"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 11 giugno 2012

Cosecosì. 21 La scuola non è pensata per la ricerca del meglio.


(…). All'inizio scrivevo relazioni di fine d'anno ipercritiche. I risultati - sottolineavo - sono questi: ho sbagliato qui, ho sbagliato lì, manca questo, manca quello. Forse mi aspettavo che il preside dicesse: "Ehilà, roba interessante. Chi è questo Starnone? Quel ragazzo nuovo? Trasmettiamo subito tutto al provveditore". E il provveditore: "Ehilà, roba dura, un vero campanello d'allarme. Su, rimbocchiamoci le maniche e vediamo di capire cosa vuole questo giovane. Anzi: informiamo anche il ministro". Il ministro: "Ehilà, ecco finalmente uno che prende molto sul serio il suo lavoro. Ispettore, vada subito a Viggiano e cerchi di capire quali sono le difficoltà che incontra questo bravo giovane". Forse mi immaginavo che potesse accadere così. O forse, più semplicemente, pensavo che le relazioni di fine anno dovessero essere bilanci seri, fuori dai denti, spietate (innanzitutto con se stessi, in modo che l'anno seguente, dopo ampia discussione collegiale, si partisse dagli errori individuati e si facesse meglio tutti ). Capii presto che ero fuori dal mondo: sicuramente fuori dal mondo scolastico. Il primo preside nelle cui grinfie finii si occupò di me solo per minacciarmi, in quanto avevo la febbre alta ed ero costretto a interrompere la supplenza che mi era stata assegnata (…). Il secondo compariva raramente (…): le volte che veniva vigilava sul mio registro, sulla giusta grafia e collocazione della A delle assenze nelle caselle, sulla lunghezza (…) dei giudizi formulati per i compiti scritti; poi si dava al vino buono, al pecorino. Il terzo preside, a cui dissi una volta che avrei abbandonato la scuola quando non avessi più provato piacere a insegnare, mi rispose: "Lei è pagato per lavorare, non per divertirsi". Il quarto preside invece obiettava a chiunque volesse fargli perdere tempo e fiato: "Professore, non facciamo poesia". A me lo diceva un giorno sì e uno no. Qui mi fermo. La scuola com'è non è pensata per la ricerca del meglio. (…). Lo scriveva l’impareggiabile Domenico Starnone nel Suo volume Solo se interrogato – Feltrinelli editore (1995) -. Un’altra epoca. Chiosavo quello stupendo scritto del collega Starnone molti anni dopo nel mio volume I professori – AndreaOppureEditore (2006) cap. 1° “Ovvero della aleatorietà della valutazione” – in questi termini: E se le cose scritte da Starnone non sono estranee alla mia personale esperienza, come è stato possibile sopravvivere ad una situazione così dissacrante della istituzione stessa ed al contempo così mortificante sul piano della professionalità e dell’impegno? E come è possibile rivendicare una considerazione sociale diversa, allorquando è mancato il coraggio, o più semplicemente il senso civico, di rifiutare e ribaltare situazioni così estreme e, di sicuro, di pratica diffusa all’interno di una istituzione così importante e necessaria per la crescita democratica delle giovani generazioni e della società nel suo complesso? A queste domande sarebbe necessario dare serene e sensate risposte, a meno che la situazione  descritta da Starnone non rappresenti solo un fatto unico, marginale e di auto-esclusione dal contesto di una grande oasi di pace e di benessere, all’interno della quale nulla merita di essere posto sotto attenta e critica osservazione da parte dei protagonisti principali, ovvero da parte degli insegnanti. Vedevo giusto. Oggigiorno è tutto un parlare del “merito”. Sarà per l’aria che tira all’interno del “palazzo” della politica e dintorni. Del “merito”: stabilito da chi? Per cosa? Da una scuola che si pensa sia divenuta diversa? E perché mai? C’è molto da fare: mancano le idee e le risorse. Propongo di seguito, in parte, una riflessione di Vittorio Sermonti sull’Autorità perduta, riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica del 29 di ottobre dell’anno 2011 a firma dello scrittore Franco Marcoaldi.

(…). Non saprei dire con precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere le parti dell´allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli. «Credo anch´io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l´impressione che questo aspetto della promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava l´anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza. Successivamente, fra gli anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l´elezione dei piccini a despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari, emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro come questo dev’essere ben duro provare ad esercitare l´autorità. «Autorità? Ma quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e dunque vengono comunemente guardati dall´alto in basso. E poi, come dice il nostro primo ministro (la scuola che “inculca” secondo la vulgata dell’egoarca di Arcore n.d.r.), l´educazione che impartiscono è l´esatto opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo, mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico della mafia. (…).».
Eppure, la nostalgia dell´autorità e l´aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa, radicata. «Sì, però anche qui dobbiamo metterci d´accordo. Si potrebbe dire che viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell´autorità e il terrore dell´autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell´autorità. Per certo, questa aspirazione tanto diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un´autorità purchessia, sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti, troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il "valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del "valore-autorità" e nell´atto stesso di svuotarlo l´ha otturato di sé. Difficile rianimare l´autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo voglia. Perché l´esercizio attivo-passivo dell´autorità è troppo rischioso: pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l´ammirazione. Pensare è ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di ringraziare».
(…). …c´è ancora uno spazio pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto l´autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un´autorità capace di offrici, ad esempio, quell´orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso? «Difficile rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in cui si afferma il primato della politica, che è poi l´anti-politica, la quale a sua volta è dominata dall´economia che a sua volta è dominata dalla finanza. Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno. Ma io non credo che la storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l´attuale rapporto tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto, una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici. Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine "moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l´etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l´orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».”

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