L´equità è un´uguaglianza cui sono state messe le braghe, (…). Bisognava farlo, perché ci fu un momento in cui l´uguaglianza smise di essere guardata negli occhi, e pagò il pegno della temerarietà. Fu allora che le cose cominciarono a essere guardate di sotto in su, dal lato della disuguaglianza, e lo spettacolo era davvero madornale. Sul conto dello scandalo per l´appiattimento e il livellamento si banchettò a oltranza per qualche decennio, e la disuguaglianza – di soldi e di potere – non fece che moltiplicarsi. Non passa giorno senza che le statistiche ne registrino nuovi record. Assoluti, e non solo relativi. Non, cioè, di redditi che crescono, benché gli uni molto di più degli altri, bensì dei redditi che crescono a dismisura mentre gli altri diminuiscono. Le statistiche arrivano a sancire quello che le persone avevano capito da un bel po´, però fanno sempre il loro effetto. (…). Si è (…) insistito sul ruolo dell´invidia sociale, sul suo ripiegamento sul vicino, sulla sobillazione della guerra fra i poveri. È vero, può arrivare un punto in cui i poveri antepongano il desiderio della rovina altrui a quello del proprio miglioramento. Però non va sottovalutata nemmeno la disgrazia dei ricchi (…). Si dovrebbe spiegare ai ricchi che anche se i poveri non fossero troppo poveri, i ricchi sarebbero lo stesso piuttosto odiosi e odiati. Non lo capirebbero. I ricchi infatti sarebbero infelici se non ci fossero i poveri, e in particolare i troppo poveri. È quella, la ricchezza. È un confronto. Voi e noi. (…). Secondo Luca, Gesù disse: “Beati i poveri…”, e però completò: “Ma guai a voi, i ricchi…”. In economia come in psicologia, sulla terra come nel regno dei cieli, ricchi e poveri si tengono come due che facciano l´altalena, e però un trucco ha bloccato l´altalena. E anche quando a furia di puntare i piedi si compie uno sblocco improvviso – una rivoluzione, diciamo – quelli arrivati su si arrangiano a restarci. Nel vangelo del resto la sfortuna dei bonus e delle liquidazioni dei manager era stata annunziata con una spiritosa comprensione: il giovane cui il Maestro propone di vendere tutto, dare il ricavato ai poveri e seguirlo, si rabbuia e se ne va tutto rattristato, “perché era molto ricco”, il poveretto. (…). “A chi ha sarà dato e sarà nell´abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” – ma Matteo, inflessibile coi ricchi, sta parlando del vantaggio cumulativo di chi ha la grazia e il senso delle cose divine, non di soldi. Infatti la disuguaglianza e la sua crescita illimitata coprono una quantità di campi: e se ce n´è uno che, nonostante gli scandalosi privilegi nella scuola e l´istruzione, vede più equilibrata o a volte rovesciata la piramide è il sapere, dal momento che ricchi e potenti sono spesso, e non per caso, ignoranti, e giovani e precari, non a caso, capaci di conoscenza e saperi. (…). Difficile sollecitare una crescita senza favorire i consumi, impossibile uscire dalla pania senza convertire produzioni e consumi. (…). Il testo trascritto è tratto da “La nostalgia dell´uguaglianza” di Adriano Sofri, pubblicato sul quotidiano la Repubblica. L’idea, e l’immagine che ne consegue, dell’uguaglianza ridotta in braghe mi ha affascinato ed intrigato assai. Magia della scrittura sempre sagace, intelligente ed intrigante di Adriano Sofri. Ma in braghe il capitalismo della finanza ci ha condotto veramente e docilmente, tenendoci amabilmente per mano, nei decenni trascorsi, trasformandoci nelle cavie, non tanto innocenti quanto sprovvedute e/o poco accorte, di un esproprio che un tempo si sarebbe detto proletario, poiché condotto da altri soggetti sociali, ma che oggi dovrebbe essere diversamente aggettivato per essere rispondente alla durissima realtà sociale del mondo capitalistico avanzato. È tutto avvenuto come nelle stupende vignette di Altan, nelle quali l’ombrello, nel senso proprio fisico del termine, diviene lo strumento di violenza e di sottomissione sociale propria del capitalismo finanziario. Tanto è vero che oggigiorno suona terribile e fuori moda il lemma uguaglianza, per la quale non poco sangue è stato versato a tutte le latitudini. Oggi è di moda dire dell’equità, di un qualcosa che non disturba lor signori e che può essere presentato nelle versioni e/o varianti più disparate. È tutto oramai un inneggiare all’equità con l’evidente limite che essa si presenta, almeno al momento, solamente come una concessione