(…). All'inizio scrivevo
relazioni di fine d'anno ipercritiche. I risultati - sottolineavo - sono
questi: ho sbagliato qui, ho sbagliato lì, manca questo, manca quello. Forse mi
aspettavo che il preside dicesse: "Ehilà, roba interessante. Chi è questo
Starnone? Quel ragazzo nuovo? Trasmettiamo subito tutto al provveditore".
E il provveditore: "Ehilà, roba dura, un vero campanello d'allarme. Su,
rimbocchiamoci le maniche e vediamo di capire cosa vuole questo giovane. Anzi:
informiamo anche il ministro". Il ministro: "Ehilà, ecco finalmente
uno che prende molto sul serio il suo lavoro. Ispettore, vada subito a Viggiano
e cerchi di capire quali sono le difficoltà che incontra questo bravo giovane".
Forse mi immaginavo che potesse accadere così. O forse, più semplicemente,
pensavo che le relazioni di fine anno dovessero essere bilanci seri, fuori dai
denti, spietate (innanzitutto con se stessi, in modo che l'anno seguente, dopo
ampia discussione collegiale, si partisse dagli errori individuati e si facesse
meglio tutti ). Capii presto che ero fuori dal mondo: sicuramente fuori dal
mondo scolastico. Il primo preside nelle cui grinfie finii si occupò di me solo
per minacciarmi, in quanto avevo la febbre alta ed ero costretto a interrompere
la supplenza che mi era stata assegnata (…). Il secondo compariva raramente (…):
le volte che veniva vigilava sul mio registro, sulla giusta grafia e
collocazione della A delle assenze nelle caselle, sulla lunghezza (…) dei
giudizi formulati per i compiti scritti; poi si dava al vino buono, al
pecorino. Il terzo preside, a cui dissi una volta che avrei abbandonato la
scuola quando non avessi più provato piacere a insegnare, mi rispose: "Lei
è pagato per lavorare, non per divertirsi". Il quarto preside invece
obiettava a chiunque volesse fargli perdere tempo e fiato: "Professore,
non facciamo poesia". A me lo diceva un giorno sì e uno no. Qui mi fermo.
La scuola com'è non è pensata per la ricerca del meglio. (…). Lo scriveva
l’impareggiabile Domenico Starnone nel Suo volume Solo se interrogato – Feltrinelli editore (1995) -. Un’altra epoca.
Chiosavo quello stupendo scritto del collega Starnone molti anni dopo nel mio
volume I professori –
AndreaOppureEditore (2006) cap. 1° “Ovvero della aleatorietà della valutazione”
– in questi termini: E se le cose scritte
da Starnone non sono estranee alla mia personale esperienza, come è stato
possibile sopravvivere ad una situazione così dissacrante della istituzione
stessa ed al contempo così mortificante sul piano della professionalità e
dell’impegno? E come è possibile rivendicare una considerazione sociale
diversa, allorquando è mancato il coraggio, o più semplicemente il senso
civico, di rifiutare e ribaltare situazioni così estreme e, di sicuro, di
pratica diffusa all’interno di una istituzione così importante e necessaria per
la crescita democratica delle giovani generazioni e della società nel suo
complesso? A queste domande sarebbe necessario dare serene e sensate risposte, a
meno che la situazione descritta da
Starnone non rappresenti solo un fatto unico, marginale e di auto-esclusione
dal contesto di una grande oasi di pace e di benessere, all’interno della quale
nulla merita di essere posto sotto attenta e critica osservazione da parte dei
protagonisti principali, ovvero da parte degli insegnanti. Vedevo giusto. Oggigiorno
è tutto un parlare del “merito”. Sarà per l’aria che tira
all’interno del “palazzo” della politica e dintorni. Del “merito”: stabilito da
chi? Per cosa? Da una scuola che si pensa sia divenuta diversa? E perché mai? C’è
molto da fare: mancano le idee e le risorse. Propongo di seguito, in parte, una
riflessione di Vittorio Sermonti sull’Autorità perduta, riflessione pubblicata
sul quotidiano la Repubblica del 29 di ottobre dell’anno 2011 a firma dello scrittore
Franco Marcoaldi.
(…). Non saprei dire con
precisione quando è accaduto, ma da un certo giorno in avanti, di fronte a
qualunque conflitto tra allievo e docente, la famiglia, che in precedenza era
sempre stata dalla parte del docente, ha cominciato immancabilmente a prendere
le parti dell´allievo, ovvero del figlio. Creando non poca confusione di ruoli.
