"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 30 giugno 2012

Storiedallitalia. 17 L’antipolitica già al potere.


«Per me sono giorni difficili, ore dense di una fatica che non ho mai conosciuto così prolungata e stressante. Ma la politica non ammette pigrizia».
Dell’onorevole Elio Belcastro oggi si ricorda poco. È stato un responsabile della prima ora, anche sottosegretario all’Ambiente voluto da Berlusconi come segno di gratitudine. Belcastro è la punta di diamante del partito del Sud.
«Come una trottola vago tra l’Aspromonte e Gioia Tauro».
Gioiosa Jonica e Lamezia. «Rizziconi, Galatro».
Sta lavorando per dare un futuro a questo partito ancora fragile. «La fragilità intesa come fiore ancora gracile, che tarda a sbocciare, ma i cui petali sono già numerosi ».
Bellissima descrizione. Chi fa politica non ha un’ora libera. Anche quest’anno senza ferie, vero? «Già mi prefiguro i continui spostamenti calabresi, per far crescere i fiori di cui le ho parlato».
Quindi Monti non potrà contare sul suo impegno parlamentare agostano. «Non ci può fregare di meno del governo. Con tutto il rispetto, ma abbiamo altre priorità».
Ma voi siete responsabili ante litteram. E dunque veniva facile immaginarvi disciplinati e cooperanti. «Alt. Ieri era ieri, ma oggi è oggi ».
In effetti in Parlamento c’è fatica senza costrutto. «Ore di attesa, ammassati sui divani. Viene male alle gambe. E tutto quel tempo per fare cosa?».
Meglio a Rizziconi. «Come sa sono stato sindaco di Rizziconi, e adesso impegnato a dare un futuro alla Calabria».
Il partito del Sud è un gran bel sogno. «Le ho detto del fiore appena spuntato, ci siamo capiti».
Potrà essere, anche se l’ipotesi le appare sciagurata, che il voto non vi premi come è giusto attendersi. «Siamo pronti a fare la nostra parte, ma anche a rinunciare al seggio»
Il movimento di Grillo macina consensi e ruba un po’ a tutti. «Abbiamo molte cose in comune».
Ci sono trattative in vista? «E con chi parli? Amico mio, nessuno sa niente, neanche un nome…».
Si potrebbe tentare di approfondire… «Mancano gli interlocutori, ma c’è disponibilità assoluta al confronto»
Mica detto che a Grillo i responsabili non piacciano? «Siamo aperti a ogni scenario»
Sono certo che in agosto lei non sarà a Roma. «Non vedo perché dovrei stare qui».
Si diceva che i parlamentari sono dei vacanzieri smodati. «Prima, quand’ero avvocato, nessuno mi toglieva i 50 giorni di vacanza. Adesso non c’è un momento di pace»
Lei in estate girerà per l’Aspromonte, altro che Parlamento! «Ad agosto Monti vuole disturbare proprio me? Non sa che siamo all’opposizione oramai?».

Avete appena finito di leggere l’interessante, e per tanti versi illuminante assai, intervista all’onorevole avvocato Elio Belcastro, un “responsabile” alla “scilipoti” della prim’ora, eletto alla camera dei deputati in forza all’Mpa – un sedicente movimento per l’autonomia, autonomia da che cosa poi? Terribile ed imbarazzante domanda – ed impegnato nella fondazione di un partito nuovo, il Partito del Sud. Straordinario! L’intervista è stata concessa al quotidiano la Repubblica a firma di Antonello Caporale. Sullo stesso numero del quotidiano venivano riportate le seguenti rilevazioni: nei primi sei mesi dell’anno la Camera dei cosiddetti onorevoli deputati ha svolto solamente 80 – scrivo ottanta – sedute. Nello stesso periodo il monte ore complessivo dedicato alle sedute della Camera dai cosiddetti onorevoli deputati è stato di 380 ore – scrivo trecentottanta -. Il Senato della Repubblica ha fatto di meglio: nello stesso periodo ha tenuto ben (sic!) 99 sedute per un monte ore complessivo di 285 ore. Molte più sedute sì, ma più brevi, per carità. Figurati! Titolo della intervista: “Ore d’attesa ammassati sui divani del governo non mi frega di meno”. Illuminante. E sì che si era alla vigilia del vertice europeo durante il quale si sarebbero prese importantissime e delicatissime decisioni che avrebbero riguardato la vita ed ilo futuro di milioni di italiani. Ma a quel figuro non “mi frega di meno” del governo e di tutto ciò che si sarebbe deciso in quella sede. “Abbiamo altre priorità”. Bellissimo! Intanto un ministro della Repubblica dichiara, e smentisce, che il lavoro non è un “diritto”. Ha poi cercato di chiarire che si riferisse, nella sua dichiarazione, al mito del “posto”. Lo sprovveduto ministro – seppur tecnico – avrebbe voluto significare con il suo criptico messaggio che è contro ogni “posto” che non comporti un “lavoro”. Ha ragione. Ed allora, come metterla con i cosiddetti onorevoli deputati che occupano un “posto” quasi fisso con quella miseria di “lavoro” che svolgono? Non andrebbero mandati a casa? Ma chi dovrebbe farlo? Tanto per capirci; è il ministro della “paccata” di miliardi da concedere in cambio della riforma del mercato del lavoro, altrimenti “nisba”. Come fossero soldi suoi! Per non dire di quel tale Polillo – sottosegretario tecnico in corso – che ha inveito per l’interminabile lunghezza delle vacanze degli italiani. Parlava, anzi straparlava, sproloquiava, di mesi interminabili di vacanze degli italiani. E tutto ciò prima ancora della calura portata da “Caronte”. È che non se ne può più. “Bene mio che trovo”, staranno a strabenedire quelli dell’antipolitica. Poiché l’antipolitica è di già al potere. E della confusione e dello smarrimento collettivo si nutre e si pasce a piacimento. Non per niente ci fu un tale, primo ministro, che propose che a votare nel Parlamento, reso a quel tempo un unitile parlatorio, fossero solamente i capigruppo, considerata l’inutilità di tante ingombranti presenze di figuranti con tante «ore di attesa, ammassati sui divani. Viene male alle gambe. E tutto quel tempo per fare cosa?». Giusto. Giustissimo. Per fare che cosa? Se solo lo potessimo sapere! Ha scritto una importante riflessione sull’argomento Michele Prospero sul quotidiano l’Unità. Titolo: “L’antipolitica già al potere”. Vero. Verissimo. Con figuranti vecchi e nuovi. Capipopolo e capobastone. Come sempre. Ed è così che dall’antipolitica non se ne esce per un’”altra politica”.

(…). La rivolta contro l’èlite al potere in Italia c’è già stata e ha portato al governo proprio i campioni dell’antipolitica, che oggi sono travolti dai disgustosi episodi di malcostume. Nel duello tra la società civile riflessiva, che voleva abbattere la vecchia nomenclatura dei partiti con il mito di Westminster, e la rude microimpresa padana, che sognava un denaro senza gli obblighi del fisco, vinse la miscela avvelenata preparata dal magnate di Arcore. Egli arruolò, a fianco del suo partito di plastica, le truppe di terra assoldate nel rurale mondo periferico del nord, dove le sensibilità più elementari garantivano una maggiore disposizione al nuovo, all’inaudito, al folklorismo politico. Oggi è in crisi proprio l’antipolitica che ha sostituito i partiti con le due forze irregolari (Forza Italia e Lega) che avevano inopinatamente preso il potere in nome del nuovo. (…). Se non ricostruisce partiti dall’elevato profilo ideale, un Paese civile è condannato alla lenta marginalizzazione e al collasso storico. La forma del partito personale, che la destra ha inventato e imposto sulla scena come un segno della postmodernità, appare cadaverica. Non poteva essere altrimenti. L’usura del corpo del capo mette in discussione la sopravvivenza stessa del partito sprovvisto di quella «dignità che non muore» di cui parlavano i giuristi medievali come peculiarità del politico. Un partito di plastica o carismatico muore con il corpo del capo che declina o è ammaccato. Questo scostamento dai cardini della modernità politica occidentale ha ostacolato il funzionamento delle istituzioni, occultato il principio di legalità. (…). Come vent’anni fa, i persuasori palesi cavalcano l’antipolitica per abbattere tutti i partiti. La videopolitica lancia i fantasmi del partito del comico, del professore, del sindaco, del magistrato o le liste civiche di protesta. Una sciagura. Il verbo antipolitico e le metafore ultrademocratiche diventano il veicolo di una rivoluzione passiva che nel deserto impone un nuovo capo a un pubblico disorientato, demotivato, scoraggiato dagli scandali. La ricetta è quella di sempre: scaldare il cuore dell’indignazione per sparigliare anche a sinistra il nesso tra capi e popolo, e poi incassare a destra il via libera per la prosecuzione del piccolo mondo antico abitato da governatori celesti, politicanti senza pathos politico, miliardari divorati dal conflitto di interessi. Con una crisi sociale drammatica, la destra e i media dell’antipolitica a reti unificate preparano il suicidio della democrazia.

lunedì 25 giugno 2012

Cosecosì. 22 Un gregge che attraversava la strada seguendo un somaro.


