"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 14 novembre 2012

Cosecosì. 31 Chiedere scusa.



E poi ci sarebbe da “chiedere scusa”. Per le menzogne dette e sostenute con convinzione e forza nella conduzione della cosa pubblica. E per le offese arrecate alla metà del popolo della politica del bel paese, divenuto nemico da abbattere. Ma anche nell’umile atto del “chiedere scusa” abbisogna una grandezza d’animo che se non la si possiede l’atto perde di per sé stesso tutto il valore suo. Poiché, come ha scritto mirabilmente Barbara Spinelli – su la Repubblica del 22 di settembre dell’anno 2011 – ,“chiedere scusa è nobile se non è sinonimo di discolpa” e poi se “lo si fa gratuitamente, in cambio di nulla”. Quale valore può avere il “chiedere scusa” ultimo dell’uomo di Arcore? Ha tutto il sapore e la sostanza di uno scambio. Lo ha fatto in concomitanza di un evento editoriale. L’ennesimo. Uno scambio per l’appunto. Forse l’intento era di ampliare i possibili acquirenti dell’ultimo scartafaccio prodotto dal vespide televisivo. Quale possibilità che il messaggio del “chiedere scusa” dell’uomo di Arcore ha di raggiungere la totalità, o la maggioranza almeno, degli offesi? Nessuna. Un escamotage commerciale, per l’appunto. Una conferma dell’uomo per quale è. Ho raccolto, negli anni, molti dei libri del vespide televisivo. Tanti. Troppi. È avvenuto nelle circostanze liete di feste o anniversari. Ma giammai acquistati da me quei libri. È che, con grande intento sadico, mi venivano dati in dono sempre dalle stesse persone convitate a quelle feste o a quegli anniversari. Intento sadico perché? Per il semplice fatto che non avevo mai fatto mistero del mio disinteresse (o disistima) per il lavoro editoriale di quell’autore. Ma puntualmente quei libri me li sono ritrovati tra le mani. Anno dopo anno. Scartafaccio dopo scartafaccio. Li conservo ancora nella mia libreria. Distruggerli o mandarli al macero sarebbe come distruggere una parte del mio vivere e del mio essere un inguaribile “libridinoso”. Disfarmene, dandoli in dono ad altri, sarebbe esito peggiore ancor di più, poiché mi sentirei colpevole d’aver contribuito alla diffusione di quei lavori ampliandone la circolazione. E così rimangono intonsi nella mia libreria. E li lascio morire d’inedia. Poiché se i libri non circolano è come se non fossero stati mai scritti. È la condanna che ho inflitto agli scartafacci ricevuti in dono con mio grande disappunto. “Chiedere scusa” non è da tutti. Ci vuole grandezza anche in questo atto che induce all’umiltà. “Chiedere scusa” è il titolo della riflessione di Barbara Spinelli che di seguito trascrivo in parte.

Chiedere scusa è forse il primo atto di decenza, che ci si aspetta da chi addolora, offende, tradisce. Innanzitutto è uscire da se stessi, vedere sul volto dell’altro la ferita che ho inflitto. Questo estendere lo sguardo oltre l’Io Kant lo chiama pensare ampio, oltre il circolo che disegno attorno alla mia persona. (…). È stato necessario un secolo cruento, perché la parola assumesse un peso in politica. L’ultimo ventennio ha visto innumerevoli mea culpa (…). E della Chiesa, in primis verso gli ebrei. La più impressionante domanda di scuse fu senza parole: d’un tratto, il 7 dicembre 1970 davanti al monumento dei caduti del ghetto di Varsavia, il cancelliere Brandt cadde in ginocchio. Ho sempre pensato che quest’attonito genuflettersi, quest’ammissione di colpe che non erano sue ma del suo popolo, sia la forma più pura del chiedere scusa: anche se personalmente sono innocente, come cittadino d’un popolo non cesserò d’essere responsabile. Chiedere scusa ha i suoi lati oscuri, anche questo conta saperlo. (…). Chiedere scusa è nobile se non è sinonimo di discolpa. Se sul male inferto non cade una lastra come su una tomba. Se non viene seppellito (da chi si scusa)il dolore arrecato. È già moralmente storpio dire: «Mi scuso». (…). Chiedere scusa si può, è un inizio che mette in cammino verso l’Altro. Ma a condizione di non esigere perdono. Lo si fa gratuitamente, in cambio di nulla. Non solo: lo si fa distinguendo tra vivi e morti. Come chiedere scusa, ai sommersi e sepolti? Solo il morto potrebbe rispondere all’appello: non può. Puoi aiutare i suoi familiari ma il perdono, davanti a una bara, te lo dai da solo. E se vogliamo andare ancora più nel profondo: nemmeno chi riceve la domanda di scuse ha speciali diritti, quando è discendente della vittima. Non diventa più scusabile di altri, se a sua volta fa del male. I suoi morti tacciono anche per lui. La scusa ha legami forti col pentimento, l’espiazione, la sete di redenzione. Anche qui intravediamo luci ma anche antri bui. Ho molto riflettuto sui mea culpa di Giovanni Paolo II, e ho trovato che cera in essi qualcosa di grandioso ma anche di ambiguo. Freud ha parole molto giuste sul pentimento e l’etica, quando scrive su Dostoevskij e il parricidio: «L’aspetto più aggredibile in Dostoevskij è quello etico (…) Morale è chi già reagisce alla tentazione avvertita interiormente, e ad essa non cede. Colui che prima si macchia di una colpa e poi, una volta in preda al rimorso, pone a se stesso elevati obiettivi morali, può essere accusato di fare i propri comodi. Manca in lui l’elemento essenziale della moralità, la rinuncia, essendo la condotta di vita morale un interesse pratico dell’umanità». Usiamo dire: «Il diavolo si nasconde nel dettaglio». Anche Dio, a mio parere. La richiesta di scusa è un po’ come il Dettaglio: in essa si cela Dio come pure il diavolo. Puoi lenire o straziare ancor più, sdebitandoti e andandotene lontano. Bisogna sapere di chi parli, a chi parli. E ci sono colpe di cui resterai responsabile sempre: riprendere le vecchie attività non potrai. Nessun trasformismo è trasformazione. Se la scusa diventa scambio otterrai qualcosa, magari, ma immaginerai d’aver pagato. Il taglio è voragine che non si chiude. Il tempo forse aiuterà. Ma Chronos non è etico, neanche nel mito, e già chiamarlo galantuomo è temerario. Etica è la giustizia, che mostra il volto ferito e oltrepassa l’Io. Quante volte pensiamo, quando uno muore: «Vorrei chiedergli scusa». È troppo tardi, ma il pensare ampio già comincia.

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