(…). La globalizzazione così
rapida ha molto a che fare con i problemi nei quali l’Occidente si dibatte, ma
il fattore che ci ha portato al punto di rottura è un altro: i debiti. Pubblici
e privati che siano, ne abbiamo accumulati troppi, viviamo in cima ad una
montagna instabile che ogni colpo di vento fa smottare da qualche parte, e ogni
piccolo smottamento fa tremare l’intera montagna. Dietro quei debiti c’è un
modello di sviluppo che dovremo rivedere, ma intanto la prima cosa da fare è
stabilizzare quella montagna, (…). (…). Il (…) punto chiave è il ruolo della
finanza, dovuto alla sua dimensione e al suo rapporto con l’economia reale e
alla fine con la democrazia. La dimensione è spaventosa, la massa delle
attività finanziarie è oggi oltre 14 volte il prodotto dell’intero pianeta, nel
2003 era pari a nove volte. Guardando dentro questa massa gigantesca scopriamo
che la finanza classica tra il 2003 e il 2010 è passata da tre a quattro volte
il pil globale, a espandersi come una immensa metastasi è stata la finanza
derivata da meno di sei a oltre 10 volte la ricchezza prodotta ogni anno in
tutto il mondo. Ma a caratterizzare il ruolo della finanza non è solo la
dimensione, si aggiungono infatti la rapidità di movimento, la totale libertà
dai confini nazionali, il fatto che per larga parte sfugga a qualsiasi forma di
controllo regolatorio e fiscale. Per dare un’idea, gli interest rate swap su
titoli pubblici europei sono pari a 25 volte il debito sovrano del vecchio
continente, una quantità che rende sufficiente un piccolo cambiamento di
percezione per destabilizzare qualsiasi economia e qualsiasi paese. I problemi
che crea una finanza siffatta sono almeno tre: il primo è che dentro quella
nuvola sono nascoste delle bombe atomiche. Nessuno è in grado di controllare e
quindi nessuno lo sa se chi vende derivati di varia natura ha riserve adeguate
per coprirli, se chi li compra a termine ha i soldi per pagarli. L’opacità
nasconde incertezze e rischi che possono trasformarsi in qualsiasi momento in
temporali devastanti come quello al quale abbiamo assistito al tempo dei
subprime e dal quale non ci siamo ancora ripresi. Il secondo problema è la
democrazia. Da una parte la finanza nei suoi meccanismi attuali tende ad
accentuare le disuguaglianze ed a minare la coesione sociale, dall’altra
dispone di una potenza che non risponde a nessuno ma che è in grado di mettere
in ginocchio un paese, una economia, una comunità, senza portarne la
responsabilità. Il terzo problema è che la finanza si sta mangiando l’economia
reale, con una competizione sleale nella selezione dei talenti, che è in grado
di remunerare come nessuna azienda manifatturiera o di servizi è in grado di
fare, e una competizione ancora più sleale per le risorse. Proviamo a
immaginare che qualcuno abbia un po’ di soldi da investire e può scegliere se
metterli in una impresa, con il rischio legato al successo dell’attività e la
fatica della gestione dei rapporti con le amministrazioni, i dipendenti, i fornitori
e i clienti, oppure consegnarli a un hedge fund che promette alti rendimenti,
magari al sicuro dalle tasse, e con la prospettiva di passare il suo tempo a
leggere libri (nella migliore delle ipotesi) su una sedia a sdraio guardando il
mare dei Caraibi. Quale sarà la scelta più probabile? (…). Così ha scritto
Marco Panara sul numero dell’11 di giugno del settimanale Affari&Finanza. Titolo
del Suo “pezzo”: Euro, debiti sovrani,
banche i tre scenari per il dopo-crisi. Ho tralasciato da un bel po’ di tempo
d’interessarmi alle vicende della “crisi”. Forse per stanchezza. O
forse per un tentativo di esorcizzare il pericolo che incombe. Capita spesso,
nella vita degli umani, di apprestare inutili tentativi affinché le cose
spiacevoli non abbiano a turbare le speranze, i sogni. In definitiva, la vita
tutta. È da ascrivere a questi inutili tentativi questo mio prolungato
disinteresse per le cose che accadono attorno alla “crisi”. Un tentativo
inutile, puerile. Le cose procedono per il loro corso. È che, in questa
occasione, lo scoramento sorge dalla verifica della inutilità di tutte le
manovre che i cosiddetti tecnici approntano per sedare la fame incontrollata
della finanza globalizzata. All’annuncio delle manovre nuove che dovrebbero
rivelarsi risolutive per iniziare a frenare la “crisi” i famigerati “mercati”
rispondono con contromanovre che ne vanificano i risultati sperati. È
come uno svuotare il grande mare con la paletta ed il secchiello. È che riesce
difficile sfuggire a quel senso di impotenza che gli avvenimenti innescatisi
nei recenti anni hanno contribuito a rafforzare. Del resto lo sconforto diffuso
trova sostanza nei pensieri e nelle parole degli osservatori più attenti ed
avvertiti. Traggo ragione del mio tentativo inutile di esorcizzazione, del quale
prima parlavo, nelle letture che non disdegno di continuare a fare. Per capire.
Per essere cittadino responsabile di questo tempo. Una delle ultime è stata la
lettura, imperdibile, del volumetto “La
lotta di classe dopo la lotta di classe” – Laterza editore (2012) pagg. 212
€ 12,00 -, già in altra occasione citato, con un’intervista del professore
Luciano Gallino raccolta da Paola Borgna. Sta scritto alla pagina 211: “(…).
…la crisi del capitalismo, iniziata nel 2007 e riesplosa nel 2010-2011, appare gravissima,
e sebbene quest’ultimo infligga di continuo ulteriori costi alla classe operaia
e alle classi medie al fine di salvarsi, non è detto che questa volta debba
riuscirci come più volte è avvenuto in passato. Esiste nel mondo attuale una
contraddizione inaudita, per più versi insostenibile: da un lato vi sono masse
immense di capitale alla ricerca forsennata di un impiego redditizio,
dall’altro masse immense di individui disoccupati, od occupati marginalmente
nell’economia informale, che hanno disperatamente bisogno di trovare un lavoro
ragionevolmente retribuito e stabile. Davanti a tale situazione, i governi
appaiono ovunque incapaci, né particolarmente impegnati nel trovare un modo
efficace per far incontrare capitale e lavoro. Non è questa l’ultima
conseguenza negativa dell’assenza di una lotta di classe che non sia condotta
unicamente, come avviene da trent’anni, dall’alto verso il basso. (…)”. È
questa l’amara conclusione del professor Gallino, ovvero della “assenza
di una lotta di classe” che dia piena consapevolezza di quella “contraddizione
inaudita” imposta dal capitalismo rampante per la quale, come sempre in
verità nella Storia, si scaricano sulle classi meno abbienti i sacrifici più
duri ed iniqui. Anche la Grecia, con il voto di ieri, sembra abbia voluto
sottoporsi alle ingiuste imposizioni di questo capitalismo a-sociale. Fa paura
lo spettro del capitalismo finanziario che, non più “regionale”, si aggira
minaccioso sull’intero globo terracqueo.
Nessun commento:
Posta un commento