A fianco. Sorrento. Teatro Tasso. Un balletto.
 
(…). La voce querula di Signorini, portavoce di Palazzo Chigi, annunciò che il governo aveva decretato l’uscita dall’eurozona e il passaggio alla Bungalira. Le banche sarebbero rimaste chiuse e i conti correnti congelati per permettere un’ordinata transizione. “Splendido!” pensai “Berlusconi ha mantenuto la promessa!” Mi prese un moto di orgoglio per aver eletto uno statista eccezionale. Noi Italiani avremmo recuperato la dignità. Con la sovranità monetaria avremmo svalutato a manetta, magari solo per dispetto alla kulona. Ci saremmo arricchiti come nababbi vendendo scarpe che tutto il mondo ci invidia. La spesa pubblica poteva raddoppiare all’istante, tanto stampando banconote a go go tutto si risolveva. Immaginavo quelle banconote fruscianti traboccare dalle mie tasche. Fu allora che mi si impresse l’immagine. Era un gregge che attraversava la strada seguendo un somaro. Al distributore la benzina era razionata perché le compagnie petrolifere non mandavano le autobotti. Dopo due ore di fila implorando riuscii a mettere 10 litri pagando 50 euro. Ero furibondo ma sapevo che l’indomani con le Bungalire, il ministro dell’Economia Santanchè avrebbe messo tutto a posto. L’indomani, le Bungalire non apparvero. I negozi avevano triplicato i prezzi e nessuno faceva credito. Mi ero portato solo 500 euro, tanto c’era il bancomat e poi il governo diceva che usare il contante è da criminali. I 500 euro finirono in due giorni. Fu un Natale mesto. In piazza, dopo la Messa nessuno parlava. I berluscones irriducibili affettavano entusiasmo. Il 26 da Roma ci avvertirono che benzina e cibo erano introvabili. Il governo aveva bloccato internet per evitare che i comunisti diffondessero il panico e anche i telefoni funzionavano male. Forse con l’apertura delle banche si sarebbe trovata una soluzione. Ma il 27 le banche rimasero chiuse. Sulla CNN un esperto spiegò che per le nuove banconote occorrevano almeno 6 mesi. Chi capiva l’inglese fu colto dal panico che si trasmise anche agli analfabeti. Chi aveva ancora qualche euro lo teneva stretto e comprava solo il minimo indispensabile, a prezzi ormai stratosferici. Ma molti avevano finito anche gli spiccioli ed erano alla fame. I malati che non potevano comprare le medicine si accalcavano negli ospedali, ma anche lì era tutto esaurito. Alla borsa nera si trovavano antibiotici, ma spesso erano taroccati. Il 6 gennaio su ordine dei ministri Santanchè e Scilipoti, le banche emisero assegni di piccolo taglio in Bungalire al tasso di cambio uno a uno con l’euro. La gente sospirando ritirò i Bungassegni. Ma quando cercarono di spenderli nessuno li accettò. Solo alcuni commercianti di fronte a bambini emaciati decisero di cambiare dieci Bungalire per un euro. Stipendi, pensioni e i fornitori vennero pagati dal governo Berlusconi in Bungacambiali della Banca d’Italia depositate su conto correnti bancari. Ma queste cambiali valevano meno di zero e l’inflazione raggiunse il 500% mensile. Tutti i movimenti di capitali con l’estero erano bloccati e il possesso di banconote straniere (euro inclusi) era punita con l’arresto. I fallimenti non si contavano. Le banche pretendevano i pagamenti dei debiti in euro, ma concedevano prestiti in Bungalire. La ministra Santanchè in Tv strillava con sicumera che con il 90% di svalutazione le merci italiane avrebbero invaso i mercati. Ma le imprese non avevano i soldi per pagare le materie prime e agli Italiani nessuno faceva credito. Il governo non era in grado di ripagare Bot e Cct per cui l’Italia era tagliata fuori dai circuiti finanziari. Con un’eccezione: Berlusconi. A sua insaputa aveva trasferito il patrimonio ai Caraibi prima di annunciare l’uscita dall’euro. Ora la gente normale per vivere è costretta al baratto. Gli stipendi sono solo un ricordo sbiadito. Sovrapposto a quell’immagine delle pecore. Un sogno terribile? Ovvero un incubo? Avete appena finito di leggere un “divertissement” a firma di Fabio Scacciavillani pubblicato su “il Fatto Quotidiano” col titolo “Altro che euro, arrivano le Bungalire”.  Ma siamo proprio sicuri che le situazioni rappresentate nel “divertissement” non si possano verificare una volta scacciata la moneta europea dalle tasche degli intronati del bel paese? Domanda più che legittima alla quale non è stata data risposta alcuna dai sedicenti esperti in materia. È tutto un rincorrersi di voci concitate che cercano di zittirsi vicendevolmente. A farne le spese sono la credibilità di persone ed istituzioni ridotte a macerie fumanti e la razionalità che dovrebbe essere fortemente utilizzata proprio nei momenti cruciali di confusione dei singoli e della collettività. Nulla di tutto questo. È giocoforza che in simili circostanze i furbi ed i demagoghi abbiano lo spazio insperato. Offerto loro dall’obnubilamento delle menti e delle coscienze. Si giustifica così e si gusta appieno il pregevole “divertissement”. Poiché è nei momenti di massima difficoltà e di confusione che il demagogo di turno, o i demagoghi di turno - ché anche questo primato ci spetta, annoverandovene due in contemporanea – trovano la via facile per raggiungere la “pancia” della “ggente” benpensante che, come nel “divertissement”, se ne fa una ragione di recupero della “dignità” perduta o mai avuta. Se ne fa una ragione, invece, e seriosamente, Eugenio Scalfari nell’ultimo Suo editoriale che ha per titolo “Grillo e Berlusconi all’assalto del potere”  quando scrive: (…). …molti italiani  -  a cominciare da Beppe Grillo e da Berlusconi  -  sono convinti che per l’Italia è più opportuno tornare alla lira. Sono forme di collettiva follia che si stanno purtroppo diffondendo. Ma che cosa ne pensano veramente gli italiani? Questa domanda è capitale perché non riguarda solo i nostri destini nazionali. (…). Non siamo una dittatura ma una democrazia. Fragile quanto si vuole, spesso percorsa da tentazioni populiste, soggetta al fascino di demagoghi incantatori, rappresentata da una classe dirigente non sempre (anzi quasi mai) all’altezza dei compiti che dovrebbe svolgere. Siamo comunque una democrazia basata sulle scelte del popolo sovrano. Ma il popolo sovrano procede a corrente alternata. Se esercita la sua sovranità tenendo conto degli interessi generali tutto andrà per il meglio; ma se privilegia tentazioni, seduzioni, clientele, voti di scambio, allora lo sfascio diventerà inevitabile. (…). Nell’intervista che Mario Monti ha dato a Repubblica nel quadro del nostro “meeting” bolognese, ad una domanda sul nostro futuro così ha risposto: “Quando mi si fa questa domanda mi viene da pensare all’ammontare eccezionalmente elevato del nostro debito pubblico. Sono 2 mila miliardi di euro, il 120 per cento del reddito nazionale, accumulato durante il decennio 1975-1985 e da allora mai diminuito. Che cosa è stato fatto con quella mole immensa di ricchezza che i risparmiatori hanno prestato allo Stato? Sono state costruite nuove e necessarie infrastrutture? È stata trasformata la pubblica amministrazione? È stata aperta la via alle giovani generazioni? È stato insomma fatto dell’Italia un Paese veramente europeo? A me non pare. Forse è venuto il momento che gli italiani si pongano questo problema”. Mentre Monti diceva quelle parole anch’io ho cercato di rispondere a quella domanda: che cosa abbiamo fatto noi italiani, noi cittadini elettori, noi popolo sovrano? Quante volte da allora il popolo sovrano è andato a votare? Si è mai posto quella domanda? Ha mai punito quella classe dirigente che adesso è definita la casta? Se è una casta, come mai è lì da trent’anni? Ma sbaglio il conto: se una casta c’è, essa ci governa dai tempi della Dc. Quarant’anni ha governato quel partito senza soluzioni di continuità, associando al governo, man mano che diventava necessario, i partiti laici prima e poi il Partito socialista. Il debito pubblico, l’immenso debito pubblico raggiunse il massimo ai tempi del duopolio tra Dc e Psi, Forlani, Andreotti, Craxi. Si chiamò “l’Italia da bere”. Il popolo sovrano prestava i soldi e ne riceveva pingui interessi ma anche elevata inflazione. “La nave va” si diceva. In realtà gli italiani di allora lasciarono il debito ai figli e ai nipoti e gli lasciarono anche la casta da loro votata e confermata. Adesso scaricare sul futuro il debito pubblico è diventato impossibile. La nave non va più, la zavorra va buttata fuori bordo. E che cosa fa il popolo sovrano? Si innamora del demagogo di turno che promette di cacciar via il primo governo che sta tentando di riportarci a galla. (…). Il demagogo di turno utilizza la rabbia proveniente dai sacrifici ma anche la faziosità di chi si frega le mani col tanto peggio tanto meglio. E finisce col trovare convergenze con il demagogo che fu messo in libera uscita otto mesi fa ed ora cerca di riemergere inalberando la bandiera dell’anti-euro e del ritorno alla lira. Due demagoghi, quello di ieri che vuole tornare al timone e quello di oggi che se ne vuole impadronire con le stesse ricette. Il primo ci ha condotto al punto in cui siamo, il secondo per ora ha conquistato il Comune di Parma un mese fa e non è ancora riuscito a fare la giunta. (…). La rabbia bisogna saperla indirizzare. La rabbia può servire a costruire scegliendo la saggezza e la responsabilità civile, oppure a distruggere affidandosi ancora una volta alla demagogia. Questa è la sfida cui il popolo sovrano dovrà rispondere. Il “divertissement” è assicurato a pochi. Agli altri il mugugno. Che non è rabbia.

