"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 18 giugno 2012

Capitalismoedemocrazia. 25 La lotta di “classe” che non c’è.


(…). La globalizzazione così rapida ha molto a che fare con i problemi nei quali l’Occidente si dibatte, ma il fattore che ci ha portato al punto di rottura è un altro: i debiti. Pubblici e privati che siano, ne abbiamo accumulati troppi, viviamo in cima ad una montagna instabile che ogni colpo di vento fa smottare da qualche parte, e ogni piccolo smottamento fa tremare l’intera montagna. Dietro quei debiti c’è un modello di sviluppo che dovremo rivedere, ma intanto la prima cosa da fare è stabilizzare quella montagna, (…). (…). Il (…) punto chiave è il ruolo della finanza, dovuto alla sua dimensione e al suo rapporto con l’economia reale e alla fine con la democrazia. La dimensione è spaventosa, la massa delle attività finanziarie è oggi oltre 14 volte il prodotto dell’intero pianeta, nel 2003 era pari a nove volte. Guardando dentro questa massa gigantesca scopriamo che la finanza classica tra il 2003 e il 2010 è passata da tre a quattro volte il pil globale, a espandersi come una immensa metastasi è stata la finanza derivata da meno di sei a oltre 10 volte la ricchezza prodotta ogni anno in tutto il mondo. Ma a caratterizzare il ruolo della finanza non è solo la dimensione, si aggiungono infatti la rapidità di movimento, la totale libertà dai confini nazionali, il fatto che per larga parte sfugga a qualsiasi forma di controllo regolatorio e fiscale. Per dare un’idea, gli interest rate swap su titoli pubblici europei sono pari a 25 volte il debito sovrano del vecchio continente, una quantità che rende sufficiente un piccolo cambiamento di percezione per destabilizzare qualsiasi economia e qualsiasi paese. I problemi che crea una finanza siffatta sono almeno tre: il primo è che dentro quella nuvola sono nascoste delle bombe atomiche. Nessuno è in grado di controllare e quindi nessuno lo sa se chi vende derivati di varia natura ha riserve adeguate per coprirli, se chi li compra a termine ha i soldi per pagarli. L’opacità nasconde incertezze e rischi che possono trasformarsi in qualsiasi momento in temporali devastanti come quello al quale abbiamo assistito al tempo dei subprime e dal quale non ci siamo ancora ripresi. Il secondo problema è la democrazia. Da una parte la finanza nei suoi meccanismi attuali tende ad accentuare le disuguaglianze ed a minare la coesione sociale, dall’altra dispone di una potenza che non risponde a nessuno ma che è in grado di mettere in ginocchio un paese, una economia, una comunità, senza portarne la responsabilità. Il terzo problema è che la finanza si sta mangiando l’economia reale, con una competizione sleale nella selezione dei talenti, che è in grado di remunerare come nessuna azienda manifatturiera o di servizi è in grado di fare, e una competizione ancora più sleale per le risorse. Proviamo a immaginare che qualcuno abbia un po’ di soldi da investire e può scegliere se metterli in una impresa, con il rischio legato al successo dell’attività e la fatica della gestione dei rapporti con le amministrazioni, i dipendenti, i fornitori e i clienti, oppure consegnarli a un hedge fund che promette alti rendimenti, magari al sicuro dalle tasse, e con la prospettiva di passare il suo tempo a leggere libri (nella migliore delle ipotesi) su una sedia a sdraio guardando il mare dei Caraibi. Quale sarà la scelta più probabile? (…). Così ha scritto Marco Panara sul numero dell’11 di giugno del settimanale Affari&Finanza. Titolo del Suo “pezzo”: Euro, debiti sovrani, banche i tre scenari per il dopo-crisi. Ho tralasciato da un bel po’ di tempo d’interessarmi alle vicende della “crisi”. Forse per stanchezza. O forse per un tentativo di esorcizzare il pericolo che incombe. Capita spesso, nella vita degli umani, di apprestare inutili tentativi affinché le cose spiacevoli non abbiano a turbare le speranze, i sogni. In definitiva, la vita tutta. È da ascrivere a questi inutili tentativi questo mio prolungato disinteresse per le cose che accadono attorno alla “crisi”. Un tentativo inutile, puerile. Le cose procedono per il loro corso. È che, in questa occasione, lo scoramento sorge dalla verifica della inutilità di tutte le manovre che i cosiddetti tecnici approntano per sedare la fame incontrollata della finanza globalizzata. All’annuncio delle manovre nuove che dovrebbero rivelarsi risolutive per iniziare a frenare la “crisi” i famigerati “mercati” rispondono con contromanovre che ne vanificano i risultati sperati. È come uno svuotare il grande mare con la paletta ed il secchiello. È che riesce difficile sfuggire a quel senso di impotenza che gli avvenimenti innescatisi nei recenti anni hanno contribuito a rafforzare. Del resto lo sconforto diffuso trova sostanza nei pensieri e nelle parole degli osservatori più attenti ed avvertiti. Traggo ragione del mio tentativo inutile di esorcizzazione, del quale prima parlavo, nelle letture che non disdegno di continuare a fare. Per capire. Per essere cittadino responsabile di questo tempo. Una delle ultime è stata la lettura, imperdibile, del volumetto “La lotta di classe dopo la lotta di classe” – Laterza editore (2012) pagg. 212 € 12,00 -, già in altra occasione citato, con un’intervista del professore Luciano Gallino raccolta da Paola Borgna. Sta scritto alla pagina 211: “(…). …la crisi del capitalismo, iniziata nel 2007 e riesplosa nel 2010-2011, appare gravissima, e sebbene quest’ultimo infligga di continuo ulteriori costi alla classe operaia e alle classi medie al fine di salvarsi, non è detto che questa volta debba riuscirci come più volte è avvenuto in passato. Esiste nel mondo attuale una contraddizione inaudita, per più versi insostenibile: da un lato vi sono masse immense di capitale alla ricerca forsennata di un impiego redditizio, dall’altro masse immense di individui disoccupati, od occupati marginalmente nell’economia informale, che hanno disperatamente bisogno di trovare un lavoro ragionevolmente retribuito e stabile. Davanti a tale situazione, i governi appaiono ovunque incapaci, né particolarmente impegnati nel trovare un modo efficace per far incontrare capitale e lavoro. Non è questa l’ultima conseguenza negativa dell’assenza di una lotta di classe che non sia condotta unicamente, come avviene da trent’anni, dall’alto verso il basso. (…)”. È questa l’amara conclusione del professor Gallino, ovvero della “assenza di una lotta di classe” che dia piena consapevolezza di quella “contraddizione inaudita” imposta dal capitalismo rampante per la quale, come sempre in verità nella Storia, si scaricano sulle classi meno abbienti i sacrifici più duri ed iniqui. Anche la Grecia, con il voto di ieri, sembra abbia voluto sottoporsi alle ingiuste imposizioni di questo capitalismo a-sociale. Fa paura lo spettro del capitalismo finanziario che, non più “regionale”, si aggira minaccioso sull’intero globo terracqueo.

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