«Credo anch´io che si sia trattato di un passaggio cruciale, che a ben vedere
va ricondotto a un fenomeno sociale iniziato negli anni Sessanta, quando i
cuccioli del dopoguerra, i famosi giovani, vengono universalmente promossi
dalle strategie pubblicitarie al privilegio di un illimitato protagonismo, in
quanto ottimi conduttori di consumi. Ho l´impressione che questo aspetto della
promozione generazionale consacrata dal Sessantotto, che peraltro sbandierava
l´anticonsumismo, non sia stato studiato abbastanza. Successivamente, fra gli
anni Ottanta e i Novanta, la dilatazione-globalizzazione del mercato ha
travolto anche la diga dei giovani ed ex giovani ormai viziati da qualche
nostalgia, per tracimare su altri soggetti, più aggressivamente indifesi: i
bambini. Da qui una vera e propria pedagogia pubblicitaria del consumo. E in
concomitanza con i nuovi assetti familiari, tarlati dal rimorso di genitori
magari separati o entrambi in carriera, si è affermata l´elezione dei piccini a
despoti assoluti degli acquisti. A giudici inappellabili dei gusti alimentari,
emozionali ed informatici delle famiglie. A consumatori modello di un futuro
sempre più assillante e puerile».
Poveri insegnanti: in un quadro
come questo dev’essere ben duro provare ad esercitare l´autorità. «Autorità? Ma
quando mai? Tanto per cominciare, gli insegnanti non guadagnano una lira e
dunque vengono comunemente guardati dall´alto in basso. E poi, come dice il
nostro primo ministro (la scuola che “inculca” secondo la
vulgata dell’egoarca di Arcore n.d.r.), l´educazione che impartiscono è l´esatto
opposto di quella che viene proposta a casa! Faccio notare, en passant, che
considerare la famiglia come nucleo della società è tipico del cattolicesimo,
mentre invece considerare la famiglia come alternativa alla società, è tipico
della mafia. (…).».
Eppure, la nostalgia
dell´autorità e l´aspirazione al ripristino del suo valore è molto diffusa,
radicata. «Sì, però anche qui dobbiamo metterci d´accordo. Si potrebbe dire che
viviamo in un campo di tensione tra il desiderio dell´autorità e il terrore
dell´autoritarismo. O, esattamente al contrario, tra il desiderio di
autoritarismo e il terrore dell´autorità. Per certo, questa aspirazione tanto
diffusa quanto confusa che reclama la restaurazione di un´autorità purchessia,
sconta oggi una difficoltà supplementare: il fatto che la sua demolizione sia
stata immediatamente rimpiazzata da un assillante culto del potere. Per molti,
troppi, ciò che importa è che chi decide, decida di decidere. Il
"valore-potere", intendo dire, ha invaso lo spazio del
"valore-autorità" e nell´atto stesso di svuotarlo l´ha otturato di
sé. Difficile rianimare l´autorevolezza bocca a bocca, posto che chi decide lo
voglia. Perché l´esercizio attivo-passivo dell´autorità è troppo rischioso:
pretende risorse obsolete, come la riconoscenza e l´ammirazione. Pensare è
ringraziare, ha detto qualcuno. Beh, io non vedo in giro molta voglia di
ringraziare».
(…). …c´è ancora uno spazio
pubblico ampio, influente, riconosciuto, che ci consenta di mettere a frutto
l´autorità emanata dalla grande cultura del passato? Un´autorità capace di
offrici, ad esempio, quell´orizzonte di trascendenza inter-generazionale che la
nostra società, schiacciata sul presente, sembra avere perso? «Difficile
rispondere. Perché noi viviamo in una sotto-società, che è quella italiana, in
cui si afferma il primato della politica, che è poi l´anti-politica, la quale a
sua volta è dominata dall´economia che a sua volta è dominata dalla finanza.
Ora, in una situazione come questa, la grande cultura, a maggior ragione quella
classica, sembrerebbe non avere più spazio alcuno. Ma io non credo che la
storia umana sia una storia lineare. Dunque non credo che l´attuale rapporto
tra il presente e il passato debba necessariamente compromettere, in modo
assoluto, il rapporto tra presente e futuro. Oggi lamentiamo, e non a torto,
una perdita di orizzonte trascendente nelle nostre società, ma nulla sappiamo
di un eventuale sacro prossimo venturo. Sappiamo invece che viviamo in un
infelice anarchismo capillare, magari in nevrotica balia delle agenzie di
rating. Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile
consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da
nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici. Sarò banale, ma io credo sia
cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e
moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine
"moralista" abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul
genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare
l´etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che
si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l´orizzontalità dei
rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi».”
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