venerdì 22 giugno 2012

Storiedallitalia. 16 Il “compagno” Giorgio e quelli venuti dal “piccì”.


A fianco. Una mia tessera d'iscrizione al P.C.I. amorevolmente conservata.
 
C’è una cosa, che mi è stata cara assai, che mi accomuna a Giorgio Napolitano: la militanza politica. Della quale il grande Giorgio ne ha fatto un impegno pieno di vita. Per me essa, la militanza politica, è rimasta un impegno di cittadinanza responsabile, coltivata nel tempo residuo che il mio duro lavoro dell’educare mi ha consentito. Ambedue veniamo da quello che fu il Partito Comunista Italiano, quello di Antonio Gramsci per intenderci, di Giorgio Amendola, che pur veniva da una grande famiglia di democratici liberali, di Umberto Terracini, il confinato politico, di Luigi Longo, di Palmiro Togliatti, del tanto amato e compianto Enrico Berlinguer e dei tantissimi altri che, con passione ed impegno civile, hanno reso quel Partito, che non c’è più, il più forte dei Partiti Comunisti dell’Occidente. Ambedue veniamo dal Partito che fu della “via italiana al socialismo”, che ha rappresentato il momento magico e tragico di rottura con l’egemonismo, a volte spietato, del comunismo sovietico. Ambedue siamo rimasti tramortiti per i fatti repressivi che quel comunismo ha consumato nell’Europa ed altrove nel mondo. È questa condivisione di militanza e di ideali che mi hanno reso tanto caro Giorgio Napolitano e per il quale ho esultato, come non sono solito fare, al momento della Sua elezione, del grande “compagno” Giorgio, al Quirinale. Ma tutto ciò non ha fatto da velo alle stridenti contraddizioni che ho potuto verificare nell’impegno pubblico del Presidente. Ne ho fatto menzione su questo blog – che è un “b-log della cittadinanza e dell’impegno, del leggere e dell’educare e di altro ancora di varia umanità” - quando esso “viveva” su di un’altra piattaforma della grande rete. Poiché ci sono state due circostanze, almeno, che mi hanno fatto avvertire una insospettata “lontananza” tra me ed il grande “compagno” Giorgio, divenuto nel frattempo il Presidente, una insospettata “lontananza” tra due militanti che sono venuti dallo stesso grande Partito. Una “lontananza” scavata come un solco profondo nelle nostre vite dalla comune storia di cittadini di questo disastrato paese. E sì che la vocazione e la formazione laica, assorbita abbondantemente con un lungo e faticoso esercizio, nella lunga militanza partitica non ha concesso, e non concede - ancor’oggi? -, licenze e facili lasciapassare. Per la quale – una “rigidità ideologica” secondo alcuni - la “mitizzazione” dei fatti della Storia e dei suoi principali protagonisti – avendo in uggia il mito dell’uomo della provvidenza che sia - trova sempre un confine netto ed invalicabile che non consente idolatrizzazioni di sorta delle persone, dei fatti o delle cose. Per la qual cosa il “compagno” Giorgio, divenuto il Presidente, è rimasto agli occhi del “compagno” di partito persona tra le tante investita di grandissime responsabilità politico-istituzionali. Tanto basta. Ma è potuto accadere che il Presidente abbia risposto piccato ad un cittadino che, nel corso di una pubblica manifestazione – in Puglia? a Bari ? – lo abbia tirato per la giacchetta per aver promulgato un decreto-legge, nell’era berlusconiana, che nel Paese aveva suscitato tantissima preoccupazione e mobilitazioni molto partecipate. In quella occasione il Presidente ebbe a dire, al sospettoso cittadino, che qualora non avesse firmato e promulgato quel famigerato decreto-legge ne sarebbe stato costretto, per come stabilito nella Carta, a seguito di una seconda presentazione del medesimo in altre forme. Mancò in quella occasione il rendere pubblico, da parte del Presidente, e “politicamente” manifesto, un disaccordo di natura politico-istituzionale che andasse in sintonia con l’opinione pubblica più avvertita. Non avvenne. Ancor più preoccupante fu una esternazione del Presidente in occasione di iniziative partitiche, personali o familiari durante le quali si è ricordata la figura – controversa assai – di Bettino Craxi. In quell’occasione il Presidente ebbe a dire che la giustizia del bel paese era stata molto “severa” con la vicenda umana e politica – “tangentopoli” e “mani pulite” – dell’uomo, del suo partito e di tutta la “casta” politica del tempo. Incredibile! Poiché, con le stesse leggi del Parlamento sovrano, che condannarono in via definitiva quell’uomo, nel tempo erano stati giudicati e condannati migliaia e migliaia di altri semplici cittadini italiani incorsi nelle stesse malefatte, e nessuno di essi ha potuto giovarsi dell’incredibile pensiero a difesa del Presidente. Eppure è stato. Oggigiorno un nuovo fatto – grave (?) - interviene a marcare quella “lontananza” che oramai mi separa dal “compagno” Giorgio. Non entro nel merito. Trascrivo di seguito, in parte, una nota a firma di Marco Travaglio – pubblicata su “il Fatto Quotidiano” – che ha per titolo “2 domande ai corazzieri”. Una buona lettura.

(…). Un privato cittadino, Nicola Mancino, furibondo con i pm che hanno osato interrogarlo come testimone e vogliono metterlo a confronto con un altro ex ministro che lo contraddice sulla trattativa Stato-mafia, utilizza le sue conoscenze in alto loco col presidente della Repubblica Napolitano, col consigliere giuridico del Quirinale D’Ambrosio, col Pna Grasso e col Pg della Cassazione Esposito per ottenere ciò che nessun altro privato cittadino, privo di quelle conoscenze, otterrebbe mai: una lettera del Quirinale al Pg della Cassazione e una riunione in Cassazione per tentare di sviare il naturale corso delle indagini. Tutto si svolge aumma aumma, con telefonate e incontri riservati, senza che nessuno dica al signor Mancino, divenuto una specie di stalker che chiama tutti, di mettere per iscritto le sue lagnanze e presentare un esposto all’autorità giudiziaria competente. Anzi, a parte Grasso che non ravvisa estremi per intervenire, tutti debordano dai propri compiti: a cominciare dal capo dello Stato, che attiva il suo consigliere giuridico, fa scrivere al Pg dal segretario generale del Quirinale e chiama – (…) – personalmente Mancino (…). Purtroppo tra i compiti del capo dello Stato non c’è quello di coordinare indagini: come capo del Csm egli si occupa dei magistrati a proposito di nomine, promozioni e sanzioni, non del merito delle inchieste. Ma c’è di più: il suo consigliere D’Ambrosio dice al solito Mancino – terrorizzato di finire indagato (e infatti ci finirà presto) per falsa testimonianza a causa delle contraddizioni fra la sua versione e quella di Martelli – che il presidente gli suggerisce di parlare con Martelli per concordare una versione comune (dunque falsa: la verità non si concorda). Ora, delle due l’una: o D’Ambrosio è un millantatore che fa dire a Napolitano cose mai dette, e allora andrebbe licenziato su due piedi; o D’Ambrosio dice la verità, e allora è difficile per i turiferari del Colle sostenere che fra i poteri del presidente c’è pure quello di sollecitare inquinamenti probatori. (…).

mercoledì 20 giugno 2012

Lavitadeglialtri. 6 La storia di Xitang.


