A fianco. Una mia tessera d'iscrizione al P.C.I. amorevolmente conservata.
C’è una cosa, che mi è stata cara
assai, che mi accomuna a Giorgio Napolitano: la militanza politica. Della quale
il grande Giorgio ne ha fatto un impegno pieno di vita. Per me essa, la
militanza politica, è rimasta un impegno di cittadinanza responsabile,
coltivata nel tempo residuo che il mio duro lavoro dell’educare mi ha consentito.
Ambedue veniamo da quello che fu il Partito Comunista Italiano, quello di Antonio
Gramsci per intenderci, di Giorgio Amendola, che pur veniva da una grande
famiglia di democratici liberali, di Umberto Terracini, il confinato politico,
di Luigi Longo, di Palmiro Togliatti, del tanto amato e compianto Enrico Berlinguer
e dei tantissimi altri che, con passione ed impegno civile, hanno reso quel
Partito, che non c’è più, il più forte dei Partiti Comunisti dell’Occidente.
Ambedue veniamo dal Partito che fu della “via italiana al socialismo”, che ha
rappresentato il momento magico e tragico di rottura con l’egemonismo, a volte
spietato, del comunismo sovietico. Ambedue siamo rimasti tramortiti per i fatti
repressivi che quel comunismo ha consumato nell’Europa ed altrove nel mondo. È
questa condivisione di militanza e di ideali che mi hanno reso tanto caro
Giorgio Napolitano e per il quale ho esultato, come non sono solito fare, al
momento della Sua elezione, del grande “compagno” Giorgio, al Quirinale. Ma
tutto ciò non ha fatto da velo alle stridenti contraddizioni che ho potuto verificare
nell’impegno pubblico del Presidente. Ne ho fatto menzione su questo blog – che
è un “b-log
della cittadinanza e dell’impegno, del leggere e dell’educare e di altro ancora
di varia umanità” - quando esso “viveva” su di un’altra piattaforma
della grande rete. Poiché ci sono state due circostanze, almeno, che mi hanno fatto
avvertire una insospettata “lontananza” tra me ed il grande “compagno”
Giorgio, divenuto nel frattempo il Presidente, una insospettata “lontananza”
tra due militanti che sono venuti dallo stesso grande Partito. Una “lontananza”
scavata come un solco profondo nelle nostre vite dalla comune storia di
cittadini di questo disastrato paese. E sì che la vocazione e la formazione
laica, assorbita abbondantemente con un lungo e faticoso esercizio, nella lunga
militanza partitica non ha concesso, e non concede - ancor’oggi? -, licenze e
facili lasciapassare. Per la quale – una “rigidità ideologica” secondo alcuni
- la “mitizzazione”
dei fatti della Storia e dei suoi principali protagonisti – avendo in uggia il
mito dell’uomo della provvidenza che sia - trova sempre un confine netto ed invalicabile
che non consente idolatrizzazioni di sorta delle persone, dei fatti o delle cose.
Per la qual cosa il “compagno” Giorgio, divenuto il Presidente, è rimasto agli
occhi del “compagno” di partito persona tra le tante investita di grandissime
responsabilità politico-istituzionali. Tanto basta. Ma è potuto accadere che il
Presidente abbia risposto piccato ad un cittadino che, nel corso di una
pubblica manifestazione – in Puglia? a Bari ? – lo abbia tirato per la
giacchetta per aver promulgato un decreto-legge, nell’era berlusconiana, che
nel Paese aveva suscitato tantissima preoccupazione e mobilitazioni molto
partecipate. In quella occasione il Presidente ebbe a dire, al sospettoso cittadino,
che qualora non avesse firmato e promulgato quel famigerato decreto-legge ne
sarebbe stato costretto, per come stabilito nella Carta, a seguito di una
seconda presentazione del medesimo in altre forme. Mancò in quella occasione il
rendere pubblico, da parte del Presidente, e “politicamente” manifesto, un
disaccordo di natura politico-istituzionale che andasse in sintonia con
l’opinione pubblica più avvertita. Non avvenne. Ancor più preoccupante fu una
esternazione del Presidente in occasione di iniziative partitiche, personali o
familiari durante le quali si è ricordata la figura – controversa assai – di Bettino
Craxi. In quell’occasione il Presidente ebbe a dire che la giustizia del bel
paese era stata molto “severa” con la vicenda umana e politica
– “tangentopoli” e “mani pulite” – dell’uomo, del suo partito e di tutta la “casta”
politica del tempo. Incredibile! Poiché, con le stesse leggi del Parlamento
sovrano, che condannarono in via definitiva quell’uomo, nel tempo erano stati
giudicati e condannati migliaia e migliaia di altri semplici cittadini italiani
incorsi nelle stesse malefatte, e nessuno di essi ha potuto giovarsi
dell’incredibile pensiero a difesa del Presidente. Eppure è stato. Oggigiorno
un nuovo fatto – grave (?) - interviene a marcare quella “lontananza” che oramai
mi separa dal “compagno” Giorgio. Non entro nel merito. Trascrivo di seguito,
in parte, una nota a firma di Marco Travaglio – pubblicata su “il Fatto
Quotidiano” – che ha per titolo “2
domande ai corazzieri”. Una buona lettura.
(…). Un privato cittadino, Nicola
Mancino, furibondo con i pm che hanno osato interrogarlo come testimone e
vogliono metterlo a confronto con un altro ex ministro che lo contraddice sulla
trattativa Stato-mafia, utilizza le sue conoscenze in alto loco col presidente
della Repubblica Napolitano, col consigliere giuridico del Quirinale
D’Ambrosio, col Pna Grasso e col Pg della Cassazione Esposito per ottenere ciò
che nessun altro privato cittadino, privo di quelle conoscenze, otterrebbe mai:
una lettera del Quirinale al Pg della Cassazione e una riunione in Cassazione
per tentare di sviare il naturale corso delle indagini. Tutto si svolge aumma
aumma, con telefonate e incontri riservati, senza che nessuno dica al signor
Mancino, divenuto una specie di stalker che chiama tutti, di mettere per
iscritto le sue lagnanze e presentare un esposto all’autorità giudiziaria
competente. Anzi, a parte Grasso che non ravvisa estremi per intervenire, tutti
debordano dai propri compiti: a cominciare dal capo dello Stato, che attiva il
suo consigliere giuridico, fa scrivere al Pg dal segretario generale del
Quirinale e chiama – (…) – personalmente Mancino (…). Purtroppo tra i compiti
del capo dello Stato non c’è quello di coordinare indagini: come capo del Csm
egli si occupa dei magistrati a proposito di nomine, promozioni e sanzioni, non
del merito delle inchieste. Ma c’è di più: il suo consigliere D’Ambrosio dice
al solito Mancino – terrorizzato di finire indagato (e infatti ci finirà
presto) per falsa testimonianza a causa delle contraddizioni fra la sua
versione e quella di Martelli – che il presidente gli suggerisce di parlare con
Martelli per concordare una versione comune (dunque falsa: la verità non si
concorda). Ora, delle due l’una: o D’Ambrosio è un millantatore che fa dire a
Napolitano cose mai dette, e allora andrebbe licenziato su due piedi; o
D’Ambrosio dice la verità, e allora è difficile per i turiferari del Colle
sostenere che fra i poteri del presidente c’è pure quello di sollecitare
inquinamenti probatori. (…).
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