feudale di quelle stesse categorie sociali, capitalisti-finanziari e banchieri in prima fila, che di fatto hanno abolito il termine uguaglianza non nei codici scritti, ché del misfatto si guardano bene, ma nei fatti reali della vita presente e futura di milioni di esseri viventi. Aveva scritto George Soros, un capitalista come pochi altri, nel Suo “La crisi del capitalismo globale. La società aperta in pericolo” (1998): “Il sistema capitalistico non mostra di per sé alcuna tendenza all’equilibrio. I possessori di capitali cercano di massimizzare i loro profitti. Se venissero lasciati fare di testa propria, continuerebbero ad accumulare capitale fino a creare una situazione di squilibrio. 150 anni fa, Marx ed Engels fornirono un’ottima analisi del sistema capitalistico, sotto alcuni aspetti migliore, devo dire, della teoria dell’equilibrio dell’economia classica… Il motivo principale per cui le loro spaventose previsioni non si sono avverate è stato dovuto agli interventi politici compensativi attuati nei Paesi democratici. Purtroppo, ancora una volta rischiamo di trarre conclusioni sbagliate dalle lezioni della storia. Tale pericolo proviene non dal comunismo, ma dal fondamentalismo del mercato". La lezione che ci viene oggi dalla Storia è che al capitalismo-finanziario è stato concesso di fare di testa propria, con gli stupefacenti e mirabolanti risultati di una crisi irrisolvibile. Senza scomodare il pensiero del grande magnate a lanciare o rilanciare l’allarme fu anche il professor Giorgio Ruffolo in un editoriale, steso come racconto per i posteri, che ha per titolo La mutazione del capitalismo, editoriale pubblicato sul quotidiano la Repubblica (6.07.2011) che di seguito trascrivo in parte. (…). «A circa tre quarti del ventesimo secolo i governi dei paesi anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, presero la storica decisione di liberalizzare i movimenti internazionali dei capitali. Diventò possibile trasferire capitali da un punto all´altro del mondo alla ricerca del massimo profitto. Fino ad allora, nel regime instaurato a Bretton Woods questa possibilità era stata assoggettata a severe limitazioni. Queste limitazioni avevano reso possibile un patto fondamentale tra capitale e lavoro, cuore del compromesso tra capitalismo e democrazia, che contraddistinse quella che fu chiamata da un grande storico di quei tempi l´età dell´oro. I capitalisti rinunciavano alla ricerca del massimo profitto e i sindacati alla piena utilizzazione del loro potere contrattuale. Ambedue subordinavano le loro pretese al vincolo dell´aumento della produttività. Si chiamava politica dei redditi e assicurò qualche decennio di crescita sostenuta accompagnata da alta occupazione del lavoro e da equilibrata distribuzione dei redditi. La liberazione dei movimenti di capitale fece saltare questo tacito patto con conseguenze economiche e sociali contraddittorie. Masse di capitali affluirono nei paesi poveri suscitandovi imponenti processi di sviluppo soggetti a improvvisi e devastanti deflussi. Nei paesi ricchi quella decisione provocò invece una vera e propria mutazione del capitalismo. La ricerca del massimo profitto nel minimo tempo sviluppò le attività finanziarie e speculative rispetto alla produzione reale. Ne risultò un rallentamento della crescita e uno spostamento dei redditi dal settore reale a quello finanziario accompagnato da un aumento vertiginoso delle diseguaglianze. Sul piano mondiale si verificò un altro processo sconvolgente. Il risparmio dei paesi poveri investiti dallo sviluppo fu attratto dai mercati finanziari dei paesi ricchi che gli garantivano sicurezza e rendimenti elevati. Invece di alimentare i bassi consumi dei primi finanziò i consumi eccessivi dei secondi instaurando una condizione di squilibrio permanente delle bilance dei pagamenti. Ma gli squilibri non si produssero soltanto nello spazio, investirono il tempo. L´accumulazione finanziaria fu finanziata sempre più dai redditi futuri, sotto forma di indebitamento: come dire, vivendo alle spalle dei posteri. Questo fenomeno assunse caratteristiche sistematiche, al punto che un economista definì il nuovo capitalismo come il regime economico in cui i debiti non si pagano mai, ma sono sistematicamente rinnovati. Qualcuno di voi mi domanderà: era sostenibile una tale condizione di cose? La risposta è: no. (…).
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