Ritorno dopo un po’ di tempo in quello che è stato l’impero celeste. Un ritorno a volo radente per osservare da vicino cosa avviene nell’opificio più grande del pianeta Terra. Le ali non sono mie. Gli occhi non sono i miei. Avviene per me come avvenne a quel grande della scrittura, che scrisse di avventure straordinarie ambientate in lontanissime, esotiche terre senza mai lasciare i confini del Suo amato Paese. Le ali e gli occhi sono per me, che non sono quel grande, quelli di Giampaolo Visetti. L’ammirazione per la Sua scrittura, le sorprese che mi vengono dalle Sue corrispondenze, le meraviglie di quel mondo così lontano e che vanno morendo sono semplicemente le mie. Ha scritto il Nostro sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, nell’ultima Sua corrispondenza che ha per titolo “Sosteneva Terzani”: (…). Le nuove megalopoli della Cina espellono la vita e la bellezza dal loro cuore per ridursi a sconfinati e anonimi shopping centre. (…). Gli ideali sono (…) stati sostituiti dagli affari, la sconfitta del socialismo ha ceduto il passo alla degenerazione del capitalismo, la rivoluzione s'è risolta in un autoritarismo che arricchisce pochi e consegna alla disperazione molti. La nuova distruzione della Cina non tradisce così l'inutilità del comunismo d'Oriente, ma la cecità del capitalismo d'Occidente. Pechino, per non essere spazzata via dalla rivolta del ceto medio che ha creato, è costretta a garantire sempre più soldi per tutti. La stabilità cinese è affidata alla crescita del Pil, aggrappato ai consumi. È la ragione che obbliga il partito comunista a strappare la gente dalle campagne, a deportare le masse nelle nuove metropoli costruite come immensi centri commerciali, da cui è impossibile fuggire e proibito non spendere. La Cina di Mao veniva demolita nel nome del proletariato. Quella attuale scompare nel nome del consumatore. Il risultato è lo stesso: una costante amputazione culturale, promossa per conservare il potere nelle mani dei vecchi mandarini, autoribattezzati nuovi servi del popolo. I cinesi, prima della strage di piazza Tiananmen, erano ostaggi della povertà. Nell'anno del decennale cambio della leadership sono prigionieri dell'obbligo di fare debiti. Alla narrazione del fallimento del maoismo succede la cronaca del naufragio del mercatismo. La Cina è afflitta dalla malattia che uccide l'Occidente, condivide il suo vuoto di ragioni convicenti per non farsi dominare dal denaro e smarrisce la propria identità. (…). Muore così un Paese. Con una “rivoluzione culturale” all’incontrario. Forse è la Storia che si prende le sue rivincite. Muore così anche l’animo dei cinesi. Poiché è venuto il tempo dell’arricchimento senza freni. Dell’uomo sull’uomo. “Homo homini lupus” - letteralmente "l'uomo è un lupo per l'uomo" – scriveva nell’antica lingua dei latini il Plauto nell’”Asinaria”. Nulla nei secoli è cambiato. Nessuna predicazione religiosa, nessuna delle utopie della politica hanno ridotto a miti consigli l’animo umano. Oggigiorno, nell’opificio più vasto del mondo, ove si consuma lo sfruttamento più spietato degli uomini, delle cose della Terra, della cultura e della memoria, quel detto suona amaro e spietato al contempo. Scriveva Giampaolo Visetti in un’altra Sua corrispondenza – del 26 di Marzo dell’anno 2011 - da quel mondo lontano, corrispondenza che ha per titolo “Jeans ponente”: (…). La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80, era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in questa campagna una macchina per cucire pantaloni. Oggi è la capitale mondiale dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa del cow boy in quella dell'old manager. Non è la Silicon Valley della moda. Gli operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno. Nei vicoli attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce. Nessuno immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di commestibile. Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme. Non è una favola a lieto fine. Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans made in Usa è deserto. L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio consumismo demolisce il sistema-Xitang. Gli operai reclamano salari che permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al gusto finiture lucide, ma i conti non tornano. I materiali valgono più del prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e 300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei cantieri. Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno, il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove. Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur. L'impero della delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno specchio. Dove avrà de-localizzato il capitalismo rampante per continuare a sfruttare convenientemente uomini e cose? In quale altro inferno del pianeta Terra avranno trovato “persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno”? Per portare poi quei miseri panni intrisi di quelle fatiche nelle boutique del cosiddetto mondo avanzato, civilizzato, cristianizzato? Da chi?

lunedì 18 giugno 2012

Capitalismoedemocrazia. 25 La lotta di “classe” che non c’è.


(…). La globalizzazione così rapida ha molto a che fare con i problemi nei quali l’Occidente si dibatte, ma il fattore che ci ha portato al punto di rottura è un altro: i debiti. Pubblici e privati che siano, ne abbiamo accumulati troppi, viviamo in cima ad una montagna instabile che ogni colpo di vento fa smottare da qualche parte, e ogni piccolo smottamento fa tremare l’intera montagna. Dietro quei debiti c’è un modello di sviluppo che dovremo rivedere, ma intanto la prima cosa da fare è stabilizzare quella montagna, (…). (…). Il (…) punto chiave è il ruolo della finanza, dovuto alla sua dimensione e al suo rapporto con l’economia reale e alla fine con la democrazia. La dimensione è spaventosa, la massa delle attività finanziarie è oggi oltre 14 volte il prodotto dell’intero pianeta, nel 2003 era pari a nove volte. Guardando dentro questa massa gigantesca scopriamo che la finanza classica tra il 2003 e il 2010 è passata da tre a quattro volte il pil globale, a espandersi come una immensa metastasi è stata la finanza derivata da meno di sei a oltre 10 volte la ricchezza prodotta ogni anno in tutto il mondo. Ma a caratterizzare il ruolo della finanza non è solo la dimensione, si aggiungono infatti la rapidità di movimento, la totale libertà dai confini nazionali, il fatto che per larga parte sfugga a qualsiasi forma di controllo regolatorio e fiscale. Per dare un’idea, gli interest rate swap su titoli pubblici europei sono pari a 25 volte il debito sovrano del vecchio continente, una quantità che rende sufficiente un piccolo cambiamento di percezione per destabilizzare qualsiasi economia e qualsiasi paese. I problemi che crea una finanza siffatta sono almeno tre: il primo è che dentro quella nuvola sono nascoste delle bombe atomiche. Nessuno è in grado di controllare e quindi nessuno lo sa se chi vende derivati di varia natura ha riserve adeguate per coprirli, se chi li compra a termine ha i soldi per pagarli. L’opacità nasconde incertezze e rischi che possono trasformarsi in qualsiasi momento in temporali devastanti come quello al quale abbiamo assistito al tempo dei subprime e dal quale non ci siamo ancora ripresi. Il secondo problema è la democrazia. Da una parte la finanza nei suoi meccanismi attuali tende ad accentuare le disuguaglianze ed a minare la coesione sociale, dall’altra dispone di una potenza che non risponde a nessuno ma che è in grado di mettere in ginocchio un paese, una economia, una comunità, senza portarne la responsabilità. Il terzo problema è che la finanza si sta mangiando l’economia reale, con una competizione sleale nella selezione dei talenti, che è in grado di remunerare come nessuna azienda manifatturiera o di servizi è in grado di fare, e una competizione ancora più sleale per le risorse. Proviamo a immaginare che qualcuno abbia un po’ di soldi da investire e può scegliere se metterli in una impresa, con il rischio legato al successo dell’attività e la fatica della gestione dei rapporti con le amministrazioni, i dipendenti, i fornitori e i clienti, oppure consegnarli a un hedge fund che promette alti rendimenti, magari al sicuro dalle tasse, e con la prospettiva di passare il suo tempo a leggere libri (nella migliore delle ipotesi) su una sedia a sdraio guardando il mare dei Caraibi. Quale sarà la scelta più probabile? (…). Così ha scritto Marco Panara sul numero dell’11 di giugno del settimanale Affari&Finanza. Titolo del Suo “pezzo”: Euro, debiti sovrani, banche i tre scenari per il dopo-crisi. Ho tralasciato da un bel po’ di tempo d’interessarmi alle vicende della “crisi”. Forse per stanchezza. O forse per un tentativo di esorcizzare il pericolo che incombe. Capita spesso, nella vita degli umani, di apprestare inutili tentativi affinché le cose spiacevoli non abbiano a turbare le speranze, i sogni. In definitiva, la vita tutta. È da ascrivere a questi inutili tentativi questo mio prolungato disinteresse per le cose che accadono attorno alla “crisi”. Un tentativo inutile, puerile. Le cose procedono per il loro corso. È che, in questa occasione, lo scoramento sorge dalla verifica della inutilità di tutte le manovre che i cosiddetti tecnici approntano per sedare la fame incontrollata della finanza globalizzata. All’annuncio delle manovre nuove che dovrebbero rivelarsi risolutive per iniziare a frenare la “crisi” i famigerati “mercati” rispondono con contromanovre che ne vanificano i risultati sperati. È come uno svuotare il grande mare con la paletta ed il secchiello. È che riesce difficile sfuggire a quel senso di impotenza che gli avvenimenti innescatisi nei recenti anni hanno contribuito a rafforzare. Del resto lo sconforto diffuso trova sostanza nei pensieri e nelle parole degli osservatori più attenti ed avvertiti. Traggo ragione del mio tentativo inutile di esorcizzazione, del quale prima parlavo, nelle letture che non disdegno di continuare a fare. Per capire. Per essere cittadino responsabile di questo tempo. Una delle ultime è stata la lettura, imperdibile, del volumetto “La lotta di classe dopo la lotta di classe” – Laterza editore (2012) pagg. 212 € 12,00 -, già in altra occasione citato, con un’intervista del professore Luciano Gallino raccolta da Paola Borgna. Sta scritto alla pagina 211: “(…). …la crisi del capitalismo, iniziata nel 2007 e riesplosa nel 2010-2011, appare gravissima, e sebbene quest’ultimo infligga di continuo ulteriori costi alla classe operaia e alle classi medie al fine di salvarsi, non è detto che questa volta debba riuscirci come più volte è avvenuto in passato. Esiste nel mondo attuale una contraddizione inaudita, per più versi insostenibile: da un lato vi sono masse immense di capitale alla ricerca forsennata di un impiego redditizio, dall’altro masse immense di individui disoccupati, od occupati marginalmente nell’economia informale, che hanno disperatamente bisogno di trovare un lavoro ragionevolmente retribuito e stabile. Davanti a tale situazione, i governi appaiono ovunque incapaci, né particolarmente impegnati nel trovare un modo efficace per far incontrare capitale e lavoro. Non è questa l’ultima conseguenza negativa dell’assenza di una lotta di classe che non sia condotta unicamente, come avviene da trent’anni, dall’alto verso il basso. (…)”. È questa l’amara conclusione del professor Gallino, ovvero della “assenza di una lotta di classe” che dia piena consapevolezza di quella “contraddizione inaudita” imposta dal capitalismo rampante per la quale, come sempre in verità nella Storia, si scaricano sulle classi meno abbienti i sacrifici più duri ed iniqui. Anche la Grecia, con il voto di ieri, sembra abbia voluto sottoporsi alle ingiuste imposizioni di questo capitalismo a-sociale. Fa paura lo spettro del capitalismo finanziario che, non più “regionale”, si aggira minaccioso sull’intero globo terracqueo.

