L’indignazione si aggira per il pianeta è il titolo di una interessante intervista che Zygmunt Bauman ha rilasciato al quotidiano l’Unità a firma di Giuliano Battiston. È una intervista - che di seguito trascrivo in parte - pregna di tutte quelle idee che il sociologo di origine polacca non demorde dal diffondere con forza e dal dibattere per sollecitare una presa di coscienza della catastrofe, economico-finanziaria, etica e morale verso la quale l’umanità inconsapevolmente colpevole precipita. Scrive il professor Umberto Galimberti in Psicoanalisi o consulenza filosofica?: “(…). Se (…) la cultura economica oggi dominante ci percepisce come semplici produttori e consumatori, riducendo i nostri interessi al semplice reperimento o accaparramento del denaro, divenuto l'unico generatore simbolico di tutti i valori, nasce quella domanda che Franco Totaro si pone in quel suo bel libro Non di solo lavoro (Vita e Pensiero): "Ma i fini dell'economia sono anche i nostri fini?". (…). E ancora se nella nostra epoca governata dalla tecnica, che non si propone altro scopo che non sia il proprio auto-potenziamento, quanti individui soffrono per l'insensatezza della loro attività lavorativa e si percepiscono come semplici mezzi in un universo di mezzi, senza che si profili una finalità in grado di conferire un senso alla propria vita. Soprattutto oggi, dal momento che, come scrive Günther Anders in L'uomo è antiquato, (Bollati Boringhieri): ‘Mentre un tempo la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, oggi appaiono miserevoli perché privi di senso’. (…).” Oggigiorno, essendosi inaridita e resa sterile la terra vergine artificialmente creata, quella costruita sulla cultura delle carte di credito, occorrerebbe intraprendere un percorso politico mai esplorato che consentisse il superamento di una politica che tuttora rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato mentre urgono decisioni che abbiano una portata globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti. È questo il gioco messo in campo dalla grande crisi, ché solo la politica alta può affrontare con la speranza di una non improbabile riuscita.
(…). In un mondo in cui le vecchie coordinate della modernità solida stanno scomparendo, come individuare le domande più pertinenti e i problemi sociali a cui rispondere con più urgenza? «Viviamo in un tempo di vuoto (simile all’interregnum dell’antica Roma), un periodo in cui i vecchi metodi con cui facevamo andare avanti le cose risultano inefficaci, mentre non ne sono stati ancora inventati di nuovi. È un periodo di cambiamento, non di transizione, perché transizione implica un passaggio da un qui a un lì, e sebbene conosciamo piuttosto bene il qui da cui cerchiamo di fuggire non abbiamo idea del lì dove vorremmo arrivare. (…). Oggi (…) i poteri che determinano la nostra condizione – la finanza, gli investimenti di capitale, il commercio – sono di natura globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti; allo stesso tempo, la politica rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato. Oggi la domanda vitale è chi lo farà, nel caso dovessimo decidere ciò che c’è da fare».
Gli «indignati» sostengono che a «fare le cose» non debbano più essere quelli che le hanno fatte finora. (…). Lei cosa ne pensa? «I manifestanti di Manhattan, così come i giovani e meno giovani del movimiento los indignados, sono privi di leader, provengono da ogni tipo di vite, razze, religioni e campi politici, sono uniti soltanto dal rifiuto di lasciare che le cose procedano come ora. Ognuno di loro ha in mente un’unica barriera o muro da mandare in frantumi o distruggere. Le barriere variano da Paese a Paese, ma ciascuna è ritenuta quella il cui smantellamento è destinato a mettere fine a tutte le sofferenze. Sulla forma che dovranno prendere le cose, ci si interrogherà solo in seguito. Combinare un unico obiettivo di demolizione con un’immagine vaga del mondo che verrà è la forza di questi manifestanti, ma anche la loro debolezza. Sono abili demolitori, ma devono ancora dimostrare di essere abili costruttori. In ogni caso, se i due giovincelli di Rhineland, Marx ed Engels, si sedessero ora a redigere il loro ormai bicentenario Manifesto, potrebbero inaugurarlo con l’osservazione che uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro dell’indignazione».
