Ritorno dopo un po’ di tempo in
quello che è stato l’impero celeste. Un ritorno a volo radente per osservare da
vicino cosa avviene nell’opificio più grande del pianeta Terra. Le ali non sono
mie. Gli occhi non sono i miei. Avviene per me come avvenne a quel grande della
scrittura, che scrisse di avventure straordinarie ambientate in lontanissime,
esotiche terre senza mai lasciare i confini del Suo amato Paese. Le ali e gli
occhi sono per me, che non sono quel grande, quelli di Giampaolo Visetti.
L’ammirazione per la Sua scrittura, le sorprese che mi vengono dalle Sue
corrispondenze, le meraviglie di quel mondo così lontano e che vanno morendo
sono semplicemente le mie. Ha scritto il Nostro sull’ultimo numero del settimanale
“D” del quotidiano la Repubblica, nell’ultima Sua corrispondenza che ha per
titolo “Sosteneva Terzani”: (…).
Le nuove megalopoli della Cina espellono la vita e la bellezza dal loro cuore
per ridursi a sconfinati e anonimi shopping centre. (…). Gli ideali sono (…)
stati sostituiti dagli affari, la sconfitta del socialismo ha ceduto il passo
alla degenerazione del capitalismo, la rivoluzione s'è risolta in un
autoritarismo che arricchisce pochi e consegna alla disperazione molti. La
nuova distruzione della Cina non tradisce così l'inutilità del comunismo
d'Oriente, ma la cecità del capitalismo d'Occidente. Pechino, per non essere
spazzata via dalla rivolta del ceto medio che ha creato, è costretta a
garantire sempre più soldi per tutti. La stabilità cinese è affidata alla
crescita del Pil, aggrappato ai consumi. È la ragione che obbliga il partito
comunista a strappare la gente dalle campagne, a deportare le masse nelle nuove
metropoli costruite come immensi centri commerciali, da cui è impossibile fuggire
e proibito non spendere. La Cina di Mao veniva demolita nel nome del
proletariato. Quella attuale scompare nel nome del consumatore. Il risultato è
lo stesso: una costante amputazione culturale, promossa per conservare il
potere nelle mani dei vecchi mandarini, autoribattezzati nuovi servi del
popolo. I cinesi, prima della strage di piazza Tiananmen, erano ostaggi della
povertà. Nell'anno del decennale cambio della leadership sono prigionieri
dell'obbligo di fare debiti. Alla narrazione del fallimento del maoismo succede
la cronaca del naufragio del mercatismo. La Cina è afflitta dalla malattia che
uccide l'Occidente, condivide il suo vuoto di ragioni convicenti per non farsi
dominare dal denaro e smarrisce la propria identità. (…). Muore così un
Paese. Con una “rivoluzione culturale” all’incontrario. Forse è la Storia che
si prende le sue rivincite. Muore così anche l’animo dei cinesi. Poiché è
venuto il tempo dell’arricchimento senza freni. Dell’uomo sull’uomo. “Homo
homini lupus” - letteralmente "l'uomo è un lupo per l'uomo" –
scriveva nell’antica lingua dei latini il Plauto nell’”Asinaria”. Nulla nei
secoli è cambiato. Nessuna predicazione religiosa, nessuna delle utopie della
politica hanno ridotto a miti consigli l’animo umano. Oggigiorno, nell’opificio
più vasto del mondo, ove si consuma lo sfruttamento più spietato degli uomini,
delle cose della Terra, della cultura e della memoria, quel detto suona amaro e
spietato al contempo. Scriveva Giampaolo Visetti in un’altra Sua corrispondenza
– del 26 di Marzo dell’anno 2011 - da quel mondo lontano, corrispondenza che ha
per titolo “Jeans ponente”: (…).