lunedì 11 giugno 2012

Cosecosì. 21 La scuola non è pensata per la ricerca del meglio.


(…). All'inizio scrivevo relazioni di fine d'anno ipercritiche. I risultati - sottolineavo - sono questi: ho sbagliato qui, ho sbagliato lì, manca questo, manca quello. Forse mi aspettavo che il preside dicesse: "Ehilà, roba interessante. Chi è questo Starnone? Quel ragazzo nuovo? Trasmettiamo subito tutto al provveditore". E il provveditore: "Ehilà, roba dura, un vero campanello d'allarme. Su, rimbocchiamoci le maniche e vediamo di capire cosa vuole questo giovane. Anzi: informiamo anche il ministro". Il ministro: "Ehilà, ecco finalmente uno che prende molto sul serio il suo lavoro. Ispettore, vada subito a Viggiano e cerchi di capire quali sono le difficoltà che incontra questo bravo giovane". Forse mi immaginavo che potesse accadere così. O forse, più semplicemente, pensavo che le relazioni di fine anno dovessero essere bilanci seri, fuori dai denti, spietate (innanzitutto con se stessi, in modo che l'anno seguente, dopo ampia discussione collegiale, si partisse dagli errori individuati e si facesse meglio tutti ). Capii presto che ero fuori dal mondo: sicuramente fuori dal mondo scolastico. Il primo preside nelle cui grinfie finii si occupò di me solo per minacciarmi, in quanto avevo la febbre alta ed ero costretto a interrompere la supplenza che mi era stata assegnata (…). Il secondo compariva raramente (…): le volte che veniva vigilava sul mio registro, sulla giusta grafia e collocazione della A delle assenze nelle caselle, sulla lunghezza (…) dei giudizi formulati per i compiti scritti; poi si dava al vino buono, al pecorino. Il terzo preside, a cui dissi una volta che avrei abbandonato la scuola quando non avessi più provato piacere a insegnare, mi rispose: "Lei è pagato per lavorare, non per divertirsi". Il quarto preside invece obiettava a chiunque volesse fargli perdere tempo e fiato: "Professore, non facciamo poesia". A me lo diceva un giorno sì e uno no. Qui mi fermo. La scuola com'è non è pensata per la ricerca del meglio. (…). Lo scriveva l’impareggiabile Domenico Starnone nel Suo volume Solo se interrogato – Feltrinelli editore (1995) -. Un’altra epoca. Chiosavo quello stupendo scritto del collega Starnone molti anni dopo nel mio volume I professori – AndreaOppureEditore (2006) cap. 1° “Ovvero della aleatorietà della valutazione” – in questi termini: E se le cose scritte da Starnone non sono estranee alla mia personale esperienza, come è stato possibile sopravvivere ad una situazione così dissacrante della istituzione stessa ed al contempo così mortificante sul piano della professionalità e dell’impegno? E come è possibile rivendicare una considerazione sociale diversa, allorquando è mancato il coraggio, o più semplicemente il senso civico, di rifiutare e ribaltare situazioni così estreme e, di sicuro, di pratica diffusa all’interno di una istituzione così importante e necessaria per la crescita democratica delle giovani generazioni e della società nel suo complesso? A queste domande sarebbe necessario dare serene e sensate risposte, a meno che la situazione  descritta da Starnone non rappresenti solo un fatto unico, marginale e di auto-esclusione dal contesto di una grande oasi di pace e di benessere, all’interno della quale nulla merita di essere posto sotto attenta e critica osservazione da parte dei protagonisti principali, ovvero da parte degli insegnanti. Vedevo giusto. Oggigiorno è tutto un parlare del “merito”. Sarà per l’aria che tira all’interno del “palazzo” della politica e dintorni. Del “merito”: stabilito da chi? Per cosa? Da una scuola che si pensa sia divenuta diversa? E perché mai? C’è molto da fare: mancano le idee e le risorse. Propongo di seguito, in parte, una riflessione di Vittorio Sermonti sull’Autorità perduta, riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 29 di ottobre dell’anno 2011 a firma dello scrittore Franco Marcoaldi.

(…). Non saprei dire con precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere le parti dell´allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli. «Credo anch´io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l´impressione che questo aspetto della promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava l´anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza. Successivamente, fra gli anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l´elezione dei piccini a despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari, emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro come questo dev’essere ben duro provare ad esercitare l´autorità. «Autorità? Ma quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e dunque vengono comunemente guardati dall´alto in basso. E poi, come dice il nostro primo ministro (la scuola che “inculca” secondo la vulgata dell’egoarca di Arcore n.d.r.), l´educazione che impartiscono è l´esatto opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo, mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico della mafia. (…).».
Eppure, la nostalgia dell´autorità e l´aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa, radicata. «Sì, però anche qui dobbiamo metterci d´accordo. Si potrebbe dire che viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell´autorità e il terrore dell´autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell´autorità. Per certo, questa aspirazione tanto diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un´autorità purchessia, sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti, troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il "valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del "valore-autorità" e nell´atto stesso di svuotarlo l´ha otturato di sé. Difficile rianimare l´autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo voglia. Perché l´esercizio attivo-passivo dell´autorità è troppo rischioso: pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l´ammirazione. Pensare è ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di ringraziare».
(…). …c´è ancora uno spazio pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto l´autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un´autorità capace di offrici, ad esempio, quell´orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso? «Difficile rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in cui si afferma il primato della politica, che è poi l´anti-politica, la quale a sua volta è dominata dall´economia che a sua volta è dominata dalla finanza. Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno. Ma io non credo che la storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l´attuale rapporto tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto, una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici. Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine "moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l´etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l´orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».”

domenica 10 giugno 2012

Sfogliature. 4 Habemus papam.