L’indignazione è in primo luogo il frutto della crisi economico-finanziaria. In «Vite che non possiamo permetterci», scrive che la crisi dimostra che «il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca (se cerca) di risolvere i problemi, ma quando li crea», e che «non può essere contemporaneamente sia coerente che completo». Intende dire che il capitalismo è un sistema parassitario? «Cento anni fa, Rosa Luxemburg ha compreso il segreto dell’inquietante abilità del capitalismo di risorgere ripetutamente dalle ceneri; una capacità che si lascia dietro una scia di devastazione: la storia del capitalismo è segnata dalle tombe degli organismi viventi la cui linfa vitale è stata succhiata fino all’esaurimento. (…). Ragionando secondo queste coordinate, la Luxemburg non poteva far altro che anticipare i limiti naturali alla possibile durata del sistema capitalista: una volta che tutte le terre vergini del globo fossero state conquistate, l’assenza di nuove terre sfruttabili avrebbe portato il sistema al collasso. La profezia della Luxemburg si sta per avverare? Non lo credo. Nell’ultimo mezzo secolo, il capitalismo ha imparato l’arte prima sconosciuta di produrre sempre nuove terre vergini. Questa nuova arte, resa possibile dal passaggio dalla società di produttori alla società di consumatori, fa sì che il profitto e l’accumulazione consistano soprattutto nella progressiva mercificazione delle funzioni della vita, nel sostituire il desiderio al bisogno come volano dell’economia. La crisi attuale deriva dall’esaurimento di una terra vergine artificialmente creata, quella costruita sulla cultura delle carte di credito. In linea di massima, lo sfruttamento di questa particolare terra vergine è ora finito, e ai politici è stato lasciato il compito di ripulire i detriti lasciati dal banchetto dei banchieri».
Quali sono le conseguenze del passaggio dalla società solida dei produttori a quella liquida dei consumatori? «In una società di produttori i profitti venivano generati dall’incontro tra il capitale e il lavoro, e in un certo senso il capitalismo era un fattore di risentimento collettivo. Nella società dei produttori, i profitti vengono dall’incontro tra la merce e il cliente; si tratta di un evento solitario, che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione. Formati socialmente innanzitutto come consumatori e solo in secondo luogo come produttori, siamo addestrati a modellare le relazioni interumane sul modello della relazione del consumatore con i beni di consumo. Ciò porta alla fragilità e alla temporaneità dei legami interumani. Inoltre, per raggiungere il rango di consumatori, ognuno di noi deve trattare se stesso come una merce vendibile, il che intensifica la continua frammentazione e atomizzazione della società. Per finire, segue la fascinazione per il Pil (che misura soprattutto le attività di consumo): la società dei consumatori non conosce altro modo per risolvere i problemi e affrontare i problemi sociali che incoraggiare la crescita economica, ingrandendo all’infinito la pagnotta da affettare piuttosto che dividerla giudiziosamente ed equamente».
L’idea dell’equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, basata sull’assunto che il progresso e lo sviluppo potessero risolvere di per sé la questione della disuguaglianza sociale, ha caratterizzato tutto il Novecento. La crisi è anche l’occasione per mettere in discussione l’idea della crescita e del progresso come fini in sé? «I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l’arricchimento è un valore che merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, che nel dialetto della congregazione planetaria della Chiesa della Crescita Economica significa consuma di più. Per la fede di questa Chiesta fondamentalista, tutte le strade verso la redenzione, la salvazione, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi. E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra. Ciò che è passato sotto il più assordante silenzio, è l’avvertimento di Tim Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita (ed. italiana Edizioni Ambiente 2011, ndr): alla fine di questo secolo “i nostri figli e nipoti avranno a che fare con clima ostile, risorse esaurite, distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile”. (…).».
(…). In un mondo in cui le vecchie coordinate della modernità solida stanno scomparendo, come individuare le domande più pertinenti e i problemi sociali a cui rispondere con più urgenza? «Viviamo in un tempo di vuoto (simile all’interregnum dell’antica Roma), un periodo in cui i vecchi metodi con cui facevamo andare avanti le cose risultano inefficaci, mentre non ne sono stati ancora inventati di nuovi. È un periodo di cambiamento, non di transizione, perché transizione implica un passaggio da un qui a un lì, e sebbene conosciamo piuttosto bene il qui da cui cerchiamo di fuggire non abbiamo idea del lì dove vorremmo arrivare. (…). Oggi (…) i poteri che determinano la nostra condizione – la finanza, gli investimenti di capitale, il commercio – sono di natura globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti; allo stesso tempo, la politica rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato. Oggi la domanda vitale è chi lo farà, nel caso dovessimo decidere ciò che c’è da fare».
