. E di mio ci aggiungerei anche la
tendenza da parte degli adulti a non differenziarsi di molto dai pargoli loro affidati, in nome di un
falso, consumistico “giovanilismo” che li conduce irrimediabilmente a confondere
ruoli e competenze derivandone una deresponsabilizzazione non percepita nella
giusta misura. Scrive infatti Massimo Recalcati: Non che gli adulti in generale
non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non
coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai
preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla
formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è
marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle
generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i
loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare,
non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli
è aperta ad un sapere senza veli - quello delle rete per esempio - ma anche
quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda,
mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche
quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le
generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni
culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e
delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri
genitori, seguono per lo più attraverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe
prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i
nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili
della tradizione e della trasmissione familiare. È, come direbbe Bauman, la
condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a
proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano - nel bene e nel male - obbligate ad
inventare un loro percorso originale di crescita. (…). L'iperedonismo
contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti.
Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza
vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e
l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E
allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla
depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani
di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione
precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro
libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire.
Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe
di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile?
Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo
più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? È all'altezza del
compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del
Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è
capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo
bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande
corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria
libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La
massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la
tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida,
ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. Mi
soccorre per concludere, come sempre, il poeta libanese Kahlil Gibran: E una
donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed
egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie
della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non
da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi
potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i
propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non
alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi
non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere
come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va
all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i
vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…).
Ecco il punto: “non cercate di renderli simili a voi”. Poiché li renderete per
sempre i vostri “bamboccioni”, senza responsabilità e senza cuore. Soli di
fronte alla Storia. E senza la libertà.
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