Il post di oggi ripropone di seguito un post che è del 21 di aprile dell’anno 2011 ed è appartenuto alla categoria Se il divino diviene il problema, quando questo blog stazionava su di un’altra piattaforma della rete. Mi va di riproporlo alla luce degli avvenimenti accaduti nella chiesa di Roma. Ha scritto Giacomo Papi – “Il rosario” sull’ultimo numero del settimanale “D” de’ la Repubblica -: (…). Di crisi della fede si parla da decenni. Non ha giovato la sequela di guardie svizzere assassinate, di criminali seppelliti insieme ad altri anonimi scheletri in cripte di pertinenza vaticana, di ragazzine sparite, o violentate a migliaia, la sfilza di banchieri cacciati, cardinali litiganti e corvi gracchianti, non ha giovato il maggiordomo spione e il papa che, all'elezione eccitò le speranze di orde di reazionari, si rivela oggi soltanto un uomo debole e anziano. Qualche mese fa i cardinali del Consiglio per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, diretti dal segretario di Stato Tarcisio Bertone, hanno diramato una nota in cui eprimono "preoccupazione per la situazione di crisi generale, la quale non risparmia neppure il sistema economico vaticano nel suo complesso.(...)".Non sorprende la “preoccupazione” di quei cardinali di quel tale Consiglio.

Sono stato a vedere l’ultimo lavoro cinematografico di Nanni Moretti, “Habemus papam”. Ci sono andato con lo spirito di un laico, di un non credente. Non poteva essere altrimenti. E devo dire che questa nuova prova di Nanni è stata all’altezza delle aspettative di un laico, di un non credente. Per i credenti sarà stato diverso. Innanzi tutto essa, l’opera in questione, ha fatto vibrare quasi incessantemente il “registro” delle mie emozioni; e quando un’opera creativa, di qualsivoglia natura, riesce a far vibrare quel “registro” è opera indubbiamente riuscita e di valore. E poi: è un’opera cinematografica che tocca con straordinaria levità – nell’accezione piena di “delicatezza, grazia” secondo il Sabatini-Coletti - argomenti difficili assai da trattarsi e che suscitano sempre ed immancabilmente opinioni contrastanti se non ferocemente avverse  – ed in questi giorni se ne sono sentite di già –, se non novelle crociate all’insegna del “dagli addosso al miscredente”, non ritenendosi un’opera cinematografica, settima musa, degna ad indagare gli stati dell’animo anche di un essere umano “toccato” dal Signore. Ma sono convinto che a spingere in certe critiche non sia l’opera visionata in sé stessa ma quella prevenzione che accompagna da sempre la cosiddetta diversità, se non “minorità”, del non credente, non credente così come Nanni Moretti si definisce. Di questo aspetto del vivere (in)civile nel bel paese ne ha scritto magistralmente il professor Gustavo Zagrebelsky alla pagina 85 del Suo “Contro l’etica della verità” – Laterza editore (2008) pagg. 171 € 15,00 -: “(…). L’interlocutore non cattolico, per la Chiesa, è uno che, in moralità e razionalità, vale poco o niente; è uno che le circostanze inducono a tollerare, ma di cui si farebbe volentieri a meno. A ben pensarci, l’amichevole proposta ai non credenti di vivere (almeno) come se Dio esistesse è conseguenza di questo disprezzo. Se ci si confronta con loro, è perché le condizioni storiche concrete non consentono altrimenti. Il dialogo non è questione di convinzione, ma di opportunismo dettato da forza maggiore o da ragioni tattiche, nell’attesa che cambi la situazione. C’è una distinzione molto cattolica fra tesi e ipotesi, una distinzione che consente alla Chiesa i più spericolati adattamenti pratici anche molto distanti dalle sue concezioni del bene e del giusto. La tesi è la dottrina cattolica nella sua purezza; l’ipotesi è quanto di essa le circostanze consentono di realizzare. Il dubbio è che il dialogo, per la Chiesa, sia solo in ipotesi, in vista di tempi migliori, come è per lo stratega (…), che prende tempo e accresce le sue munizioni. (…).” Fine della citazione. Ritorno al film. Giganteggia la figura di Michel Piccoli, che riesce ad umanizzare straordinariamente il ruolo che gli è stato affidato. È Michel Piccoli e la Sua figura di papa ad avere fatto vibrare il “registro” delle mie emozioni e ad avermi fatto pensare a quello straordinario lavoro letterario che è “L’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone. Un accostamento inevitabile. L’appena eletto papa di Nanni ha l’aspetto bonario di un padre, anzi del “padre” tout-court, così come anche un non credente si augurerebbe d’incontrare. È, il papa di Nanni Moretti, l’uomo moderno che avverte la complessità del mondo odierno; è, il papa di Nanni Moretti, l’uomo moderno con le sue contraddizioni e le sue ansie per un messaggio religioso, del quale è portatore, che stenta ad entrare in sintonia con la vita vissuta, messaggio che crea spesso una cesura tra la propria appartenenza confessionale ed il proprio stare nel mondo complesso qual è divenuto oggigiorno. Ed avviene che, al manifestarsi del suo tentennamento a divenire il successore di Pietro sull’alto soglio, nell’imbarazzo dei potenti porporati del palazzo, nello sconforto che il suo tentennamento induce negli animi più semplici che lo circondano, egli si accordi un tempo per una necessaria “scansione” del suo animo e, contrariamente a quanto il palazzo ingenuamente pensa, riesce a sfuggire ai preposti alla sua sorveglianza ed invece di rinchiudersi a pregare, come lo si vuole immaginare, si avventura nella città vissuta, nelle sue caotiche strade, ne scruta le pieghe più riposte e solo così trova, alla fine, una risposta, anzi la risposta convinta che gli spiana il passo al grande “rifiuto”. È nel mondo che vive, anziché in un “pregare” solitario e lontano dal mondo che vive, che il papa di Nanni trova la forza per sostenere coscientemente l’inadeguatezza della sua persona. Un messaggio forte, che chiama in causa e rende “relative” e più in sintonia col tempo tesi e prassi di un “credo” che resiste affannosamente allo scorrere impietoso del tempo. Straordinario. “Rifiuto l'appellativo di ateo” scrive il professor Galimberti nella Sua riflessione che ha per titolo “Metodo catechistico e metodo socratico”, riflessione pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”, che di seguito trascrivo in parte. Ed ancora si chiede il professor Galimberti: “Dove abita la verità? Nella dottrina o nell'uomo?”. Ecco, il papa di Nanni Moretti trova la “sua” verità andando in giro tra gli uomini, per le strade del mondo, come fece anche l’uomo di Nazareth che non creò chiesa alcuna. “Dove abita la verità? Nella dottrina o nell'uomo? Rifiuto l'appellativo di ateo (…). Collocare coloro che regolano i propri pensieri e la propria vita seguendo i percorsi dischiusi dalla sola ragione in quella definizione privativa che li definisce a-tei o non credenti significa confermare la posizione di quanti ritengono che il modo giusto di essere uomini è quello di chi crede in Dio, e continuare a dar credito in tal modo a quell'antica e impropria tradizione medioevale e rinascimentale che identificava l'uomo col cristiano, aprendo così le porte all'intolleranza quando non ai massacri di chi cristiano non era, come l'impresa di Colombo in America testimonia. Ci ricorda infatti Ernesto Balducci ne La terra del tramonto (Edizioni Cultura della Pace) che gli indigeni dell'America latina erano più di sette milioni all'arrivo di Colombo, saranno appena 15.600 sedici anni dopo. Non conosco l'episodio dei bersaglieri che, dopo Porta Pia fecero entrare a Roma un carro carico di bibbie in italiano, proibite da Pio IX che le definiva blasfeme traduzioni. Però la (…) ipotesi che la Chiesa di allora preferisse l'ignoranza del popolo alla sua acculturazione è testimoniata da una lettera del 3 gennaio 1870 inviata da Pio IX a Vittorio Emanuele II in cui il pontefice scrive: - Vi unisco poi la presente per pregarla a fare tutto quello che può affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata, per quanto si dice, relativa alla istruzione obbligatoria. Questa legge parmi ordinata ad abbattere totalmente le scuole cattoliche e soprattutto i Seminari. Oh quanto è fiera la guerra che si fa alla Religione di Gesù Cristo! Spero dunque che la V. M. farà sì che in questa parte almeno, la Chiesa sia risparmiata. Faccia quello che può, Maestà, e vedrà che Iddio avrà pietà di Lei. Vi abbraccio nel Signore. Pio PP. IX -. Non bisogna scandalizzarsi per queste parole e neppure considerarle figlie di quel tempo, ma piuttosto iscriverle nella concezione della Chiesa che si considera depositaria della verità assoluta, la quale deve essere semplicemente trasmessa a quei vasi vuoti da riempire (vasum receptionis, dice Paolo di Tarso) che sono le menti degli uomini. Questo metodo che possiamo definire catechistico è l'esatto opposto del metodo inaugurato da Socrate, il quale riteneva che la verità fosse presente in ogni uomo in modo confuso distorto e approssimativo, e come tale bisognosa di essere ripulita dalle persuasioni personali e soggettive, in modo da proporsi solida e fondata su solide argomentazioni oggettive. Naturalmente il metodo socratico rivela una fiducia nell'uomo, pensato come depositario anche confuso della verità, che il metodo catechistico rifiuta, relegando la verità in un corpo dottrinale di cui solo il Magistero è depositario. Pio IX, quindi, non commette errori figli del tempo ma, in quanto pontefice della Chiesa, è perfettamente coerente con la sua dottrina.”

domenica 3 giugno 2012

UominieDio. 3 L'assassino siede alla destra del suo Dio.