Gli «indignati» sostengono che a «fare le cose» non debbano più essere quelli che le hanno fatte finora. (…). Lei cosa ne pensa? «I manifestanti di Manhattan, così come i giovani e meno giovani del movimiento los indignados, sono privi di leader, provengono da ogni tipo di vite, razze, religioni e campi politici, sono uniti soltanto dal rifiuto di lasciare che le cose procedano come ora. Ognuno di loro ha in mente un’unica barriera o muro da mandare in frantumi o distruggere. Le barriere variano da Paese a Paese, ma ciascuna è ritenuta quella il cui smantellamento è destinato a mettere fine a tutte le sofferenze. Sulla forma che dovranno prendere le cose, ci si interrogherà solo in seguito. Combinare un unico obiettivo di demolizione con un’immagine vaga del mondo che verrà è la forza di questi manifestanti, ma anche la loro debolezza. Sono abili demolitori, ma devono ancora dimostrare di essere abili costruttori. In ogni caso, se i due giovincelli di Rhineland, Marx ed Engels, si sedessero ora a redigere il loro ormai bicentenario Manifesto, potrebbero inaugurarlo con l’osservazione che uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro dell’indignazione».
L’indignazione è in primo luogo il frutto della crisi economico-finanziaria. In «Vite che non possiamo permetterci», scrive che la crisi dimostra che «il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca (se cerca) di risolvere i problemi, ma quando li crea», e che «non può essere contemporaneamente sia coerente che completo». Intende dire che il capitalismo è un sistema parassitario? «Cento anni fa, Rosa Luxemburg ha compreso il segreto dell’inquietante abilità del capitalismo di risorgere ripetutamente dalle ceneri; una capacità che si lascia dietro una scia di devastazione: la storia del capitalismo è segnata dalle tombe degli organismi viventi la cui linfa vitale è stata succhiata fino all’esaurimento. (…). Ragionando secondo queste coordinate, la Luxemburg non poteva far altro che anticipare i limiti naturali alla possibile durata del sistema capitalista: una volta che tutte le terre vergini del globo fossero state conquistate, l’assenza di nuove terre sfruttabili avrebbe portato il sistema al collasso. La profezia della Luxemburg si sta per avverare? Non lo credo. Nell’ultimo mezzo secolo, il capitalismo ha imparato l’arte prima sconosciuta di produrre sempre nuove terre vergini. Questa nuova arte, resa possibile dal passaggio dalla società di produttori alla società di consumatori, fa sì che il profitto e l’accumulazione consistano soprattutto nella progressiva mercificazione delle funzioni della vita, nel sostituire il desiderio al bisogno come volano dell’economia. La crisi attuale deriva dall’esaurimento di una terra vergine artificialmente creata, quella costruita sulla cultura delle carte di credito. In linea di massima, lo sfruttamento di questa particolare terra vergine è ora finito, e ai politici è stato lasciato il compito di ripulire i detriti lasciati dal banchetto dei banchieri».
Quali sono le conseguenze del passaggio dalla società solida dei produttori a quella liquida dei consumatori? «In una società di produttori i profitti venivano generati dall’incontro tra il capitale e il lavoro, e in un certo senso il capitalismo era un fattore di risentimento collettivo. Nella società dei produttori, i profitti vengono dall’incontro tra la merce e il cliente; si tratta di un evento solitario, che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione. Formati socialmente innanzitutto come consumatori e solo in secondo luogo come produttori, siamo addestrati a modellare le relazioni interumane sul modello della relazione del consumatore con i beni di consumo. Ciò porta alla fragilità e alla temporaneità dei legami interumani. Inoltre, per raggiungere il rango di consumatori, ognuno di noi deve trattare se stesso come una merce vendibile, il che intensifica la continua frammentazione e atomizzazione della società. Per finire, segue la fascinazione per il Pil (che misura soprattutto le attività di consumo): la società dei consumatori non conosce altro modo per risolvere i problemi e affrontare i problemi sociali che incoraggiare la crescita economica, ingrandendo all’infinito la pagnotta da affettare piuttosto che dividerla giudiziosamente ed equamente».
L’idea dell’equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, basata sull’assunto che il progresso e lo sviluppo potessero risolvere di per sé la questione della disuguaglianza sociale, ha caratterizzato tutto il Novecento. La crisi è anche l’occasione per mettere in discussione l’idea della crescita e del progresso come fini in sé? «I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l’arricchimento è un valore che merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, che nel dialetto della congregazione planetaria della Chiesa della Crescita Economica significa consuma di più. Per la fede di questa Chiesta fondamentalista, tutte le strade verso la redenzione, la salvazione, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi. E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra. Ciò che è passato sotto il più assordante silenzio, è l’avvertimento di Tim Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita (ed. italiana Edizioni Ambiente 2011, ndr): alla fine di questo secolo “i nostri figli e nipoti avranno a che fare con clima ostile, risorse esaurite, distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile”. (…).».
Già, Ettore. Dobbiamo imparare a dividere la pagnotta. Hai sentito a "Servizio Pubblico" Serge Latouche? Nel mio piccolo cerco di consumare poco e cercare di avere pochi soldi. Affettuosamente. Franca mMria.
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