La storia di Xitang è l'icona della migrazione più travolgente della
contemporaneità, che ha spostato in Oriente tutto ciò che si fa per compiacersi
di mantenere in Occidente tutto ciò che si pensa. Xitang, fino agli anni 80,
era un villaggio di contadini e di pescatori: duecento persone sulle rive del
fiume delle Perle. Huang Lin, ambulante di Hong Kong, decise di portare in
questa campagna una macchina per cucire pantaloni. Oggi è la capitale mondiale
dei jeans. Un milione di operai confenziona il 40% dei calzoni venduti sulla
terra. Ogni marca ha qui il suo stabilimento principale: le più famose nate
negli Stati Uniti, ma pure le aziende italiane che hanno trasformato la divisa
del cow boy in quella dell'old manager. Non è la Silicon Valley della moda. Gli
operai sono ammassati in vecchi capannoni a conduzione famigliare. Il padrone
siede fuori e invita i passanti ad entrare. Offre sigarette, liquore, microscopiche
tazze di un tè violento. Mucchi di donne, sulla strada, circondano montagne di
tela: cuciono etichette di qualsiasi brand, eliminano fili con la pistola
termica, infilano nei sacchetti 60mila paia di jeans al giorno. Nei vicoli
attorno si fa il resto: bottoni, cerniere, rivetti, filo. Colonne di camion
scaricano rotoli di tessuto nei cortili e spariscono gonfi di merce. Nessuno
immagina, scivolando nei suoi denim con l'ambizione di un'originalità, di
esibire l'ultimo emblema dello sfruttamento cinese di massa. Xitang è stato
ridotto a essere la fucina unica dei jeans per due ragioni: nella regione
vivevano milioni di persone disposte a lavorare per venti centesimi al giorno e
nessuno si preoccupava per l'impatto delle fabbriche sulla natura. Da dieci
anni nell'ex villaggio dei contadini e dei pescatori non cresce più niente di
commestibile. Vista dal satellite, la metropoli globale dei jeans è una nuvola
rossa, percorsa da uno scheletro viola. Il vapore indica il carbone usato per
alimentare le tessitorie, le ossa segnano gli scarichi tossici della tintura
del cotone. Nella contea, in trent'anni, non è stato installato un solo
depuratore. Sacrificare gli uomini e la terra per far sentire alla moda il
mondo è il piatto servito in tavola. Grazie a Xitang il prezzo del casual è
restato basso, è nato il guardaroba usa e getta e l'Occidente è stato
conquistato dalle catene dei grandi magazzini arredati da albergo di charme.
Non è una favola a lieto fine. Da alcune settimane l'epicentro cinese del jeans
made in Usa è deserto. L'era dei prezzi stracciati è finita. Offrire
all'ingrosso pantaloni a 80 centesimi e t-shirt a 15 non basta più. Il clienti
dell'Ovest non accettano nemmeno di coprire i costi. La crisi del vecchio
consumismo demolisce il sistema-Xitang. Gli operai reclamano salari che
permettano di sopravvivere e lo sconvolgimento del clima proietta il valore del
cotone alle stelle. Gli stilisti foderano i jeans in poliestere, impongono al
gusto finiture lucide, ma i conti non tornano. I materiali valgono più del
prodotto e sui capannoni abbandonati sono affissi cartelli che offrono partite
di denim a 5 centesimi il paio. In un anno il 40% delle tessitorie ha chiuso e
300mila lavoratori tornano a vagare per la Cina seguendo la corrente dei
cantieri. Se una famiglia europea o americana cambia un jeans in meno all'anno,
il saccheggio del modello cinese implode. Nuovi Xitang risorgono altrove.
Vietnam, Cambogia, Indonesia, India e Filippine offrono moda a costo di
trasporto. Wei Xiaofeng, proprietaria del colosso che ci ha vestiti negli
ultimi vent'anni, siede sola su un cumulo di rotoli di tela azzurra, destinata
a trasfomarsi in isolante per i grattacieli di Kuala Lumpur. L'impero della
delocalizzazione si scopre vittima di se stesso e delocalizza. La Cina perde i
jeans e Xitang chiude. Il mondo può ignorare il suo profilo riflesso in uno
specchio. Dove avrà de-localizzato il capitalismo rampante per
continuare a sfruttare convenientemente uomini e cose? In quale altro inferno
del pianeta Terra avranno trovato “persone disposte a lavorare per venti
centesimi al giorno”? Per portare poi quei miseri panni intrisi di
quelle fatiche nelle boutique del cosiddetto mondo avanzato, civilizzato, cristianizzato?
Da chi?
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