(…). …da secoli l'Italia si è conquistata nel mondo una grande fama come patria dei veleni. Chiedere per conoscenza all' inventore del Rinascimento italiano, lo storico Jacob Burckhardt, o a Stendahl, quell'Arrigo Beyle milanese appassionato lettore delle antiche cronache italiane. Nell' Italia del Rinascimento, secondo Thomas De Quincey, il veneficio conferì all'assassinio la raffinatezza di un'opera d'arte: da allora in poi chi ricorre al pugnale o alle armi da fuoco è come chi preferisce una rozza riproduzione al capolavoro originale. È un fatto che da noi, in Italia, le lotte per il potere, per l'amore, per la gloria, hanno mostrato una decisa predilezione per le vie sottili e tortuose degli intrighi e dei venefici evitando la prova di forza a viso aperto, la violenza semplice e brutale. È noto che il veleno come opera d'arte conobbe la sua massima raffinatezza e il più intenso uso nella corte papale: celebri fra tutti i casi dei Borgia, che fecero sistematicamente uso di quei mezzi e lasciarono a Lucrezia, che fu in tutti i sensi la donna di famiglia, la discutibile eredità di una fama sinistra, non cancellata dalle tardive pratiche devote. L'arte del veleno fu dunque una invenzione tutta italiana, una «abominable innovation from Italy», scrisse De Quincey. Strumento prediletto delle congiure, i principi rinascimentali italiani le dedicarono la stessa cura che altri sovrani europei investivano allora nell'organizzazione di eserciti e flotte. E se lo zio di Amleto non era un italiano, William Shakespeare apprese molto dall'Italia, come si conveniva al supremo artista del teatro del potere. L'arte poi declinò ai tempi dell'incipiente borghesia, involgarendosi a strumento di gelosie d'amore e di inferni domestici. Ma una volta identificati e classificati i preparati mortali nei laboratori di polizia cominciò a languire il fascino sinistro del veleno: quello di una morte che arriva a destinazione, spedita da mano lontana, strisciando come il serpente nascosto nel giardino dell'Eden. La possibilità di sbarazzarsi dell'avversario senza lasciare tracce ha sempre aguzzato gli ingegni. È per questo che, nel declino della morte per veleno (che tuttavia esiste), ne è rimasta immortale l'idea e si è ripresa la ricerca. C'era bisogno di qualcosa di nuovo. E ancora una volta è stata l'arte italiana a trovare la risposta, rinverdendo la sua antica perizia nelle invenzioni abominevoli, il suo gusto impareggiabile per la scelta di astuzie coperte al posto della violenza palese e dello scontro sul campo. Oggi il veleno che uccide non è un artificio segreto: è una cosa che sta sotto gli occhi di noi tutti, come la lettera smarrita di un celebre racconto di Edgar Allan Poe. Basta una carticella, un documento adeguatamente ritoccato e cucinato, non importa se falso o autentico, meglio se misto di verità e di invenzione: lo si tiene in serbo per usarlo al momento opportuno. Lo si inocula nella forma più pubblica e clamorosa possibile, via Internet, sulla stampa quotidiana, in televisione. Più si domina il campo dell'informazione meglio è. L'opinione pubblica diventerà il portatore sano del veleno spedito alla vittima designata. Da quel momento in poi basterà aspettare. Il destinatario potrà avere reazioni diverse: accasciarsi e sparire in silenzio, (…), reagire con ira e con clamore, (…). Non importa. L'effetto è sicuro. La vittima designata assorbirà il veleno e subirà gli effetti letali della gogna mediatica rilasciata a dosi quotidiane tanto più rapidamente quanto più rigido sarà il suo senso dell'onore, più forte la sua sensibilità all'esposizione della propria immagine pubblica. Ma prima o poi si leverà di mezzo o altri lo convinceranno a farlo. Questa almeno è ciò che spera il mandante, che intanto si manterrà lontano, silenzioso e apparentemente estraneo alla vicenda. Ai nuovi canoni si sono dovuti adeguare le formazioni o i raggruppamenti degli umani che operino nelle verdi contrade del bel paese. E lo ha fatto la politica. Lo ha fatto pure quella che passa per la chiesa di Roma. Che continua la “sua” “missione politica” con i mezzi propri della politica secolare. È solo un ricordo lontano assai la pratica venefica della Lucrezia citata en passant da Adriano Prosperi nel Suo pezzo “L’arte del veleno un’invenzione italiana”, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 28 di settembre dell’anno 2010, che ho appena trascritto in parte. I veleni oggigiorno si inoculano per altre vie, come la storia irrisolta, al momento, dei “corvi vaticani” insegna. È che quella chiesa è rimasta prigioniera della sua storia più tenebrosa. Dichiara don Andrea Gallo nella intervista rilasciata a Fabrizio d’Esposito de’ “il Fatto Quotidiano” – intervista che ha per titolo “Ratzinger è debole, comanda l’Opus Dei” -: (…). - Sono un prete da oltre 52 anni e sai perché? Perché ho aderito a Gesù e alla Chiesa, pensa un po’. Mi chiamano contestatore ma io non contesto nulla. Ho avuto cinque cardinali arcivescovi e accetto la correzione fraterna. Non me ne vado ma non taccio  -”.(…).
I classici giochi di Curia si sono trasformati in una guerra senza precedenti. - Vent’anni fa conobbi un monaco di cui non faccio il nome perché è vivo e scrive libri. Era un importante dirigente vaticano. Gli chiesi: “Come va a Roma? ”. Lui mi rispose: “Roma è una sede vacante, governa l’Opus Dei” -.
La prelatura fondata da Josemaria Escrivà, oggi santo. - Ho rivisto il monaco due anni fa e gli ho fatto un’altra domanda: “È sempre valido quello che mi dicesti? ”. Mi ha fatto un sorriso bellissimo e mi ha detto: “È ancora valido”. Uno dei tre inquisitori che indagano è il cardinale Casado, allievo di Escrivà. Il vero problema della Chiesa è una grande crisi di leadership. (…). –
Un papa debole. – (…). La Controriforma è continuata e Roma è rimasta cieca e sorda di fronte ai fedeli. Ci sono pilastri dogmatici che nulla hanno a che vedere con la Bibbia -.
La casa di Dio invasa dal fumo di Satana. - Quando sento dire che il vento diabolico soffia sulla casa di Dio mi chiedo: ma chi è questo Dio che abita in Vaticano? È quella la vera casa di Dio? La Chiesa però è sempre gloriosa. Ed è “semper reformanda” -.
Uno dei punti del Concilio Vaticano II. - Concilio significa confronto non arroganza del ministero ed esclusione dalla comunione. Ratzinger ha sfiorato l’eresia nell’omelia dell’ultimo Giovedì Santo, rispondendo all’appello dei teologi tedeschi -.
Chiusura netta. - Ha negato l’ordinazione femminile perché non c’è alcuna indicazione in merito da Nostro Signore, ha detto. Ma allora il Signore ha dato indicazioni più precise per fondare lo Ior? Poi ha citato un’enciclica del Beato Giovanni Paolo II che “irrevocabilmente nega” il sacerdozio femminile. Hai capito? Giovanni Paolo II era una persona sulla terra non Dio eppure ha il potere di negare irrevocabilmente -. (…).
Colpa degli scandali, dalla pedofilia alle lotte di potere? - Aggiungo l’obbligo del celibato. Ma la Chiesa siamo noi e dobbiamo salvarla, come ha scritto nel suo ultimo libro il grande teologo Hans Kung. Il Vaticano è il nuovo Vitello d’oro. Finirà che da disubbidiente divento teologo -.

Mi fa un certo effetto ancora e mi scorre come un brivido improvviso lungo la schiena rileggere, dopo anni ed anni, la brevissima lirica del poeta e musicista Ivan della Mea (1940-2009), lirica pubblicata sul quotidiano l’Unità del 27 di settembre dell’anno 2001 che ha per titolo “L'assassino siede alla destra del suo Dio”. La trascrivo di seguito in parte.

(…). Il dio di Cortez e di Pisarro era un dio genocida sì e il mio cuore ancora cerca i suoni di un “ condor pasa” libero su Ande libere.

Il dio del generale Custer era un dio idiota, e presuntuoso e assassino sì e il mio cuore è ancora sepolto a Wounded Knee.

Il dio di Hitler era un dio sterminatore sì e gemello del dio Stalin e il mio cuore ancora non trova pace tra i campi di sterminio nazisti siccome tra i ghiacci dei gulag siberiani.

Il dio di Osama Bin Laden è un dio sanguinario sì e il mio cuore smarrito cerca ancora di ritrovarsi e di capirsi tra le macerie delle Twin Towers. (…).

Quell’assassino siede sempre alla destra del suo dio. Non è stato ancora scacciato dal tempio del Signore. Perché? Fino a quando?

venerdì 1 giugno 2012

Storiedallitalia. 15 L’allievo di Prodi folgorato da Bossi.


Ha dichiarato l’imprenditore Maurizio Zamparini a www.sportnews.eu: «Monti dice solo delle stupidaggini. Dovrebbe pensare prima di parlare. Prima di dire che bisogna “chiudere” il gioco del calcio, dovrebbe pensare ai suoi problemi e a tutto quello che sta distruggendo e facendo chiudere lui con i suoi provvedimenti. Monti inoltre non si rende conto che, se chiude il calcio, chiude anche lo Stato perché verrebbero meno più di 900 milioni di euro di tasse all’anno. Per questo dico che dovrebbe pensarci bene prima di dire certe cose. (…). 2-3 anni dovrebbe essere sospeso il calcio? Ma 2-3 anni sospenderei Monti e il parlamento. Il calcio coinvolge milioni di persone, per alcune decine di responsabili vuole fermare il calcio? Lui che non ha mai ripianato un bilancio con i soldi di contribuenti, sento amici che chiudono le aziende dopo 40 anni di lavoro, e quello va a demonizzare il mondo del calcio. Incapace e ignorante! La sua è stupida demagogia». Bene. Anche la mafia contribuisce al Pil del bel paese. Anche le “morti bianche” sono un amaro tributo al Pil del bel paese. Anche il lavoro sommerso o pagato in nero. Per tale motivo bisognerebbe conviverci, per come suggerito “lunardianamente” in passato? Ma che discorsi sono? Chi delinque delinque e non ha alcun merito, neanche fiscalmente parlando. Punto. È questo il bel paese che ci siamo ritrovati dopo un quindicennio abbondante del signor B e dintorni. A questo punto propongo una lettura che ha dello straordinario. La ricavo da “il Fatto Quotidiano” del 30 di maggio a firma di Giorgio Meletti. Tanto per riquadrare o inquadrare il tutto. Mi capita spesso, interloquendo con carissimi amici in quel di ******, di rimproverare loro un certo “vezzo” da intellettualoidi per il quale la “mafia” e le altre cortigianerie delinquenziali hanno rappresentato un “antistato” accettabile poiché  esso si procurava di creare ricchezza e distribuire stipendi e garanzie economiche e/o d’altro genere. Interloquendo con essi mi è parso giusto dissentire, anche fortemente od aspramente, per un “vezzo” che rendeva complici del malaffare che attanaglia intere regioni del bel paese, dal Nord industrializzato al Sud un tempo agricolo ed ora ridotto ad una sacca di pubblica sussistenza. Non sono per nulla convinto che il mio discorso abbia avuto interessati ascoltatori. Titolo della lettura proposta: “L’allievo di Prodi folgorato da Bossi”, quello inquisito, caso recente, per le disavventure della Banca Popolare di Milano. Uno specchio dell’Italia rampante.

Massimo Ponzellini è nato ricco, ma ricco veramente. Sua padre, Giulio, era il facoltoso imprenditore che sostenne a Bologna la nascita del Mulino e della scuola economica di Nino Andreatta prima e Romano Prodi poi. Sua madre è Marisa Castelli dell’Anonima Castelli, colosso dei mobili per ufficio. Poi si è sposato con Maria Segafredo della famiglia del caffè. “Da ragazzo avevo diverse Ferrari, adesso ne ho una sola”, spiegava un anno fa a un’attonita Daria Bignardi per descrivere la sobrietà raggiunta con i 60 anni. Corpulento, chiacchierone, fiero del suo dongiovannismo, Ponzellini merita un posto nel Pantheon dell’Italia in declino. Nato prodiano, è diventato un simbolo dello spirito del tempo berlusconiano. Al suo attivo alcuni record, tra cui quello di aver insegnato all’Università Bocconi senza essersi mai laureato. Un testimonial dell’Italia dove studiare non serve a niente se sei pieno di amicizie. Ed eccolo ventottenne, già amministratore delegato nell’azienda del padre, che però non è contento di lui e chiede al giovane professore Romano Prodi di fargli fare qualcosa di utile per sé e magari per il prossimo. Prodi, nominato ministro dell’Industria, se lo porta a Roma come assistente. È il novembre del 1978, Aldo Moro è stato ucciso dalle Br appena sei mesi prima, ma Ponzellini non si fa scrupolo di arrivare sotto il ministero, in via Veneto, sgommando in Ferrari. Segue poi Prodi all’Iri dove fa una certa carriera. Quando il Professore viene fatto fuori, e sostituito con l’andreottiano Franco Nobili, Ponzellini deve cambiare aria, e si piazza a Londra, nella nascente Bers, la banca europea per la rinascita economica dell’Est Europa. Ponzellini solennizza il momento comprandosi la Bentley, preferibile alla Rolls Royce, spiegherà in seguito, perché te la guidi da solo mentre la Rolls senza autista è improponibile. A Londra il giovane banchiere rileva un certo traffico. Si sposta poi alla Bei, Banca europea per gli investimenti, dove resta fino al 2003 come vice presidente e amministratore delegato. Come molti cervelli in fuga, Ponzellini prepara il ritorno in Italia. La sua rete di relazioni si infittisce. Nel 2001 è tra gli azionisti della nuova Unità riportata in edicola da Furio Colombo e Antonio Padellaro, e affianca la campagna elettorale di Francesco Rutelli candidato premier. Vince Berlusconi, e allora Ponzellini decide (e dichiara, perché l’uomo è schietto) che quelli come lui, che vogliono bene all’Italia, devono stare vicini a chi vuole il bene del Paese. Per esempio, Silvio Berlusconi. Per esempio Luigi Bisignani. Ma anche e soprattutto il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Che nel 2002 gli affida la neonata Patrimonio Spa, che deve censire e dismettere gli immobili pubblici. Se oggi tra gli obiettivi del governo Monti c’è ancora il miraggio di vendere un po’ di beni demaniali il merito è tutto di Ponzellini che non ha combinato niente. Però il banchiere senza laurea piace a Tremonti, che lo promuove alla guida del Poligrafico dello Stato. Veloce nei movimenti, sia geografici che politici, Ponzellini comincia a fare acrobazie. Tra una barzelletta, un affare e un complimento alla bellezza di passaggio, diventa nel 2007 anche presidente dell’Impregilo, la più grande società di costruzioni italiana, in crisi nera dopo la gestione Romiti. Si affida a lui il gruppo Gavio, che è in ottimi rapporti con il presidente della provincia di Milano Filippo Penati. Ponzellini finisce indagato per un finanziamento a Faremetropoli, l’associazione di Penati, ma sostiene di non saperne niente. Da berlusconiano, il ragazzo vuole rimanere anche prodiano, tanto che il Professore si stufa e affida al portavoce Silvio Sircana una feroce lettera al Corriere della Sera: chiede di non scrivere più che il banchiere “è vicino” a Prodi, perché i due sono solo vicini di casa a Bologna, per cui “sarebbe più opportuno parlare di vicinato e non di vicinanza”. Ponzellini però è oltre. Riscopre le origini varesine della famiglia e diventa amico di Umberto Bossi, “persona per bene”. Fa l’accordo con la Cisl di Raffaele Bonanni e i dipendenti della Banca popolare di Milano lo eleggono presidente, nel 2009. Bossi dice che Ponzellini è un suo uomo. Alla domanda se preferisca la compagnia di Bossi o di Prodi, il ragazzaccio dice che è come chiedere se preferisci stare a casa con i genitori o al bar con gli amici. Prodi è il padre palloso, Bossi l’amico scoppiettante. Gusti. Però alla fine dalla Bpm lo cacciano e Ponzellini si trova sotto indagine per la storia che ieri l’ha portato agli arresti domiciliari. Ma ha di che consolarsi. Il presidente Napolitano proprio l’anno scorso l’ha fatto cavaliere del Lavoro. E perché no?